CORDOVA, Filippo
Nacque ad Aidone (Caltanissetta) il 1° maggio 1811 da Francesco e da Giuseppa Cordova, discendenti entrambi dal nobile catalano Pedro de Cordova y Aguilar. Affidato alle cure di un dotto zio, Nicolò Scovazzo, si rivelò precocissimo negli studi letterari, oltre che dotato di una memoria ferrea, e tra i dieci e i tredici anni componeva tragedie in versi di stampo classico. Poi prese a seguire i corsi di diritto all'università di Catania dove si laureò il 1° sett. 1829. Passato a Palermo ad esercitare nello studio di A. Agnetta, approfondiva intanto la conoscenza della lingua e del sistema costituzionale inglesi. Nel 1838, dopo un lungo viaggio nell'Italia centro settentrionale, approdò a Clermont-Ferrand per partecipare ad un congresso scientifico.
È lo stesso C. a ricordare che una sua memoria interpretativa del Paradiso perduto di Milton vi riscosse il consenso degli inglesi presenti, ma questa sua conoscenza dell'argomento è forse da connettere con la traduzione che del poema di Milton aveva compiuto un altro degli Scovazzo, l'abate Gaetano.
Fu questa, comunque, l'ultima sortita del C. sul terreno della poesia: al ritorno in Sicilia, guardato con sospetto dalla polizia napoletana per i contatti allacciati con gli ambienti colti, cominciò a seguire la sua vera vocazione, quella di amministratore esperto in questioni demaniali. Già segretario del Consiglio provinciale di Caltanissetta, fu nel '39 chiamato alle funzioni di consigliere d'intendenza della stessa città, ed in questa duplice veste esaminava i reclami dei comuni vittime delle prepotenze dei baroni; e con un Avviso del 29 ag. '39 esprimeva parere contrario alle pretese di riscossione delle decime accampate dal clero di Girgenti: notevole, in questo caso, il fatto che il criterio della pubblica utilità, su cui il C. basava il giudizio di illegittimità delle decime, era anteposto allo stesso accertamento del carattere apocrifo del documento che le avrebbe autorizzate. Per la reazione dei ceti colpiti il C. fu inviato in domicilio coatto a Palermo ma continuò ad assistere i comuni che rivendicavano la reintegra degli usi civici: questa esperienza gli suggeriva poi due memorie, una inviata al congresso scientifico di Nîmes (1844), la altra presentata a Napoli al VII congresso degli scienziati (1845).
Il problema dell'affrancamento delle terre, di capitale importanza per l'economia agricola siciliana e per tutta la struttura sociale dell'isola, era così sottoposto al giudizio delle classi colte d'Europa e d'Italia e presentato come preminente proprio mentre in Sicilia prendeva faticoso avvio il tentativo di creare un embrione di borghesia terriera. Nella memoria del '45, Sull'abolizione dei diritti feudali e la divisione dei demani in Sicilia, il C., premesso che il sistema feudale "toglieva la proprietà del suolo all'industre colono e la dava all'indolente desidia d'una funesta aristocrazia militare", imprimeva una decisa svolta al pensiero giovanile passando dall'ammirazione per il modello inglese all'esaltazione del riformismo francese postrivoluzionario. Cercando infatti nel passato più recente le cause del fallimento della legge eversiva dei feudi (2 giugno del 1813), il C. rinveniva il principale ostacolo ad ogni mutamento nella supremazia vantata dall'aristocrazia siciliana sui comuni: una supremazia di stampo inglese che, a dire del C., era stata intaccata solo dopo l'insurrezione del '37, quando Ferdinando II, "mosso dai reclami del popolo, ordina agl'intendenti delle provincie d'indagare e descrivere i soprusi feudali... e dividere i demani". La resistenza di Palermo (vera roccaforte del feudalesimo dove "le parti de' già signori sono in aperta preponderanza") a questi sforzi riformistici spingeva il C. a chiedere nella conclusione una maggiore fermezza al governo sulla scorta degli esempi della legislazione francese, "precorritrice di ogni odierno progredimento dei popoli latini".
L'invocata severità non ci fu, tanto che nel '61 il C., ministro dell'Agricoltura del Regno d'Italia, affermerà che "l'azione esercitata dalla luogotenenza dal 1838 al 1848 fu una delle cause della rivoluzione del '48". Il C. ne fu un protagonista sia nella fase organizzativa, come segretario del comitato rivoluzionario di Caltanissetta, sia in quella dell'esperienza costituzionale cui presenziò come deputato del comune natale, facendo leva su una cultura solidissima, su un'oratoria asciutta quanto incisiva, su una capacità di lavoro senza pari e su una perfetta conoscenza della realtà isolana. Politicamente la sua posizione non aveva un contrassegno ideologico ben definito, ed è erronea l'affermazione di chi gli attribuisce "idee spiccatamente democratiche" e lo definisce "fervente mazziniano" (F. Brancato, L'Assemblea sicil. ..., p. 120; Id., La Sicilia nel primo ventennio p. 70), perché il pensiero del C., per quanto venato di radicalismo, si muove pur sempre nell'ambito del liberalismo ottocentesco; e i suoi non rari interventi contro gli interessi dei ceti dominanti rientrano comunque in una visione generale, quella monarchico-federalistica, che è tipica del moderatismo borghese dell'epoca.
Il suo modello, significativamente, non è Rousseau, la cui esaltazione della volontà generale può "alienare la libertà, l'indipendenza, la vita e tutto" (LeAssemblee del Risorgimento: Sicilia, Roma 1911, I, p. 867), ma è Romagnosi, come egli stesso afferma alla Camera il 12 giugno 1848in un discorso ricco di mordente, una summa delle idee del C., che articola la sovranità nella triade individuo municipio nazione: "Il municipio provvede, nell'interesse dei più, che la libertà del cittadino non si estenda oltre il suo limite naturale, che è la libertà dell'altro cittadino... la Nazione frena il Municipio allorché nello sviluppo delle sue forze può nuocere alla libertà di svilupparsi degli altri Municipi, degl'individui, dello Stato; ma non può incatenarlo allorché agisce nei limiti della sua competenza. La sovranità così concepita con Romagnosi e con tutto il mondo del sec. XIX non è che il custode dei limiti dei diritti, e non mai depositaria e molto meno erede di tutti i diritti politici" (ibid., p. 867). Sinoti inoltre che il rilievo dato dal C. al municipio come elemento portante della sovranità popolare, pur rientrando nella tradizione dell'autonomismo isolano, non va inteso come esigenza di una limitazione del potere centrale: su questo punto l'azione del C. si caratterizza come la più originale rispetto a quella degli altri rappresentanti: "la libertà d'azione delle autorità municipali - dichiara esplicitamente il 24aprile - non dev'essere tanta da potersi mettere in ribellione contro l'interesse generale della nazione" (ibid., p. 262).L'esperienza del passato gli fa sentire l'esigenza di uno Stato forte, capace d'intervenire "a favore degli amministrati e contro i patrizi del municipio, allorché usurpano il demanio, o consumano le sostanze dei presenti e dei posteri" (ibid., p. 263), e di annullare particolarismi e privilegi ponendo "un giusto limite alla soverchia indipendenza dei Municipi" (ibid., p. 470), in contrasto con la linea di chi, come il Perez, vuole che "ogni comune negli affari suoi sia libero e indipendente" (ibid., p. 478).
Ma l'attenzione prestata dal C. alle enunciazioni di principio non andava mai a scapito della concretezza: "Il meglio è il più gran nemico del bene" (ibid., p. 772), soleva ribattere a chi, mirando a soluzioni ottimali, ritardava l'attività legislativa; e un certo fastidio per, un apparato burocratico pletorico lo portava a proporre, al posto di nuovi tribunali, investimenti produttivi per l'agricoltura. Il C. fu realista anche a costo di scontrarsi con i democratici, come quando auspicava un forte potere monarchico che garantisse il popolo dall'onnipotenza delle Camere, parziali in quanto espressione di "un patriziato di nascita o di opulenza o di capacità conosciute" (ibid., p. 1080). E il realismo fu il tratto distintivo del dicastero delle Finanze affidatogli nel governo Torrearsa il 13 ag. '48: con la reazione borbonica in atto e le finanze dissestate il C., che proprio in nome di una più rigorosa politica finanziaria aveva attaccato il precedente governo, fece subito approvare un progetto di prestito internazionale, chiese la requisizione dei tesori di chiese, luoghi pii e corpi morali a copertura dei prestiti, presentò infine (11 sett. '48) una legge per la vendita di parte dei beni nazionali approvata nonostante l'opposizione, forse personalistica, del democratico P. Calvi, che vi vide il tentativo di dar vita ad una borghesia terriera. Ma la misura cui più si lega il nome del C. come ministro è il decreto di abolizione del dazio sul macinato (13 ott. '48), motivato dall'alto costo della riscossione e soprattutto dalla speranza di spingere le masse alla difesa dell'ormai declinante rivoluzione.
Quest'energia non piacque ai Pari che palesarono la loro sfiducia chiedendo che il C. esibisse tutta la documentazione relativa alle trattative avviate a Parigi per un altro prestito. Attaccato da destra per il suo anticlericalismo e da sinistra per la sua durezza, contrariato dalla presentazione di un progetto di prestito forzoso a suo parere inopportuno e vista vacillare la compattezza del governo, il C. presentò il 28 novembre e il 29 dicembre le proprie dimissioni che, ritirate entrambe le volte per il voto di fiducia della Camera, divennero irrevocabili il 13 genn. '49. Il Torrearsa, che le aveva disapprovate, le giudicò in seguito una prova di debolezza. Il C. in effetti parve desideroso di lasciare i lavori dell'Assemblea, e il solo intervento notevole ebbe luogo per difendere l'abolizione del dazio sul macinato e individuare nei "più grandi proprietari di Palermo" (ibid.,III, p. 125) i veri nemici del provvedimento. L'ultimo impegno lo esplicò nella direzione di un giornale da lui fondato, la Luce. Poi, con la reazione alle porte e a Parlamento già chiuso, il 21 apr. '49 si imbarcò per Marsiglia: il governo restaurato lo escluse dall'amnistia e aprì un procedimento per cui lo si obbligava, stando a M. Amari che era colpito dalla stessa misura, "a rimborsare a Sua Maestà bombardatrice il valsente delle cambiali, che mandammo a Londra pei vapori" (Cart. M. Amari, III, p. 105).
Da Marsiglia il 29 luglio il C. si portò a Torino: il passato di ministro gli garantiva qualche riguardo da parte degli uomini politici piemontesi, che lo presentarono a M. d'Azeglio, allora primo ministro. Per lui, nel clima di elezioni aperto dal proclama di Moncalieri, il C. volle stendere un opuscolo, Un criterio pegli elettori di Piemonte, e pubblicarlo anonimo. Quasi contemporaneamente (19 dic. '49) entrava come resocontista parlamentare nella redazione del cavouriano Risorgimento e si legava agli esponenti del futuro gruppo dirigente piemontese. Mentre i moderati coltivavano il mito dell'autonomia siciliana e i democratici aprivano il processo a chi, come il C., gestendo la rivoluzione l'aveva a loro dire soffocata, il C. era il solo siciliano di spicco a lasciarsi risolutamente alle spalle il passato e ad accettare di collaborare con uomini politici piemontesi. Qualcuno tra gli esuli parve non approvare questo suo disimpegno e bollò "la bassezza e la servilità della sua condotta" (G. D'Ondes a L. Cottù, in Il carteggio del m.se di Roccaforte, p. 84); ma nella scelta di vivere all'ombra di Cavour, di sentirsi onorato dai suoi inviti, di lavorare per lui, c'era forse anche un bisogno di tranquillità economica e dì promozione sociale: e la direzione del Risorgimento (1852), quella successiva (1853-54) del Parlamento, il giornale voluto da Cavour in sostituzione del Risorgimento in cui P. C. Boggio non aveva appoggiato la svolta politica del connubio, la nomina a socio della genovese Accademia di filosofia italica, la collaborazione al Cimento, loinsegnamento del diritto amministrativo nell'Istituto superiore di commercio di Torino, rappresentarono i momenti salienti dell'ascesa del C., che vide invece deluse le speranze di un suo ingresso in politica. Da ciò una certa freddezza verso Cavour ed uno spostamento a sinistra verso Rattazzi, destinato a rientrare alla vigilia del '60.
Particolarmente fruttuosa fu la collaborazione del C. al Cimento, la rivista della cultura meridionale in esilio, sulla quale nel '52 apparve un suo lungo saggio sui Siciliani in Piemonte nel sec. XVIII: il C. vidimostrava notevoli doti di storico, non solo esponendo con misura, senza eccessi apologetici, il contributo dato dai siciliani al progresso civile e intellettuale del Piemonte del sec. XVIII, ma anche rintracciando nel primo ventennio del '700 l'esistenza d'un importante filone di cultura siciliana e dei suoi collegamenti informali con la migliore cultura europea, quella del razionalismo laico e della reazione al cattivo gusto barocco. Il sottinteso senso politico del saggio poteva essere l'auspicio d'una ripresa del rapporto tra Sicilia e Piemonte. In ogni caso un secondo saggio, su La casa di Savoia, apparso nel '54 per ribattere alle polemiche della stampa austriaca sull'illegittimità delle pretese sabaude sull'Italia in forza delle origini straniere della dinastia, nel suo difendere il buon diritto di casa Savoia ad essere considerata dinastia nazionale grazie alla sua storia di concordia con i sudditi e ai suoi "otto secoli di fede intemerata, di alti concepimenti, di spiriti progressivi, di incrementi italiani", poneva chiaramente il C. tra i pochi siciliani dichiaratamente filosabaudi.
Il C. indubbiamente si aspettava qualche riconoscimento tangibile per questa sua attività: la delusione provata nel non vedersi "adoperato per cose politiche" da Cavour - il C. glielo avrebbe velatamente rimproverato qualche anno dopo (La liberazione del Mezzogiorno ..., 13 p. 316) - spiega forse il suo recupero all'ideologia siciliana e alla ripresa di contatti con gli altri esuli che, alla politica filofrancese di Cavour, replicavano con rinnovate pressioni sull'Inghilterra per un appoggio ai loro ideali separatistici. Altro elemento decisivo fu anche il favore trovato presso Cavour da G. La Farina, dal quale il C. era separato da un'avversione profonda, un misto di gelosia e di rancore verso colui che "avendo non so quanti collegi disponibili, non ha pensato a propormi deputato" (cfr. G. Minolfi, Le trattative ..., p. 340). E solo in parte lo compensava la carriera compiuta nella pubblica amministrazione, con il conferimento dell'Ufficio di statistica nel ministero degli Interni da parte di Cavour (1857) e con la promozione a direttore generale di statistica ad opera di Rattazzi (16 genn. '60). Nell'aprile del '60 il suo scontento si esprimeva nell'opposizione ad un indirizzo per la fusione col Piemonte proposto agli esuli meridionali da La Farina. Ancora ai primi di maggio, quando in lui stava svanendo lo iniziale scetticismo sulla riuscita dell'insurrezione siciliana, il C. criticava la decisione di Cavour di inviare La Farina nell'isola per affrettare l'annessione.
Fulmineo fu quindi il suo cambiamento, frutto forse d'un calcolo che gli suggeriva d'accodarsi ai vincitori prima che fosse troppo tardi. Si riaccostò così a Cavour che a fine giugno, poco prima dell'espulsione di La Farina da Palermo, lo spedì in Sicilia con gli stessi compiti. Le ultime deboli riserve del C. si sciolsero quando, individuato in Crispi il vero avversario, capì che l'annessione incondizionata era il solo mezzo per impedire un esito repubblicano, che era ciò che temevano anche quegli esponenti della aristocrazia con cui strinse alleanza; presto avrebbe affermato di essere "divenuto il torinese più torinese del mondo" (Carteggio pol. di M. Castelli, I, p. 319).Dello scontro con Crispi e degli sforzi per neutralizzarne l'azione, almeno sul piano finanziario, dal posto di procuratore generale della Corte dei conti assegnatogli all'arrivo a Palermo, il C. diede minuzioso conto a Cavour, della cui volontà si fece mediatore presso Depretis nel momento in cui questi assunse la carica di prodittatore (21 luglio). Votatosi all'annessionismo puro e semplice, il C. fu preso di mira dai garibaldini che videro in lui lo strumento di una precisa politica; il C. rispose esercitando pressioni su Depretis e tempestandolo di indirizzi dalle province per l'unione immediata al Piemonte: alla fine, per anticipare quella decisione che Garibaldi esitava a prendere, giunse a consigliargli un "colpetto di stato da maître du palais" (La liberaz. del Mezzogiorno, II, p. 139).Ottenne soloun logoramento della sua posizione, già compromessa per il rifiuto opposto, previa consultazione con Cavour, all'invito di Depretis di assumere le Finanze in un ministero prodittatoriale che aveva Crispi agli Interni; equando cercò di forzare ancora la mano a Depretis con l'ennesima petizione, Garibaldi gli ordinò di lasciare Palermo e raggiungere Napoli.
Risolta col plebiscito la spinosa questione, il C. tornò in Sicilia all'inizio di dicembre: giudicandolo "le seul sicilien capable d'administrer les finances dans l'Ile" (Carteggio Cavour-Nigra, IV, Bologna 1929, p. 280), Cavour lo aveva voluto consigliere della luogotenenza Montezemolo a fianco di La Farina. Ma la permanenza a Palermo durò poco: preceduti dalla fama di antigaribaldini e fatti segno, soprattutto La Farina, ad una serie di manifestazioni da parte di quanti temevano gli effetti della loro azione, il C. e il La Farina rinunziarono all'incarico subito dopo l'elezione all'VIII legislatura. Il C. tornò in Piemonte e, scomparso Cavour che in aprile lo aveva nominato segretario generale delle Finanze, entrò nel primo ministero Ricasoli col portafoglio della Agricoltura. Per volontà del re, suo compito precipuo fu quello di preparare l'avvento al potere di Rattazzi, figura più gradita a Napoleone III: il C. si prestò alla bisogna, e fu la sua azione, di concerto con l'insoddisfazione più volte espressa da Vittorio Emanuele, a indebolire il governo e ad indurre Ricasoli alle dimissioni 1° marzo '62). Lo stesso giorno batteva Garibaldi nell'elezione a gran maestro della massoneria, setta che sotto la sua direzione avrebbe perso il carattere di organizzazione pararivoluzionaria per diventare filogovernativa. A testimoniare l'alto livello tecnico della sua gestione ministeriale restavano i lavori del primo censimento nazionale e la perfetta organizzazione dell'Ufficio centrale di statistica.
Nel nuovo governo Rattazzi il C. sperava di assumere gli Interni: ebbe invece la Giustizia che lasciò un mese dopo sotto la pioggia di critiche mosse dall'opposizione alle sue manovre contro Ricasoli. Fu, anche da un punto di vista fisico, un duro colpo, solo in parte temperato dalla nomina a consigliere di Stato, ma il C. riprese presto i suoi impegni: oberato dal lavoro, presente in un gran numero di commissioni, interveniva spesso alla Camera, "con tale velocità, con tanto seguito - aveva scritto qualche mese prima F. Petruccelli della Gattina (Imoribondi di palazzo Carignano, Milano 1862, p. 131) dandone un pungente ritratto - che sveglia nella nostra sala di legno e cartone una specie d'eco dispiacevole"; e aveva soggiunto: "...non è l'angelo della Destra della Camera, e la Sinistra ne diffida e non poco". Uscito dal governo, il C., risentito contro la Destra piemontese ed inviso a quella toscana, si schierò con la Sinistra votando contro sulla questione romana e polacca (20 giugno '63), sulle misure militari contro i renitenti alla leva in Sicilia (9 dic. '63). sul contenzioso amministrativo (9 giugno '64). sulla politica finanziaria del governo Minghetti (5 luglio '64). Si riavvicinò alla maggioranza con la crisi per il trasferimento della capitale: era il preludio al ritorno al governo, che avvenne il 20 giugno '66 dopo che già l'anno prima aveva attivamente partecipato alla discussione sulle leggi unificatrici di cui, in commissione, aveva posto in rilievo l'urgenza.
Nel ministero Ricasoli, con cui si era riconciliato, il C. resse l'Agricoltura e, dal 24 marzo al 9 apr. '67, la Giustizia. Quando tra il re ed il primo ministro affiorò una certa incomprensione, sembrò che il C. stesse per ripetere l'esperienza del '62; poi tutto si chiarì e, caduto Ricasoli, il C. rifiutò l'offerta di Menabrea, che lo voleva alle Finanze, e in Parlamento difese (13 luglio '67) la politica ecclesiastica di Ricasoli arrivando a sostenere, lui che un mese prima era stato rieletto gran maestro della massoneria, che "volere o non volere il sentimento religioso è la base più solida della moralità umana". Altre pressioni il C. subì da Menabrea nei primi giorni del '68, ma, riluttante ad entrare in "una combinazione che non offra speranza di durata" e temendo di restar vittima di una manovra mirante ad aggregare una compagine meno effimera dalla quale sarebbe stato escluso, fu irremovibile. Il 10 marzo '68 la Camera lo nominò presidente della commissione d'inchiesta sul corso forzoso, introdotto da Scialoja nel '66: in un turbinio di polemiche e di accuse il C. impostò i lavori della commissione sul convincimento, non da tutti condiviso e ritenuto erroneo dagli storici, che il provvedimento di Scialoja fosse immotivato sotto il profilo finanziario, economico e politico. Già da tempo malato di cuore, il 2 ag. '68 il C. volle recarsi alla Camera per perorare l'abolizione del corso forzoso, ma si sentì male sulle scale di Palazzo Vecchio.
Trasportato nella sua casa di Firenze, vi morì il 16 sett. 1868 dopo lunga agonia e non senza che si diffondessero i sospetti di un suo avvelenamento. La salma fu tumulata a Firenze nel cimitero di San Miniato.
Fonti e Bibl.: Fondamentali i quattro volumi in cui V. Cordova, nipote del C., ne raccolse Idiscorsi parlam. e gli scritti editi e inediti preceduti dai ricordi della sua vita, Roma 1889-93: il primo volume, da leggere criticamente, è una biogr. dello statista su materiale in parte pervenuto al Museo centr. del Risorg. di Roma e ivi custodito nel vol. 16, Carte F. Cordova. Lettere del C. sono conservate nella Biblioteca comunale di Aidone; per alcune edite si veda: Carteggio polit. di M. Castelli, a cura di L. Chiala, Torino 1890, I, pp. 131 s., 319; U. De Maria, L'opera degli emigrati polit. sicil. nel 1856, in Studi di storia e di critica dedicati a P. C. Falletti, Bologna 1915, pp. 379 s., 382; La liberaz. del. Mezzogiorno, Carteggi di C. Cavour, Bologna 1949-54 (per le pagine si veda il vol. di Indici, a cura di C. Pischedda, Bologna 1961, ad nomen);G. Minolfi, Episodi e figure di Aidone, in Archivio storico per la Sicilia orientale, XLV-XLVI (1949-50), pp. 169-93; Id., Le trattative dei profughi siciliani con Cavour attraverso una corrispondenza tra il m.se Fardella di Torrearsa e F. C., in Arch. stor. sicil., VII (1955), pp. 287-367; A. Carra, Una lettera ined. di F. C. e una di A. Mordini al m.se di Roccaforte, in Nuovi Quaderni del Meridione, III (1965), pp. 566-70; Carteggi di B. Ricasoli, a cura di S. Camerani, XXVI, Roma 1972, pp. 63 s., 178 s., 189 s. Altre fonti: E. Tavallini, La vita e i tempi di G. Lanza, I, Torino 1887, pp. 275 s.; Carteggio di M. Amari, a cura di A. D'Ancona, Torino 1896, I, pp. 331, 434, 499, 508; III, pp. 75, 77 s., 106, 233; Indice gen. degli Atti Parlam., II, Storia dei collegi elettorali, Roma 1898, pp. 125 s.; L. Chiala, G. Dina e l'opera sua nelle vicende del Risorg. ital., II, Torino 1899, pp. 25 s., 69, 75, 77 s., 87, 707, 709; A. Luzio, Aspromonte e Mentana, Firenze 1935, pp. 130, 138-42; Le relaz. diplom. tra la Gran Bretagna e il Regno di Sardegna. Il carteggio diplom. di J. Hudson, a cura di F. Curato, Torino 1956, II, p. 342; Carteggi di B. Ricasoli, cit. XXV, Roma 1971, pp. 42, 139, 241, 248 s., 269, 338, 357, 381, 385, 393, 48; s.; XXVI, pp. 14, 60 s., 64, 71, 94, 170, 183, 188, 191; Lettere di Rosalino Pilo, a cura di G. Falzone, Roma 1972, ad Ind.; Il carteggio del marchese di Roccaforte, a cura di M. Giordano, Palermo 1973, ad Ind.;G. Asproni, Diario politico, a cura di C. Sole-T. Orrù, II,III, IV, Milano 1976-1980, ad Indicem. Le biografie, compilate tutte sulla scorta di quella scritta dal nipote, aggiungono pochi elementi nuovi. Su tutte si segnala quella di A. Moscati, I ministri del Regno d'Italia, I, Napoli 1955, pp. 338-58 (con bibl.). Tra le altre citeremo: F. C., in Il Risorg. ital. Biografie st.-pol., a cura di L. Carpi, IV, Milano 1888, pp. 709-29; T. Sarti, Il Parlam. subalp. e naz., Terni 1890, ad nomen;A. Ranfaldi, F. C.: cenni biografici..., Catania 1908; F. Guardione, F. C., Catania 1913; Diz. Ris. naz., II, ad nomen. Sulla formaz. culturale e la partecipazione al '48: S. Squillaci, F. C. e la rivol. del '48-'49, Catania 1892; G. Mulè Bertòlo, La rivol. del 1848 e la prov. di Caltanissetta, Caltanissetta 1898, pp. 200-11, 220 s.; F. Brancato, L'Ass. sicil. del 1848-1849, Firenze 1946, ad Ind.; G.Rafiotta, F. C. dep. e ministro delle Finanze in Sicilia, in Atti del Congr. di studi stor. sul '48 sic., Palermo 1950, pp. 255-70; T. Mirabella, Pensiero polit. e giornalismo in Sicilia durante gli anni 1848-49, in Atti del Comit. trapanese per la st. del Risorg. ital., a cura di G. Di Stefano, Trapani 1957, ad Ind.;M. Condorelli, Stato e Chiesa nella rivoluz. sicil. del 1848, Catania 1965, ad Ind.;R. Romeo, Il Ris. in Sicilia, Bari 1970, ad Ind. Sul periodo torinese: P. Tournon, La fine de "Il Risorgimento", in Miscell. cavouriana, Torino 1964, ad Ind.; G. Ciampi, I liberali moderati sicil. in esilio nel decenniodi preparaz., Roma 1979, ad Ind. Sul '60: C. Maraldi, La rivoluz. sicil. del 1860, in Rass. st. del Risorg., XIX (1932), pp. 483 s., 497, 507, 509 s., 512, 518, 521 ss., 550, 561 s., 563, 565 ss., 569; F. Brancato, La Sicilia nel primo ventenniodel Regno d'Italia, Storia della Sicilia post-unificazione, Bologna 1956, ad Indicem; D. Mack Smith, Garibaldi e Cavour nel 1860, Torino 1958, ad Ind. Sull'attività del C. dopo l'Unità: S. Camerani, Le dimiss. del primo ministero Ricasoli, in Rass. st. toscana, X (1963), p. 181; C. Pavone, Amministr. centrale e amministr. periferica da Rattazzi a Ricasoli (1859-1866), Milano 1964, adInd.; R. Fracassi, Dal censimento dell'Unità aicensimenti del Centenario. Un sec. di vita destatistica it., Roma s. a., pp. 17, 23-40, 46-50, 53 s., 56, 67 s. Sul C. massone: A. Luzio, Lamassoneria e il Risorg. ital., Bologna 1925, I, pp. 304, 306, 312; II, pp. 13 ss., 20, 25, 27, 46, 90; A. A. Mola, St. della massoneria it. dall'Unità alla Repubblica, Milano 1976, ad Ind. (molto impreciso).