CIONI, Filippo
Nacque a Firenze il 14 dicembre 1461 da Cione di Giovanni e da una Alessandra della quale non conosciamo il cognome.
I Cioni erano una famiglia di artigiani e commercianti che godevano di una certa agiatezza: il nonno del C., Giovanni di Piero, forse originario di Settignano, era uno scalpellino che lavorava il marmo e che nel 1427 possedeva vari beni in città e in campagna; il padre Cione (morto prima del 1469) fu probabilmente aiutato dal matrimonio con l'Alessandra che gli portò una cospicua dote, e con il fratello Piero gestì nella via di Calimala una bottega di merciaio che doveva procurargli buoni guadagni. I due fratelli nella denuncia catastale del 1457 si dichiararono proprietari in comune di un discreto patrimonio, e la misura della loro tassazione sta a indicare che essi appartenevano a una fascia di contribuenti la cui posizione economica, secondo i calcoli di R. De Roover (Il Banco Medici dalle origini al declino, Firenze 1963, p. 43), era abbastanza elevata rispetto a quella dei ceti meno abbienti.
Dopo la morte di Cione, gli affari della famiglia furono guidati dal fratello Piero, che rimase celibe; probabilmente fu lui a indirizzare il nipote agli studi di notariato. Come gli altri giovani avviati alla carriera notarile, il C. dovette esercitarsi nella composizione di scritti legali e di vario carattere, imparare il latino e darsi quella preparazione che era richiesta per ottenere l'immatricolazione presso l'arte dei giudici e notai. Nella professione notarile iniziata nel 1486 ebbe successo e riuscì a guadagnarsi il favore di una qualificata clientela composta in misura considerevole di istituti religiosi e di nobili che avevano un buon giro di interessi e di affari. Almeno per alcuni anni furono suoi clienti anche i frati del convento di S. Marco.
Il C. proveniva da una famiglia che non aveva esercitato cariche pubbliche importanti e non prese perciò parte alla vita politica del suo tempo: non fu neanche membro del Consiglio generale creato a Firenze nel 1495 dopo la caduta del regime mediceo. Probabilmente dotato fin dalla giovinezza di una viva sensibilità religiosa, dovette diventare un seguace entusiasta dei Savonarola non appena la predicazione di lui cominciò a suscitare interesse fra i Fiorentini. Acquistò notorietà come traduttore di tre scritti latini composti dallo stesso Savonarola e da Paolo da Fucecchio fra l'aprile 1497 e il febbraio 1498.
Ai primi di aprile del 1497 l'agostiniano fra' Leonardo da Fivizzano, dopo averlo aspramente attaccato (forse per istigazione di Ludovico il Moro) in una sua predica del 24 marzo, affisse in S. Spirito a Firenze tredici "conclusioni" nelle quali negava che il Savonarola avesse poteri profetici e speciali virtù religiose. A fra' Leonardo rispose, in difesa del frate di S. Marco, il teologo francescano maestro Paolo da Fucecchio con uno scritto latino che fu presto pubblicato nella versione volgare del C. ([Responsioni] di M. Paolo da Fucecchio de l'ordine de' frati minori contro alle conchisioni et corelatiard publicate in nome di frate Leonardo de l'ordine di S. Augustino contro al rev. padre frate Hieronymo da Ferrara [Firenze, Lorenzo Morgiani, dopo l'aprile 1497], poi in G. F. Pico della Mirandola, Vita R. P. fr. Hieronymi Savonarolae Ferrariensis, a cura di J. Quétif, Parisiis 1674, II, pp. 51 ss.). Alla traduzione delle Responsioni di Paolo da Fucecchio il C. premise una Epistola dove attaccava i nemici dei piagnoni e aggiunse poi alcuni versi nei quali ricordava ai peccatori l'immancabile castigo che li attendeva dopo la morte. È molto probabile che la pubblicazione di questo opuscolo fosse stata fatta per suggerimento del Savonarola, che di lì a poco fece tradurre al C. un suo scritto latino che aveva preparato - dopo una lettera diffusa prontamente in volgare - in risposta alla scomunica papale pubblicata contro di lui a Firenze il 18giugno (Epistola fratris Hieronymi Ferrariensis ordinis predicatorum contra sententiam excommunicationis contra se nuper iniuste latam [Firenze, Lorenzo Morgiani e Johann Petri, dopo il 20 giugno 1497]). L'opuscolo dava il testo latino (poi ripubblicato in Pico, Vita, cit., II, pp. 191 ss., e in G. Savonarola, Le lettere, a cura di R. Ridolfi, Firenze 1933, pp. 146-150) della lettera savonaroliana e la versione del C., che anche in questo caso aggiunse una sua Epistola (ristampata da F. Tocco, IlSavonarola e la critica tedesca, Firenze 1900, pp. XXIX ss.) nella quale sosteneva vigorosamente la tesi della invalidità della scomunica lanciata contro il Savonarola e aggiungeva che gli avversari di lui - i "tiepidi" -, che l'avevano promossa e la esaltavano, non erano spinti da zelo cristiano ma da odio e bassa invidia. Egli non si tirò dunque indietro in quegli scabrosi frangenti che vedevano i piagnoni in aperta lotta contro Alessandro VI. Poco dopo, per la nota petizione dell'estate del 1497 a favore del Savonarola (Ridolfi, Vita, pp. 306, 619), fu incaricato di ricevere le firme dei cittadini che approvavano il documento da inviare a Roma: e per la collaborazione data allora ai frati di S. Alarco ebbe in seguito, dopo i processi del 1498, una multa da parte del governo.
L'ultima impresa per la quale il C. viene ricordato è la versione che pubblicò nel febbraio 1498 di seguito alla Expositioin septem gradus S. Bonaventurae (poi ripubblicata, nel testo latino, in Pico, Vita, cit., II, pp. 154 ss.) del Savonarola (Tractato d'i septe gradi per li quali si ascende alla sommità della vita spirituale, composto in lingua latina dal ven. in Christo Padre frate Hieronymo da Ferrara ad instantia del Magnifico chavalieri et doctor Miser Agamennone Marscoto [Marescotti] de' Calvi Patritio bolognese et dal decto Philippo [C.] in vulgar lingua tradocto. Anno Domini MCCCCLXXXXVII, del mese di Febraio [Firenze, Bartolommeo de' Libri]). Alla sua volgarizzazione il C. aggiunse una lauda (ristampata dal Crescimbeni, Dell'istoria, pp. 324 s.) in onore di "Christo Re" e una lettera alle suore domenipane di S. Lucia di Firenze nella quale esaltava con parole appassionate le dottrine del maestro e diceva di aver voluto divulgare con la sua traduzione gli "infiniti tesori et secreti" che la bontà divina diffondeva allora per bocca di lui.
Le lettere e le poesie pubblicate dal C. negli opuscoli delle sue traduzioni sono le uniche testimonianze che ci restano delle sue idee religiose e della sua personalità. In questi scritti egli manifesta una profonda fede, nelle profezie del Savonarola, nelle quali vede l'espressione della infinita saggezza di Dio, che in tempi difficili ha inviato un religioso di doti eccezionali con la missione di predicare agli uomini fuorviati dalle passioni la vera dottrina cristiana. Come altri piagnoni, parla con ripugnanza della iniquità degli avversari, dominati dai vizi e dallo spirito del male, e nelle sue parole è facile sentire gli echi della tensione provocata dagli attacchi mossi da più parti al Savonarola nel tormentato periodo che precedette i suoi processi e la sua morte. Alinore interesse il C. dimostra per i grandi temi della rinnovazione della Chiesa e della missione di Firenze come nuova Gerusalemme dalla quale dovrà venire la rifondazione spirituale della Cristianità. In realtà i suoi pensieri si muovono in un ambito piuttosto ristretto e sembrano riflettere soprattutto le aspirazioni di un uomo preoccupato della purificazione dei costumi e della salvezza delle anime nella preghiera e nel meditato esercizio delle pratiche religiose. Nella sua personalità è poi presente un vago e ingenuo misticismo, che si esprime specialmente nella lettera alle monache di S. Lucia del febbraio 1498.
Per l'epoca che segue alla condanna con la quale gli fu inflitta una multa per aver assicurato validità legale alle sottoscrizioni alla petizione per il Savonarola dell'estate del 1497, non abbiamo altre notizie sul C. all'infuori di quelle che ci vengono dai suoi protocolli notarili. Da questi sappiamo che continuò ad esercitare la sua professione con discreto successo fino al 1520.
Non conosciamo la data della morte del C., che deve essere avvenuta in Firenze in quello, stesso amo o poco dopo.
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