CIERA PASINI, Filippo
Di famiglia assai antica che gli alberi genealogici fanno risalire sino a un Cristoforo venuto a Venezia dalla Persia nei primi anni del sec. XI, il C. nacque a Padova il 2 marzo 1730. Figlio di Donienico, nobiluomo di Padova, e di Bianca Spinelli vicentina, il C., a differenza degli altri due suoi fratelli Giobatta e Agostino, venne al mondo a distanza di molti anni dal matrimonio dei suoi genitori (1712), quando il padre, nato nel 1660, era già in età avanzata.
Il grosso della famiglia si era trasferito a Padova da Venezia nel corso del sec. XVII: il ramo cui apparteneva il C. aveva aggiunto al cognome Ciera anche quello di Pasini per soddisfare a una condizione testamentaria da cui dipendevaTacquisizione dell'eredità di un Galeazzo Pasini. Imparentamenti con famiglie nobili e agiate di Venezia e della Terraferma veneta, eredità e doti avevano mantenuto i Ciera in buone. condizioni economiche. Cospicue erano le loro proprietà terriere, per buona parte nella zona di Villafranca Padovana. A questioni di redditi fondiari e relativi conflitti di interesse, fuori e dentro la famiglia, appare rapportabile la smania per le liti giudiziarie di cui dà mostra il C., smania che finirà per portarlo in prigione e dargli così occasione e motivo di scrivere le migliaia di pagine del suo diario carcerario.
Aggregato al Consiglio dei nobili di Padova il 30 apr. 1764, il C. cominciò ben presto a lasciare le sue tracce nelle carte dei tribunali: denunzie e controdenunzie, cause civili con strascichi in sede penale; da una parte il C., intento a perseguire giudizialmente lavoranti e fittavoli delle sùe campagne per spremere, spesso sino al limite della dissennatezza, il massimo di reddito, e dall'altra alcuni di coloro che erano perseguitati dalle sue cause, i quali contrattaccavano presso i tribunali di Padova e anche di Venezia, dolendosi della pretestuosità vessatoria delle azioni giudiziarie da lui intentate, in ciò sorretti e talora ispirati da esponenti civili ed ecclesiastici delle piccole comunità rurali cui appartenevano, nonché, a Padova, da componenti della stessa famiglia Ciera, i quali spesso si trovavano in aspro conflitto di interessi con Filippo.
Già nel 1774 le carte di una causa promossa dal C. contro tale Pietro Giacon, accusato di aver suscitato calunnie nei suoi confronti, giungono fin sul tavolo degli Inquisitori di Stato a Venezia. Poi, attorno al 1781, è il tribunale della Quarantia civil nuova a essere scomodato dal C. per un'azione legale da lui messa in piedi contro "uomini di comun" e "degani" di Villafranca Padovana, Vaccarin e altre località della campagna del Padovano e del Vicentino a motivo di certe sue pretese di risarcimento. Questi "uomini di comun", cioè esponenti di quelle piccole comunità rurali, vincono la causa. Ciò fa sussurro sì che un informatore degli Inquisitori di Stato ritiene opportuno fame materia per una sua "riferta" al supremo tribunale. Nel rapportino dell'informatore il C. viene descritto come uomo arricchitosi con le sostanze di molti miserabili; portato per. naturale istinto alla contesa e alle liti, "il quale ha aggredito in vari tempi con ingiuste pretese molti infelici i quali non potendo sostenere le proprie ragioni a fronte di un potente" e difesi da avvocati timorosi, avevano dovuto soccomberglì. Il vicario e il cappellano di Villafranca Padovana, il parroco di Vaccarin, il canonico Ciera di Padova, altri parenti del C. e un paio di nobili padovani sono chiamati a Venezia a testimoniare. Si forma presso gli Inquisitori di Stato un fascicoletto segreto di deposizioni, nel quale è tracciata l'immagine di un C. "alterato", violento: oltre che imbastitore di liti, sprezzante dei sacramenti, della messa e dei preti, manesco con i servitori, in fama di "sodomia attiva", violatore di giovanissime fanciulle, invocatore del diavolo e spregiatore del Padreterno.
Probabilmente per gli Inquisitori ce n'era già abbastanza per pensare a, un intervento a suo carico onde ricomporre a Villafranca Padovana il quieto viver sociale da lui alterato, quando il solito informatore portò a conoscenza del tribunale un fatto ancor più grave accaduto il 27 agosto di quell'anno 1781: il C. nel palazzo pretorio di Padova aveva insultato suo cugino, il nobile Pietro Ciera, dandogli dell'asino e, a uguale insulto con il quale il congiunto aveva replicato, non aveva esitato a metter mano alla spada; i presenti l'avevano bloccato in tempo. A Padova ne era nato un mormorio che indicava nel C. un "nuovo Caino". Che il fatto fosse tra quelli che gli Inquisitori consideravano gravi in quanto, tra l'altro, gettavano discredito sull'immagine dei gruppi nobiliari dominanti, lo si capisce dalla rapidità con cui predisposero l'una venuta a Venezia del C. e la fulminea operazione della sua cattura di notte, a due passi da piazza S. Marco. p. il 7 sett. 1781 e il C., dopo una breve sosta nell'ufficio del capitan grande, venne rinchiuso nei Piombi in palazzo ducale. Dello stesso giorno è l'"annotazione" nel registro degli Inquisitori in cui si riassuinono i motivi dell'arresto: un curriculum di stravaganze, litigi e violenze, in dipendenza del quale si era ritenuta esigenza di giustizia, "per la di lui emenda e per l'altruì esempio, l'assoggettare al meritato castigo un uomo di cosi detestabile condotta". Una ulteriore "annotazione" di alcuni giorni dopo (28 sett. 1781) informa che gli Inquisitori avevano deciso che il C. fosse condannato a stare per dieci anni in prigione nei Piombi. Una condanna assai pesante cui probabilmente non era estraneo il fatto che il C., lungi dal poter contare su appoggi e coperture della famiglia e del suo ceto sociale, se li era trovati, per motivi di interesse, ostili.
Quella di una cabala familiare orditagli contro è comunque la sola ipotesi che al prigioniero viene in mente per spiegare le ragioni della sua carcerazione. Egli affida questa sua supposizione alle prime annotazioni dì un diario che comincia a stendere il giorno seguente alla notte dell'arresto. Allo stesso modo che non gli erano stati comunicati (questa appunto la prassi degli Inquisitori di Stato) i precisi motivi per i quali era finito in prigione, così, al C., non verranno mai resi noti né il contenuto della sua condanna né i termini della sua pena. Dapprima - e in ciò lo confortano le rituali assicurazioni del guardiano - egli pensa possa trattarsi di pochi giorni, poche settimane, pochi mesi. La sua prigionia, invece, come avevano deciso gli Inquisitori, sarà una questione di dieci anni.
Il diario del C., conservato autografo presso l'Archivio di Stato di Venezia, consta di una cinquantina di fascicoli-quaderni per lo più di grande formato. Qualchè migliaio di carte le quali riguardano, con notazioni quasi sempre giornaliere, un periodo che, con qualche brevissima interruzione, va dal settembre del 1781 alla fine del 1787, Per alcuni periodi esistono due stesure, una delle quali pare rappresentare il brogliaccio dell'altra. Nelle quattro buste d'archivio che contengono il diario sono poi raccolti altri documenti, come lettere e note spese per "cibarie", di mano del C., nonché carte d'ufficio inerenti al procedimento degli, Inquisitori di Stato contro di lui.
Nelle annotazioni del diario che si riferiscono ai primi mesi di detenzione il C. fa spesso riferimento alla sua cattura, a ipotesi circa le possibili cooligurazioni giudiziarie della sua situazione e a questioni inerenti ai suoi affari economico-patrimoniali da lui affidati, con una procura che un notaio è venuto in carcere a formalizzare, al padrone del caffè in piazza delle Erbe a Padova. La parte più cospicua e più colorita della sua narrazione è tuttavia dedicata all'impatto con la prigione., ai rapporti con i - pochi interlocutori: i custodi, un po' guardie, un po' servitori, un po' tramiti improbabili ma necessari con l'esterno; i compagni di camerotto o dei camerotti vicini (una decina di persone distribuite in quattro camerotti principali); il medico che, a chiamata, viene di quando in quando a visitarli. Dalle pagine del diario emerge pian piano l'ambiente, anche quello umano, dei Piombi veneziani, delle prigioni cioè che, con i ben più temibili Pozzi sempre in palazzo ducale e con Le Quattro, situate nelle Prigioni Nuove al di là del canale che delimita a oriente il palazzo medesimo, costituivano il complesso di luoghi di carcerazione a disposizione degli Inquisitori di Stato. Le descrizioni dell'andamento della vita carceraria e dell'angosciosa ricerca di un rapporto con l'inafferrabile fisicità del tribunale, anche se elaborate con minor destrezza di intelligenza e di scrittura, presentano molte coincidenze con le descrizioni contenute nella Storiadella mia vita di Giacomo Casanova, che nei medesimi Piombi aveva. soggiornato un venticinque anni prima. Sia pure con riferimento a un blocco di carceri caratterizzato da notevoli diversità rispetto all'assieme. delle prigioni veneziane, il lungo diario del C. apporta una quantità di informazioni essenziali per la conoscenza "dall'interno" del "carcerale" veneziano dell'epoca.
Secondo quanto testimoniano alcune "riferte" del custode, il C. non era un carcerato facile. In uno di questi rapportini (22 nov. 1783) lo troviamo descritto aggrappato alle inferriate della finestra a urlare escandescenze contro custode, medico, prete e loro assistenti, con la gente, giù per strada, la testa in aria a sentirlo. Con gli anni, la sua attenzioIie sembra concentrarsi soprattutto sul proprio corpo e sugli eventi atmosferici ch'egli può scrutare dalle brevi finestre che si aprono sui tetti della città e sul bacino di S. Marco e poi lontano, al di là della striscia di terra del Lido, sul mare: nel diario ritomano, quasi ossessive, le annotazioni che riguardano i malanni dei suoi polmoni, del suo stomaco, del suo intestino, il corso della sua digestione, del sonno, della veglia, dei sogni, oppure che riguardano la direzione dei venti, le nubi, il sole, il caldo, il freddo, la pioggia, la nebbia. Solo queste vicende corporali e atmosferiche sembrano mantenere per il C. incontroverfibile concretezza e affidabile verità.
Degli ultimi anni di prigione, dopo il 1787, non rimangono diari. Nelle buste d'archivio, oltre a qualche certificato medico, resta una supplica del custode dei Piombi Girolamo Pitteri, il quale chiede agli Inquisitori di Stato di "esser garantito della vita" nel caso di rilascio del C., avendo questi più volte minacciato d'ucciderlo se mai un giorno fosse stato liberato. La supplica è del 19 sett. 1791 e dietro di essa, sotto la data del 21 settembre, c'è una postergazione la quale avverte che gli Inquisitori avevano ordinato che, al momento del rilascio, si dovesse prescrivere al C. di "non passare più da Venezia se non avuta previa permissione" del supremo tribunale. Nel registro dei condannati degli Inquisitori il termine della condanna del C. era segnato per il 27 sett. 1791; nella colonna accanto, vi è la nota: "liberato". Dopo gli ultimi giorni di quel settembre, ogni ulteriore traccia del C. appare perduta.
Fonti e Bibl.: Padova, Bibl. civica, ms. B. P. 1619, busta II: Alberi geneal. delle famiglie Padovane estratti dalle prove esistenti nel patrio archivio (albero geneal. fam. Ciera); Ibid., ms. B. P. 146, c. 124: Le famiglie del Consiglio di Padova di Alessandro Descalzi dottor medico nato l'a. 1645 morto l'a. 1705 (per la famiglia Ciera); Padova, Arch. civico antico, Prove di nobiltà, vol. 31, fasc. 33(aggregazione dei C. al Consiglio dei nobili di Padova); Arch. di Stato di Venezia, Inquisitori di Stato, buste 539, c. 98 e 689, 690("riferte" custode carceri) e 1099 (causa conro Pietro Giacon) e 1209, 1210, 1211, 1212(diari del C. e altri docum. inerenti alla sua detenzione) e 1258 (registro condannati); G. Scarabello, Carcerati e carceri a Venezia nell'età. moderna, Roma 1979, pp. 169-173.