CARLI, Filippo
Nacque a Comacchio (Ferrara), l'8 marzo 1876, da Lorenzo e da Aventina Gentili. Laureatosi in giurisprudenza, fu nominato giovanissimo segretario della Camera di commercio di Brescia, reinventando il proprio ruolo con un'attività professionale che si allargava a una singolare varietà di richiami ideologici e di interessi culturali.
Sostenuto dal Presidente della Camera, D. Mainetti, e dagli esponenti più agguerriti di un ceto imprenditoriale, già notevolmente evoluto, in quegli anni la provincia di Brescia conosceva un forte sviluppo delle concentrazioni metallurgiche e meccaniche, di cui la società Franchi-Gregorini era l'elemento di punta, e un incremento proporzionale dei tassi di occupazione nel primo decennio del '900 il C. si batté per una stretta doganale protezionistica, per un allentamento dei carichi fiscali sull'industria di base, per l'adozione di sgravi tariffari sui trasporti di merce, per un ammodernamento dell'"educazione tecnica" che favorisse il contenimento dei costi attraverso l'aumento della produttività del lavoro, per una politica di espansione commerciale che si realizzasse sotto forma di conquista dei mercati d'Oriente - particolarmente ottomani - in concorrenza col capitale tedesco, per una tutela dell'emigrazione permanente che rafforzasse negli italiani espatriati in America latina l'attitudine a controllare i flussi d'importazione dei paesi d'acquisto diventando committenti stabili per le "confezioni nazionali".
In queste prime prove erano nettamente riconoscibili i prestiti dell'ideologia industrialista tardo-ottocentesca: giustificando il protezionismo integrale con la tesi secondo cui "una nazione la quale esporti in prevalenza materie greggie o semimanufatte e prodotti agricoli non lavorati arricchisce meno velocemente di una nazione che esporti in prevalenza prodotti manufatti" (Per intensificare la nostra esportazione di manufatti. Relazione all'Unione delle Camere di commercio, Brescia 1906, p. 12), e ciò per la ragione che "il manufatto contiene una somma di lavoro molto maggiore del prodotto greggio o del prodotto agricolo, ed è la retribuzione di questo maggior lavoro che costituisce un maggiore guadagno netto" (Educazione tecnica ed espansione economica, Brescia 1906, p. 12), il C. si riappropriava di un'immagine dello sviluppo che era stata di Alessandro Rossi e che presupponeva un'agricoltura di approvvigionamento e di trasformazione a impronta mercantilistica; suggerendo una "creazione su vasta scala della scuola media commerciale e industriale", allo scopo di immergere "l'operaio nel cuore delle difficoltà tecniche" (Peruna scuola media industriale in Brescia, Brescia 1906, p. 7), riecheggiava spunti riformatori che erano spesso circolati negli ambienti del radicalismo scientista convertitosi con Colajanni alla religione del benessere capitalistico; premendo perché i connazionali dell'Argentina e del Brasile si munissero di scuole, di giornali, di banche e di generi di consumo "patriottici" - cioè perché accarezzassero la "superbia violenta e prepotente dell'italianità" presentando "alle classi produttrici la tutela del patrimonio linguistico… nelle sue mutue dipendenze con quei beni d'indole più modesta che sono i beni economici" (Gli interessi economici e la "Dante Alighieri", Brescia 1907, pp. 12 e 6) - piegava la legge sull'emigrazione del 1901 all'esigenza di creare un mercato delle rimesse e di fornire sbocchi privilegiati all'industria esportatrice; illustrando l'opportunità di abbandonare i progetti di colonizzazione diretta, e segnalando la convenienza di avviare un'ingente massa di investimenti verso i paesi arretrati e le aree depresse - in un Contributo agli studi sulla espansione commerciale italiana nel Levante (Brescia 1909) che fu apprezzato anche da Roberto Michels - nutriva di cifre analitiche quell'imperialismo finanziario che trovava in Francesco Saverio Nitti il suo propagandista più efficace.
Ciò che tuttavia contraddistingueva il C. non era solo la capacità di assimilare la letteratura sullo sviluppo traducendone gli appelli ad uso dei primi cavalieri d'industria e divulgandone la problematica entro le istituzioni territoriali del padronato italiano: in lui era presente anche una istanza di sintesi, una domanda di rifondazione dello Stato che invitava la classe dirigente a tener conto dei nuovi rapporti fra potere pubblico e organizzazione della società resi necessari dall'avanzata della "civiltà" delle fabbriche. Egli pensava che alla crescita capitalistica - promotrice di una lievitazione generale dei redditi - dovesse corrispondere unq mobilitazione totale del paese e una revisione dei compiti delle forze politiche: se la nazione si identifica con le forze produttive sociali - osservava - da un lato è indispensabile modellare gli schieramenti dei partiti sulle scelte concrete di politica economica, dall'altro è urgente arruolare i movimenti "popolari" al servizio di una strategia di allargamento della base produttiva.
Queste preoccupazioni si combinavano spontaneamente con la curiosità per la sociologia, cioè per una disciplina che in Italia si era affermata a rimorchio della cultura positivistica - con tutta la sua insistenza sulla dimensione collettiva dei fenomeni sociali e sugli aspetti incipienti del costume di massa - e in virtù della risonanza che aveva circondato l'insegnamento universitario di Achille Loria, Emilio Morselli e Alfonso Asturaro. Lettore di Comte e di Durkheim, il C. ebbe occasione fin dal 1904 di fondere l'impegno teorico dello studioso con la parzialità militante del politico: in un saggio su Kidd, Loria e la funzione sociale della religione sistemò infatti le sue riflessioni sulla "vasta e multiforme anima collettiva" - per tutta la vita, come vedremo, si affaticherà intorno agli strumenti dell'integrazione e della "coesione" di gruppo - esaltando nel lavoro e nella tecnica i valori unificanti del mondo contemporaneo, proponendo di emendare ideologicamente le credenze religiose e consigliando di usare i movimenti che s'ispiravano al cristianesimo per una "lubrificazione degli ingranaggi" (p. 20) della società capitalistica.
è "legge fondamentale della sociologia" - esordiva attribuendo alla scienza una fimzione precettiva - "la tendenza alla conciliazione dei due interessi contrari… dell'individuo e della specie" (pp. 5 e 11), il "moto per cui le forze antagonistiche tendono a comporsi in un regime di equilibrio" (p. 13). Il compito di creare lavoro è assolto dal capitale, ossia dalla borghesia che "uscendo dal medioevo feudale ed aristocratico ha portato con sé la scienza e la tecnica nella sua fase più evoluta, … e quindi ha portato con sé le ragioni del dissolvimento di ogni religione ufficiale o d'autorità" (p. 24). Poiché però una tecnologia autocratica non basta a medicare le piaghe di una società informe e squilibrata, poiché "uno stato in cui i quattro quinti della popolazione hanno interessi contrari a quelli delle classi dominanti non potrebbe sussistere" (ibid.), proprio i cattolici organizzati debbono coadiuvare la borghesia nell'opera di socializzazione del capitale, approfittando del loro ascendente sulle masse per ispessire il tessuto di associazioni spontanee che difendono l'operaio - dalle cooperative alle banche popolari - e facilitando il "modo di retribuzione del lavoro" che prevede la "partecipazione al profitto" sotto forma di "quote" di utile aziendale proporzionali al salario percepito e complessivamente uguali alla cifra di dividendi corrisposta agli azionisti.
Dunque il nazionalismo del C. - tanto, precoce quanto misurato - si caricava fin dall'inizio di un'istanza riformista che appariva estranea sia alla tradizione risorgimentale sia ai manifesti forcaioli con cui Pareto e i suoi seguaci invocavano la "riscossa" di una borghesia infiacchita dalla "tabe umanitaria" e dall'acquiescenza verso il socialismo. Non a caso il primo, appuntamento importante della sua carriera - la relazione su "La politica economica della grande Italia" che svolse al congresso nazionalista di Firenze nel dicembre del 1910 - si risolse per lui in uno smacco cocente e denunciò la posizione minoritaria delle sue idee all'interno di un o campo s nazionalista ancora condizionato, da imperialismi sentimentali e da irredentismi tribunizi. Il C., in quell'occasione, aveva delineato in termini assai polemici un programma di presa del potere da parte della "borghesia di lavoro": se l'Italia non ha una "grande" politica economica, aveva dichiarato, è perché la classe imprenditoriale - "cioè la produttrice della ricchezza, cioè il fattore massimo della potenza del paese" - è ancora politicamente "sotto tutela" (Ilnazionalismo italiano. Atti del congresso di Firenze e relazioni di E. Corradini, M. Maraviglia, S. Sighele, G. De Frenzi, F. Carli, L. Villari, M. P. Negrotto, a cura di G. Castellini, Firenze 1911, p. 153).
"La borghesia di lavoro non ha avuto tempo e modo di assumere essa direttamente la direzione o quanto meno una parte preponderante nella vita politica", e si è avvalsa "di un intermediario, di una specie di logos, dell'uomo politico, incarnato il più sovente nell'avvocato, il depositario della formola e della parola" (p.164):di qui un'amministrazione maldestra e dilettantesca degli "interessi economici", valutati senza nessuna ampiezza di orizzonti e separati arbitrariamente dalle "idealità nazionali" di cui invece costituiscono il supporto. Solo quando la borghesia prenderà "consapevolezza di un'identità tra i propri interessi e quelli della nazione" (p.165), si formerà "una salda coscienza collettiva" e conquisterà un effettivo "autogoverno" (p. 177)si potrà dar corso a una serie di misure indispensabili allo sviluppo e all'espansione dell'economia moderna riscattando il capitale fisso nazionale dalla dipendenza verso la finanza estera; educando sull'esempio dei politecnici tedeschi un "personale tecnico capace di dirigere le industrie" (p. 154); creando "in paese una possente industria meccanica" protetta dal dispositivo della "tariffa massima e minima" (pp. 158 s.); favorendo le "associazioni fra industriali" che non si costituiscono "per la difesa dei cosidetti interessi generali" o "per la difesa contro il fisco" ma "per la disciplina dei rapporti della produzione" e per la "formazione di una coscienza economica collettiva" (p. 161); dando vita a un "istituto nazionaledi esportazione avente dietro di sé una banca" (p. 162); agevolando con sovvenzioni gli armatori e i produttori che "sono costretti a servirsi per la maggior parte dei loro commerci della marina mercantile straniera" (ibid.); procurando di "esportare del capitale" - "noi esportiamo invece troppo lavoro" - e di rimediare alla situazione per cui "i nostri attuali organi bancari nel Mediterraneo sono insufficienti e sproporzionati al programma che saremmo chiamati a svolgere nei paesi bagnati dal mare internum" (pp. 170s.); sovvertendo "la psicologia dei risparmiatori in modo da ingenerare in essi la fiducia nell'industria" e "popolarizzando poi l'azione della società anonima" (ibid.); assistendo "tecnicamente l'emigrante in modo da aiutarlo a salire dal basso livello di materia servile fino all'esercizio di una funzione dirigente" (p.176).
Il tutto entro la cornice di un'ideologia del valore aggiunto come ratio fondante del nazionalismo: se è vero - notava il C. - che "la ricchezza [e] il dominio delle cose hanno anche e soprattutto un valore e un significato etico ed ideale" (p.177), ciò vuol dire che "la materia greggia non ha nazionalità", mentre "una macchina, un tessuto, un oggetto di ornamento ha una sua speciale fisionomia, reca un'impronta del pensiero e della volontà della gente lavoratrice, ha una sua nazionalità" (pp. 167 s.).
Non appena il C. ebbe smesso di parlare, Goffredo Bellonci presentò al congresso un ordine del giorno - sottoscritto anche da Alberto Caroncini, Maurizio Maraviglia e Mario Viana - in cui si denunciava l'incompatibilità del protezionismo con la "politica economica del nazionalismo italiano" perché le "strettoie doganali" provocano sempre la dispersione di mezzi ingentissimi in "meschini favori di classe, di casta e di campanile". Subito divampò un dibattito nervoso - in cui Vittorio Vettori difese apertamente le ragioni del relatore, mentre si distingueva per asprezza verbale e per zelo liberista, oltre a quella di Bellonci, la voce autorevole di Giovanni Borelli - che venne troncato tra il vociare della platea solo dall'approvazione di un ordine del giorno interlocutorio, firmato da Domenico Palazzoli, Tomaso Borelli e Luigi Federzoni che giudicavano "intempestivo affrontare e decidere oggi il ponderoso e vitalissimo problema" della libertà degli scambi.
Il C. era stato dunque frainteso - assente Alfredo Rocco - da un uditorio in cui non dovevano abbondare i rappresentanti di quell'imprenditorialità aggressiva e ormai insofferente della mediazione giolittiana che egli stesso rappresentava e che stava individuando nei fratelli Perrone i suoi leaders più spregiudicati. Amici e nemici, tutti avevano ridotto a una banale sortita protezionista il suggerimento di attribuire "contenuto economico" alle "parole libertà, democrazia, liberali, conservatori" (p. 165): mentre era proprio attraverso quella proposta - come ha notato L. Cafagna (IlNord nella storia d'Italia. Antologia politica dell'Italia industriale, Bari 1962, p. 414) - che si stava attrezzando il nascente "sidacalismo borghese" e che acquistava peso un progetto capitalistico di occupazione dello Stato auspicato anche da osservatori smaliziati come Louis Bonnefon Craponne.
Negli anni successivi - attraverso una indefessa attività pubblicistica e una collaborazione simultanea a periodici come la Rivista italiana di sociologia, diretta da Giuseppe Sergi ed Emilio Cavaglieri, e la Rivista delle società commerciali, fondata nel 1911 per fungere da organo dell'Associazione italiana fra le società per azioni - il C. interpretò sempre più fedelmente la parte collaudata dell' "ingegnere dello sviluppo" e dell'intellettuale organico alla borghesia industriale. Ma la sua posizione, adesso, era meno isolata di prima. Infatti negli anni immediatamente precedenti le guerra stava compiendo il proprio apprendistato un gruppo di tecnici della produzione, del commercio e dell'organizzazione del lavoro - da Dante Ferraris a Giuseppe Belluzzo, da Giuseppe Paratore a Orso M. Corbino - risoluti a sottrarre i ceti intermedi a un destino passivo di urbanizzazione terziaria (nella scuola, nelle professioni, nella politica) e a far, quindi coincidere il grado di "emergenza" della borghesia intellettuale non proprietaria con il suo grado di impiego negli apparati macroistituzionali dell'economia capitalistica.
Legati a interessi interaziendali e di settore - marittimi nel caso di Paratore, metallurgici in quello del C., elettrici in quello di Belluzzo e Corbino, ecc. - questi tecnici si appellavano allo Stato sostenendo che senza un'immagine "organica" di società a cui finalizzare l'esercizio del potere era impossibile una piena utilizzazione dei fattori produttivi rappresentati dalla scienza; di conseguenza i loro piani di innovazione tecnologica - ampliamento fisico del parco industriale, sostituzione di impianti obsoleti, snellimento della distribuzione, erogazione di infrastrutture addizionali - presupponevano sempre un regime di assistenza politica allo sviluppo, una nuova gamma di interventi pubblici e un'articolazione per competenze dell'amministrazione statale.
Di questa élite tecnocratica - nazionalista per sicuro istinto, data la mancanza in Italia di un "partito del capitale" identificabile con qualche formazione tradizionale e, destinata a confluire nelle file del fascismo fra il 1923 e il 1925 - il C. rappresentò senz'altro l'ala estremista e quasi sicuramente il momento più elevato di coscienza culturale. Fino allo scoppio del conflitto mondiale coltivò soprattutto studi di statistica applicata e di geografia economica - fedele all'obiettivo, che era stato comune a tutti i protezionisti, di affidare le fortune dell'Italia a una economia di "fatti" e di "esperienze", non di "dogmi" o di "verità" assolute, e saldo nell'idea che conoscenze sperimentali e fantasia merceologica consentissero di modificare la ripartizione delle risorse tra paesi ricchi e paesi poveri infrangendo la rigidità dei costi comparati - e rivelò una spiccata sensibilità per la tipologia dell'imperialismo contemporaneo.
Sulle orme di Giorgio Mortara e di Corrado Gini - cioè nel solco di un rifiuto del neomalthusianismo con cui si stava allora saggiando la corrispondenza fra "numero" e "potenza" delle stirpi allo scopo di imbastire una concezione "scientifica" della razza e del "ciclo vitale" delle nazioni - affermò che l'indice di espansione demografica scandisce le tappe dell'ascesa economica dei popoli anche perché assicura una concorrenza permanente sul mercato del lavoro e un rapporto fra capitale tecnico e monte-salari nettamente vantaggioso per il processo di accumulazione (cfr. Gli imperialismi in conflitto e la loro psicologia economica, Brescia 1915; L'evoluzione economica della Germania e la legge di popolazione, in Rivista italiana di sociologia, XVIII[1914], 5-6).
Nel 1914 arrivò il successo politico. In occasione del terzo congresso nazionalista, svoltosi a Milano nel maggio, il C. redasse con Rocco, a cui si era nel frattempo legato, una relazione su "I principi fondamentali del nazionalismo economico", dove la teoria dell'"ottima" dimensione d'impresa avallava il gigantismo monopolistico con tutte le sue avventure prevaricatrici e dove la critica all'"individualismo" liberale e socialista giustificava la richiesta di un'organizzazione corporativa della produzione perfezionata dal riconoscimento giuridico dei sindacati. La spaccatura frontale, sventata a fatica nel 1910, non poteva questa volta essere evitata: così abbandonarono il movimento - dopo che nel 1912, al congresso di Roma, ne erano uscite le residue frange democratiche e radicali - anche i liberisti meno intransigenti e i liberalnazionalisti più sensibili alle ragioni dell'agriculturismo e dell'imprenditorialità marginale. Ma se l'Associazione nazionalista rinunciava a molti padri fondatori, guadagnava in chiarezza di linea e in "coerenza di direzione tutto ciò che perdeva in volume di consensi e in latitudine di adesioni: infatti l'avvento di uomini come Rocco e come il C. - appoggiati pur sempre dai capi storici alla Corradini e dalla Destra monarchica e tradizionalista alla Coppola e alla Federzoni - segnava la nascita ufficiale di quel partito degli "interessi", industrialista e statalista, che era stato negli auspici della borghesia crispina meno provinciale e che rappresentava l'adeguata versione di massa del moderatismo classico in età di suffragio universale e di sviluppo delle forze produttive.
Obbedendo al desiderio dei suoi partners - i "mercanti d'armi" dell'alta Lombardia, secondo la velenosa insinuazione degli avversari - che volevano farne una sorta di alto commissario addetto alla sorveglianza ideologica del movimento, il C. non sfruttò la congiuntura e non accettò cariche direttive in seno all'Associazione nazionalista: in questo modo, del resto, finì per assecondare il proprio temperamento appartato, incline più all'aggiornamento e alla rifinitura dei programmi di lungo periodo che al giornalismo di tendenza o all'attività politica intesa in senso stretto. Cominciò a scrivere libri, o meglio pastoni ambiziosi e prolissi che tuttavia popolarizzarono un genere quasi sconosciuto all'editoria italiana: il feuilleton economico, il "romanzo della vita" raccontato a un uditorio popolare ed ecletticamente affacciato sulle vicende biologiche, antropologiche, storiche e sociali della specie umana.
La ricchezza e la guerra (Milano 1915) e L'altra guerra (ibid. 1916)vanno letti proprio in chiave di semiologia d'appendice: si tratta di opere difficilmente classificabili, sospese a metà strada fra il reportage brillante, il manuale di demografia, la silloge di profezie e il trattato di politica commerciale. in cui le regole della volgarizzazione scientifica e della pedagogia umile s'intrecciano con cadenze stilistiche e con espedienti di personificazione dal taglio schiettamente narrativo.
Nel primo dei due - non testo "di economia dinamica", secondo l'esplicita chiosa dell'autore, o "di filosofia della storia", bensì "libro imbevuto di lacrime perché scritto pagina per pagina con la visione assillante e tragica degli strazii e dei martirii che gli uomini infliggono a se stessi per giungere ad una più serena visione della vita" (p. 24) - il C. tentava di spiegare la conflagrazione europea alla luce di una teoria complessiva del sociale che avrebbe approfondito più tardi in un lavoro metodologicamente severo (L'equilibrio delle nazionisecondo la demografia applicata, Bologna 1919):il principio dell'inequivalenza fra azione e reazione, ossia la presenza di "energie superatrici" in tutti gli organismi viventi che sono sottoposti a sollecitazioni esterne - a partire dai tessuti unicellulari, i quali per "mantenersi" sono costretti a "svilupparsi" - "regge pure la vita degli uomini in società come regge quella delle diverse società economiche" (p. 52).Sia gli individui sia le "razze" sono dunque sospinti da un'intrinseca forza vitale che oltrepassa sistematicamente le soglie dell'adattamento passivo alle condizioni d'ambiente (a giudizio del C. l'orientamento più fecondo della filosofia contempoanea, da Boutroux a Bergson, consiste appunto nello sforzo di provvedere lo "spiritualismo" di basi scientifiche oggettive).
Entro questa maglia di leggi generalissime si dispone anche "il fatto economico d'importanza storico-mondiale seguito dopo il Congresso di Vienna", cioè "il trionfo del capitalismo" (p. 13): non per nulla "lo sviluppo del processo capitalistico ha dato il contenuto economico al principio di nazionalità" (ibid.), non per caso l'industrializzazione ha reso possibile l'"individuazione" e la "differenziazione" degli aggregati etnici un "tenore di vita" impregnato di tradizione e promuovendo un'evasione specifica della domanda di beni di consumo "consolidata attraverso la razza" (p. 14). Ora, se l'appropriazione di identità da parte di un popolo può spingersi fino alla ricerca di uno spazio coloniale (che ne costituisce anzi il complemento necessario) essa non può alterare gli analoghi processi in corso presso i popoli "progrediti" che vogliono essere ministri del proprio destino. Quando una "sopravalutazione soggettiva", come nel caso della Germania, spezza l'"equilibrio mobile" instauratosi in Europa con l'avanzata del capitalismo, la guerra diventa ineluttabile e la distruzione di "teste" e di beni strumentali rimette in movimento il ciclo "superatore". Tuttavia l'enorme "eccedenza di volontà collettive" (p. 293) suscitata dal cozzo degli imperialismi tende a dilatare l'area di "individuazione", a non trattenerla più entro i ristretti confini di una gens odi una patria: "e allora sembra anche che debba avere inizio per l'Europa il processo d'integrazione", per cui "mentre finora hanno avuto prevalenza le forze differenziatrici persino nel campo dei principii universalistici ed uguagliatori (chiesa, socialismo) ora sembra che questi stessi fattori debbano agire più liberamente nella loro efficienza sintetica, e con essi acquistare la prevalenza tutte le altre forze da cui può dipendere una maggior sintesi della società europea" (p. 301).
Se in La ricchezza e la guerra, scritto nei mesi della neutralità, il C. poté concedersi qualche licenza federalista e una ottica sostanzialmente distaccata, in L'altra guerra, uscito nella fase culminante dello sforzo bellico italiano, dovette entrare in sintonia col clima di mobilitazione propagandistica che aveva accompagnato la dichiarazione di guerra alla Germania. L'"altra guerra" è la competizione industriale e commerciale, la strenua lotta per la ricchezza in cui l'Italia è chiamata a sconfiggere l'"universalismo politico-economico" dell'Impero germanico, che insieme con l'universalismo "politico-religioso" della Chiesa e con quello "politico-puro" dell'Austria ne ha compresso la spinta verso un'effettiva indipendenza. I Tedeschi, la cui Kultur è rimasta quella barbarica del "gruppo patriarcale primitiv", che concepisce "sé al centro del mondo" (p. 10), si sono specializzati nell'"invasione" economica dei paesi a cui l'edonismo liberistico e la dottrina della "porta aperta" non offrono difese sufficienti contro una visione "dinamica" dell'economia che sostituisce la "dominazione della materia" alla "dominazione dello spazio". L'Italia è stata la vittima elettiva della loro "operazione poliorcetica": il nostro paese è caduto in ostaggio a Berlino fino al punto di veder minacciata la sua stessa autonomia politica.
La via del riscatto è indicata dal motto salutem ab inimicis:solo succhiando lo "spirito di sistema" che percorre l'economia tedesca si può rompere l'accerchiamento e protestare la condanna storica alla perifericità o all'esercizio di un subimperialismo avvilente. Occorre anzitutto procedere alla "formazione delle capacità attraverso l'insegnamento" (p. 30): scartate le suggestioni provenienti dall'Inghilterra (dove il "mammonismo" e l'organizzazione anarchica del mercato dell'occupazione isteriliscono l'apprendistato e bruciano la forza-lavoro addizionale incorporata nel "mestiere") e dagli Stati Uniti d'America (dove lo shopmanagement tayloristico riduce il problema della produttività a mera ricomposizione dei tempi e dei gesti muscolari), si ricostituirà il "discepolato" corporativo mediante la "disciplina giuridico-statale del contratto di tirocinio e la scuola complementare di carattere professionale" (p. 105). Bisogna poi adottare un protezionismo maschio, spigoloso, soprattutto a riparo dell'industria dei beni capitali e quindi nei settori meccanico e chimico che "non sono semplicemente uno dei tanti anelli che mancavano ai nostri cicli produttivi ma … il supporto di ogni ulteriore lavorazione" (p. 215): qui un "più largo giuoco dei dazi preferenziali" sancirà finalmente l'abolizione di quella nefasta clausola della nazione più favorita che aleggia da decenni sui negoziatori di trattati come "la colomba dello spirito santo" (p. 184; e il sistema del dazio applicato a monte, insieme con un'opportuna eliminazione delle strozzature commerciali, permetterà fra l'altro di polverizzare gli aumenti di prezzo rendendoli pressoché inavvertibili al consumatore). La "indipendenza marittima", da ottenersi con finanziamenti massicci alla flotta nazionale, consentirà il raggiungimento di un triplice obiettivo: lucrare senza dover ricorrere a terzi il "lavoro conglobato nelle materie prime" che s'importano dai paesi satelliti; evitare di diventar "mendicanti di tonnellaggio" quando per lo stato di guerra o per altre circostanze si contrae l'offerta di noli dall'estero; addivenire a una "sicura organizzazione dei mercati di approvvigionamento" come premessa alla "conquista economica", giusta la massima di Friedrich List secondo cui "una nazione senza navi discende al livello di ilota e servo dell'umanità" (pp. 258-262). Infine l'"organizzazione" - cioè il presidio del mercato da parte dei cartelli orizzontali - attuerà la "disciplina della libera concorrenza nella forma sindacale" (p. 310), "evitando la dispersione e la reciproca elisione delle energie" e traducendo "in fatti" la legge del massimo rendimento col minimo mezzo: suoi corollari saranno lo sfruttamento diretto e la trasformazione delle materie prime indigene (dal sodio al catrame, dal piombo allo zinco, dal marmo al mercurio, dal pesce alla frutta), e la razionalizzazione del credito a medio termine predisposta "smobilizzando quanto è più possibile il capitale immobiliare" - vale a dire imprimendo "un grande sviluppo al sistema delle obbligazioni" (p. 241) - e stimolando gli accordi "dinamici" fra le banche miste.
Simili ricette da "famulo teutonico" - come le definì Giuseppe Prato - non potevano non attirare sul loro manipolatore le ire dei professori di osservanza liberista: tant'è vero che l'avversione della scuola di Luigi Einaudi - con in testa lo stesso Prato e Umberto Ricci - fu all'origine della tardiva consacrazione universitaria del C., maturata solo nel 1923 con un incarico di sociologia a Padova. Egli, in ogni modo, aveva da consolarsi dei mancati riconoscimenti accademici: presso gli "operatori" la fortuna del suo progetto aumentava senza sosta, e nel 1917 l'Associazione fra le società per azioni gli commissionò la stesura di un programma di ricostruzione che finì per ricalcare larghissimamente le terapie proposte in L'altra guerra.Intanto cresceva anche la sua capacità di scomporre i delicati congegni della teoria e di concettualizzare i vettori di massificazione indotti dalla guerra: opere come Ilreddito nazionale e i compiti di domani (Milano 1917) 0 Nuove forme di organizzazione economica del dopoguerra: il sindacalismo integrale (Brescia 1918) segnarono l'ingresso delle prime tematiche planiste nella cittadella del "volontarismo" italiano - attraverso l'idea di una "accertabilità della domanda" e di una misurabilità del "dividendo sociale" calcolato come equivalente del reddito nazionale aggregato e un allineamento dei neomercantilisti sulle posizioni dell'istituzionalismo americano e della neue Wirtschaft di Walther Rathenau (cfr. Nuove forme di organizzazione…, p. 177: "Noi crediamo che lo stato debba favorire la concentrazione industriale con tutti i mezzi di cui dispone, che debba costruire la base giuridica dei sindacati, che debba creare gli organi di tutela degli interessi dei consumatori e degli operai, che debba esercitare una azione diretta di controllo sulla ripartizione del profitto…"). A giudizio del C. l'economia "associata" e la Planvolle Ordnung non si raccomandavano per la loro astuzia illuministica, per l'astratta superiorità delle loro geometrie sul disordine del modello concorrenziale ma riflettevano la necessità di adeguare le primitive ipotesi corporativo-riformiste - intinte in un paternalismo filocattolico sostanzialmente naïf -allecondizioni politiche create dall'ottobre rosso e dall'impatto della rivoluzione sovietica sui movimenti operai dell'Europa occidentale.
Con la deresponsabilizzazione delle "falangi operaie" - almeno da quando si era scoperto che "vi sono dei diritti naturali delle classi e le classi inferiori hanno precisamente quelli che dà la divina forza del numero" (L'evoluzione delle rivoluzioni, Milano 1920, p. 51) - si rischiava di travolgere la borghesia e di instaurare il comunismo proprio mentre sgorgavano i piagnistei inconcludenti di chi si sentiva minacciato nella persona e negli averi. Perché l'orditura costituzionale del potere fosse in grado di "canalizzare dolcemente la capillarità sociale", perché si potesse alimentare "un processo di assimilazione attiva" giustificato dalla constatazione che "il ceto dirigente deve mantenere il passo con tutto il ritmo della dinamica sociale, che ora ha assunto un'accelerazione mai più veduta", perché insomma "fra il tutto della borghesia e quello del proletariato" entrambi si contentassero "di essere qualche cosa" (Nuove forme di organizzazione…, p. 65), occorreva da un lato che i capitalisti stipulassero con gli operai un patto di solidarietà aziendale imperniato sulla copartnership e sull'"azionariato di lavoro" anziché sulla formula ormai frusta della cointeressenza agli utili, dall'altro che lo Stato assumesse i lineamenti di una democrazia di massa e incentivasse le forme di partecipazione controllata - come l'elezione dei Parlamenti "economici" - in virtù delle quali poteva impedire che le classi subalterne esigessero il pagamento in unica soluzione della "cambiale" rilasciata alle classi dominanti con il suffragio universale.
La rottura con i nazionalisti era nell'aria. E non tanto per un'irreparabile divaricazione strategica - al convegno di Roma del 16-17 marzo 1919, malgrado i dubbi dei liberisti ancien régime come Luigi Amoroso, Rocco e Corradini ribadirono una scelta corporativa e sindacalista ancora conciliabile con il laburismo del C. - quanto per un diverso giudizio sui rapporti da stabilire fra borghesia e socialismo e sul ruolo da assegnare all'Italia nell'area capitalistica occidentale. Il C. era ormai convinto che non potesse essere eretto un argine contro il bolscevismo senza ricuperare l'ala riformista del PSI: smarrita l'attitudine della borghesia a identificarsi con lo Stato, e a mantenere i ranghi fisicamente serrati elargendo al tempo stesso un "socialismo" autoritario, demagogico e intermittente (cioè reversibile nei momenti di crisi che esigono "sacrifici" dalla collettività), riteneva che la corrente turatiana fosse egemonizzabile anche nel quadro di un'alleanza che non le contendesse la rappresentanza diretta della classe operaia. Due fatti gli parevano confortare questa diagnosi: in primo luogo l'evolversi del marxismo riformista - soprattutto con Rodolfo Mondolfo - verso un'interpretazione del controllo della produzione "coordinato per sindacati" come elemento di "trapasso dal capitalismo al socialismo" in quanto potenziale "eliminazione delle antitesi di classe e del dualismo di sfruttatori e sfruttati", "passaggio dalla forma agonistica della produzione di merci alla forma solidaristica della produzione sociale per i bisogni sociali" (R. Mondolfo, La crisi contemporanea [1919], in Sulle orme di Marx, Bologna 1948, p. 24), in seconda istanza la formazione di una nuova classe operaia - nata con la catena di montaggio e con la valorizzazione di una forza-lavoro dotata di piena elasticità e fungibilità - che rafforzava l'iniziativa turatiana nella C.G.L. perché provocava una dispersione delle avanguardie rivoluzionarie identificatesi con gli operai "professionali".
Un'efficace prevenzione del bolscevismo, che non si cullasse nell'illusione di impossibili restaurazioni oligarchiche, doveva però essere concertata anche su scala internazionale: e da questo punto di vista la necessaria costituzione di un blocco mitteleuropeo di Stati capitalisti e di governi socialdemocratici, altamente integrati sotto il profilo commerciale e arroccati intorno alla Germania weimariana come primo deterrente antisovietico - Laborghesia fra due rivoluzioni, un libro apparso a Bologna nel 1922, affrontò questa problematica riecheggiando liberamente molte idee sviluppate da Keynes nella Revisione del trattato e nelle Conseguenze economiche della pace -, poteva favorire gli interessi immediati dell'Italia consentendole una riconversione produttiva regolata dai clearings, cioètendente all'incremento delle esportazioni bilanciate e per loro impulso alla piena utilizzazione degli impianti e al saldo delle passività che affliggevano la bilancia dei pagamenti (Il problema centrale della ricostruzione economica: le esportazioni, Brescia 1919; Le esportazioni, Milano 1921).
Probabilmente nessuno si stupì, date le premesse, quando il 1º febbr. 1919 il C. abbandonò l'Associazione nazionalista, anche perché nella lettera che illustrava le dimissioni egli non attenuò la portata dei contrasti ma cercò semmai di drammatizzarla: il suo "sindacalismo integrale" - scrisse - scontava il "formidabile dinamismo delle classi" e aspirava a "una formula di sintesi sociale rispetto alla quale le formule del collaborazionismo e degli alti salari o non hanno alcun significato o scendono al livello di quelle panacee a cui ricorsero nei Momenti di panico le società senescenti", e il suo rifiuto dell'art. 4 dello statuto dell'Associazione - dove si predicava la lotta al pacifismo - ratificava la convinzione "che vi dev'essere modo di ridurre i conflitti fra i popoli" trovando "una formula di equilibrio cinetico tale che la guerra diventi eccezione e non legge". Il divorzio da Rocco, certo, agevolò i flirts con la destra socialista (una recensione positiva a L'equilibrio delle nazioni, comparsa su Critica sociale e firmata da Claudio Trevesi, fu seguita da scambi epistolari con Rinaldo Rigola sulla ristrutturazione "produttivistica" del sindacato e dalla pubblicazione nel 1920 di una raccolta "di saggi - intitolata Dopo ilnazionalismo - nella "Biblioteca di studi sociali" curata da Mondolfo per l'editore Cappelli) ma non inquinò né il lessico né i capisaldi pragmatici della visione ideologica del C.: per lui la nazione - intesa come "personalità collettiva" e legislatrice primaria dei bisogni - era ancora il soggetto atto a mediare politicamente il dominio capitalistico sui rapporti di produzione, a trasformare la fabbrica in "città", a ripulire dalle scorie contrattualistiche la marcia della Mitbestimmung verso il comando dello Stato.
Se negli scritti del "dopo" - e "dopo", va sottolineato, non vuol dire né "fuori" né "contro" - la nazione non appare più come l'arca che custodisce le memorie dell'ethnos, o come la "comunità di destino" nelle cui pieghe millenarie si annidano i geni della futura felicità di massa, è perché ormai viene annunciata come modo di produzione diventato sistema, come universo sociale che non ha più bisogno di attingere la propria storia fuori di se stesso perché è capace di autolegittimarsi sulla base della propria razionalità e organizzazione.
Il C. aveva compiuto un passo in più rispetto agli altri nazionalisti, ma perché si potesse realizzare il primo tempo del suo progetto era essenziale che restasse aperto - almeno intorno alla contrattazione della mobilità del lavoro - il dialogo fra imprenditorialità avanzata e movimento operaio. Invece quel dialogo, come si sa, fu bruscamente interrotto dall'avvento al potere del fascismo, e poté riprendere solo dopo il '25 in condizioni profondamente diverse, con interlocutori meno autorevoli e sotto il peso di un'armatura giuridica talvolta paralizzante. Per questo gli anni a cavallo della marcia su Roma furono anni di riserbo e di prudenza, spesi nell'insegnamento universitario di una sociologia non insensibile alla lezione funzionalista e quindi intenta a scuotersi di dosso le ultime incrostazioni di naturalismo antropologico (Introduzione alla sociologia generale, Bologna 1925; Le teorie sociologiche, Padova 1926).
Lettore corrivo ma infaticabile, in questo campo il C. fece circolare una nozione del "gruppo" come prius economico e culturale - esplicitando l'influsso dei durkheimiani francesi, da Marcel Mauss a Maurice Halbwachs - ed elaborò una "teoria sociologica dei bisogni" che ripeteva la classificazione di Malinowski (in verità senza citarla) allo scopo di demolire il principio della confrontabilità interpersonale degli utili su cui si reggeva il "psicoedonismo" dei marginalisti.
L'avvicinamento alla dittatura cominciò intorno al 1926, con il varo della legge Rocco sulla disciplina giuridica dei rapporti di lavoro. Pur senza rinunciare ai traguardi peculiari del suo laburismo nazionale - cioè a un'ipotesi "sociale" di Stato totalitario, che volendo ripristinare le categorie convenzionali non si saprebbe se collocare a destra o a sinistra del fascismo ortodosso - il C. si accinse a sfruttare gli spazi resi agibili dalla riforma sindacale del governo Mussolini. Il suo linguaggio, di conseguenza, negli anni successivi s'impaludò con quel tanto di ufficialità che bastava a non far scoppiare scandali gratuiti: per il resto, nel merito delle cose, il suo corporativismo non conobbe indulgenza verso le imposture letterarie sulla "terza via" - che è quanto dire l'estorsione di un consenso puramente ideologico ai ceti intermedi, drogati con l'illusione di poter diventare ingranaggi motori di una società interclassista - e nemmeno simpatia per l'aziendalismo pseudocomunista di personaggi alla Ugo Spirito (che a loro volta accusavano gli ex nazionalisti di essere dei liberali in ritardo, ancora affezionati a un'idea trascendente dello Stato).
Come e più di Bottai il C. vedeva nelle corporazioni un'articolazione della mano pubblica e uno strumento istituzionalmente preposto ad attuare politiche di piano non neutrali, non genericamente indicative o predittive ma volte al superamento delle fluttuazioni cicliche e delle crisi periodiche del sistema capitalistico, le cui cause venivano individuate nell'"anarchia della produzione", nella "mancanza di coordinazione fra capitale e lavoro", nel i rovesciamento di quello che dovrebbe essere il ritmo naturale dell'economia secondo il quale la produzione dovrebbe interpretare le possibilità del consumo", nell'"inflazione del credito da parte di un sistema bancario che aveva perduto di vista … la sua essenziale funzione, quella di distribuire il risparmio in modo da realizzare il punto ottimo degli investimenti produttivi nel sistema nazionale" (Le crisi economiche e l'ordinamento corporativo della produzione, in Ministero delle Corporazioni, Atti del secondo convegno di studi sindacali e corporativi. Ferrara 5-8 maggio 1932, I, Relazioni, Ferrara 1932, p. 234).
Nel 1928, vincitore di concorso, lasciò la Camera di commercio di Brescia e fu chiamato alla cattedra di economia politica nell'università di Pisa; pressoché contemporaneamente, abbinando di nuovo scienza e pratica sociale, passò a dirigere i servizi centrali della Confederazione fascista dei commercianti e la rivista Commercio che ne era l'organo di stampa. A Pisa, dove secondo una testimonianza di L. Tellarini (in Zangrandi) il C. protesse i giovani della fronda fascista dal tetro conformismo dei professori di regime - come Widar Cesarini Sforza, e probabilmente lo stesso Spirito -, furono anche ideate e stese le ultime opere di polso.
Tra queste viene in primo luogo la Teoria generale della economia politica nazionale (Milano 1931, dedica a Benito Mussolini), una sorta di summa dell'anticlassicismo e dell'antimarginalismo (cfr. la teoria del "costo sociale di riproduzione" come misura del valore, dei gruppi di consumatori non concorrenti, della rendita inversa del consumatore) dove il C. applicava le funzioni walrasiane dell'equilibrio a un sistema chiuso, interpretando i primi sintomi di reazione autarchica alla grande crisi e trasferendosi in un'area ideologica parzialmente affine al nazionalsocialismo; Le basi storiche e dottrinali dell'economia corporativa (Padova 1938), un intelligente tentativo di dimostrare che "la teoria dell'economia corporativa … si colloca storicamente al punto al quale il movimento auto-critico delle dottrine è venuto, nel suo svolgimento, a coincidere col movimento etero-critico" (p. 200), cioè di provare attraverso un'analisi del pensiero contemporaneo - da Clark a Keynes, da Wicksell a Myrdal - che la sconfitta dell'economia liberale comportava anche la resa dell'ipostasi "lockiana" di una società separata dallo Stato; l'incompiuta e monumentale Storia del commercio italiano, di cui uscirono soltanto i primi due volumi (Il mercato nell'alto Medioevo, Padova 1934; Il mercato nell'età del Comune, ibid. 1936), condotta sul filo di una costante esaltazione dei nuclei urbani come elementi di ricostituzione della "civitas romana" e della complementarità territoriale fra manifattura e agricoltura.
Il C. morì a Roma il 27 maggio 1938.
Fra le sue opere di rilievo sono da ricordare anche: Capitale e gerarchia nelle grandi esperienze del dopoguerra, Roma 1926; Un ventennio di prezzi e di salari in provincia di Brescia (1906-1926), Brescia 1927; La proprietà agraria e le forme di conduzione in provincia di Brescia, ibid. 1927; Momenti risolutivi della storia moderna, Bologna 1928; Classicismo, romanticismo e fascismo, Roma 1928; Premesse di economia corporativa, Pisa 1929.
Bibl.: Sulla collabor. con Rocco, e in particolare sulla relaz. al congresso nazionalista di Milano: P. Ungari, A. Rocco e l'ideologia giuridica del fascismo, Brescia 1963, pp. 24-26; F. Gaeta, Nazionalismo italiano, Napoli 1965, pp.118 s.Sui burrascosi rapporti con i liberisti, G. Prato, Nei regni della gaia scienza, in In onore di Tullio Martello, Bari 1917, pp. 409-428; R. Vivarelli, A proposito di un recente libro su F. S. Nitti, in Riv. stor. ital., LXXVI(1964), p.182. Sui legami con l'Associazione ital. fra le società per azioni: U. Ricci, Protezionisti e liberisti italiani, Bari 1920, pp. 74 ss., 90 ss. Sull'abbozzo di un'ideologia planista: S. Lanaro, Pluralismo e società di massa nel dibattito ideologico del primo dopoguerra (1918-1925), in L. Sturzo nella storia d'Italia. Atti del Convegno internaz. di studi promosso dall'Assemblea regionale sicil. (Palermo-Caltagirone, 26-28 nov. 1971), II, Roma 1973, pp. 282, 300-308. Sulla teoria "sociologica" del valore: P. E. Taviani, Il concetto di utilità nella teoria economica, II, Le scuole eterodosse e i nuovi indirizzi della dottrina, Firenze 1972, p. 209 e passim. Sulla tutela della "sinistra" studentesca a Pisa, R. Zangrandi, Il lungo viaggioattraverso il fascismo. Contributo alla storia di una generazione, Milano 1963, pp. 463 s.