ORSINI, Filippo Bernualdo
ORSINI, Filippo Bernualdo. – Nacque a Solofra il 1° giugno 1685, primogenito di secondo letto di Domenico, XIII duca di Gravina, e della napoletana Ippolita di Tocco, dei principi di Montemiletto.
Ramo di uno dei più illustri lignaggi romani, gli Orsini di Gravina vantavano un titolo ducale napoletano risalente alla seconda metà del XV secolo, al quale, tra Cinque e Seicento, si erano aggiunti quelli di conti di Muro e di principi di Solofra e di Vallata. Aggregati dal 1477 al Seggio di Capuana della città di Napoli, dove nel 1513 avevano cominciato la costruzione di un sontuoso palazzo, erano annoverati tra le più illustri casate del Regno. Tuttavia non avevano conseguito dalla Corona spagnola onorificenze sufficienti a proiettarli nell’élite aristocratica internazionale, nella quale erano, invece, pienamente inseriti i loro parenti romani, gli Orsini di Bracciano, soprattutto in virtù del loro titolo di principi assistenti al soglio pontificio, segno di indiscussa preminenza tra i sudditi del papa, condiviso solo con i Colonna di Paliano. Per questo motivo nel 1687, profilandosi ormai sicura la morte senza eredi del duca di Bracciano, lo zio di Filippo – il cardinale Vincenzo Maria, arcivescovo di Benevento – ottenne da Carlo II di Spagna l’impegno scritto di favorire, attraverso i propri ambasciatori a Roma, il passaggio di tale titolo in capo ai duchi di Gravina. La casata, dal canto suo, continuò a manifestare lealtà a Madrid anche all’indomani del cambio dinastico che innalzò al trono Filippo di Borbone, dando origine alla guerra di successione spagnola e, in seno alla nobiltà napoletana, alla spaccatura tra filoborbonici e filoimperiali.
Nella temperie d’instabilità dinastica del primo Settecento, dopo un’infanzia e un’adolescenza trascorsa tra Napoli e i feudi di famiglia, Filippo ereditò i beni e i titoli paterni (1705). In un primo momento sembrò intenzionato a rimanere fedele a Madrid, anche per poter sfruttare l’appoggio di Marie Anne de la Trémoille – vedova di Flavio, ultimo duca di Bracciano, e influentissima cameriera maggiore della regina Maria Luisa – al fine di ottenere la dignità di Grande di Spagna. Tuttavia, nel 1707, egli fu tra i feudatari napoletani più pronti ad appoggiare l’agevole conquista del Regno di Napoli condotta dalle truppe di Carlo d’Austria, che rifornì di vettovaglie. Come ricompensa, l’arciduca gli concesse l’agognato grandato di Spagna di I classe e lo riconobbe come erede universale del duca di Bracciano.
Nel gennaio 1711, Filippo sposò Giovanna Caracciolo dei principi di Torella, rampolla di una delle casate più illustri del Regno di Napoli e nipote del principe di Avellino Marino Caracciolo, ambasciatore di Carlo d’Austria nella Curia pontificia. Per le loro nozze fu pubblicata una miscellanea poetica, tra i cui autori figurava anche Giambattista Vico. Soltanto quattro anni dopo, Giovanna morì, senza aver generato eredi. Nel 1718 Orsini si risposò, questa volta con una nobildonna di Roma, Giacinta Ruspoli Marescotti, imparentata con il cardinale Lorenzo Corsini. Nelle intenzioni del duca di Gravina e dello zio cardinale tale matrimonio avrebbe dovuto favorire la proiezione romana della casata, che incontrava non pochi ostacoli.
Per quel che concerneva l’acquisizione del titolo di principi del soglio, infatti, forte era l’opposizione dei Colonna di Paliano, i quali facevano valere tutta la propria influenza presso Clemente XI. Non meno complesso appariva il recupero del patrimonio dei duchi di Bracciano: a partire dagli anni Sessanta del Seicento una serie di vendite per debiti lo avevano smembrato e consegnato ad altre nobili famiglie romane; per giunta, l’ultimo duca di Bracciano, morto nel 1698, aveva destinato l’usufrutto vitalizio dei pochi beni rimastigli (il palazzo Orsini di piazza di Pasquino, l’archivio di famiglia e poco altro) alla moglie. Consigliato dai propri legali romani, Filippo Orsini aveva da tempo richiesto al tribunale della Sacra Rota la canonizzazione degli antichi fedecommessi di casa Orsini, come primo passo per rivendicare il patrimonio alienato; ma la causa continuava da anni a pendere senza frutto e con non poche spese.
Nessun vantaggio derivò al duca di Gravina dal suo matrimonio romano, che si rivelò ben presto un fallimento. Infatti, nel 1723, quattro anni dopo aver dato alla luce Domenico, Giacinta Ruspoli decise di separarsi dal marito e di tornare a Roma, non essendo intenzionata a vivere tra Napoli e i feudi napoletani. La riunione dei coniugi non si realizzò neanche un anno dopo, quando l’elezione al pontificato del cardinale Vincenzo Maria Orsini (Benedetto XIII) convinse il nipote a trasferirsi anch’egli nella Città Eterna (Marie Anne de la Trémoille era morta nel 1722, ‘liberando’ palazzo Orsini); anzi, nel 1725, il potente cardinale Niccolò Coscia – capofila dei discussi e influentissimi collaboratori beneventani del papa – guadagnò alla separazione l’avallo pontificio, nonostante lo scandalo dei benpensanti e le proteste del duca di Gravina.
Non fu questa l’unica delusione romana di Orsini. Certo, la condizione di nipote del papa e il patronage di quest’ultimo gli procurarono una serie di importanti onori (i titoli di principe dell’Impero e di consigliere intimo dell’imperatore, il veneziano cavalierato di S. Marco, l’iscrizione nel libro d’oro della nobiltà genovese); e nel 1724 Benedetto XIII, dopo avergli concesso il feudo di Roccagorga, legittimò i duchi di Gravina come eredi dei duchi di Bracciano nel titolo di principi del soglio. Tuttavia, in merito alla complessa azione di recupero del patrimonio laziale degli Orsini, il sostegno politico e finanziario della Curia fu molto inferiore alle attese di Filippo, che realizzò ben presto quanto ancora lunga, aleatoria e dispendiosa sarebbe stata l’azione legale di rivendicazione (non a caso poi abbandonata da suo figlio), mentre le spese impostegli dalla permanenza nella corte di Roma continuavano ad aumentare. Per questi motivi, nel 1725, Orsini decise di tornare a Napoli.
Negli anni successivi, anche grazie alla protezione dello zio pontefice, cercò di accrescere ulteriormente il proprio patrimonio onorifico impegnandosi a ottenere dalla corte di Vienna il collare del Toson d’Oro. A questo fine richiese il patronage del viceré di Napoli, il cardinale conte Michele Federico d’Althann, e di Ramon de Vilana Perlas marchese di Rialp, segretario del viennese Consiglio di Spagna; tuttavia, la perdurante condizione di ‘separato’ gli impedì di raggiungere tale traguardo, spingendolo a perseguirne altri.
A partire dal 1731 avviò una fitta interlocuzione – sia epistolare, sia mediata dal suo agente a Vienna Geronimo Cervaro – con Villana Perlas, affinché questi gli procurasse la carica di reggente del Consiglio collaterale (il principale organo politico-amministrativo del Regno di Napoli, presieduto dal viceré) con le stesse prerogative di governo dei reggenti togati i quali, da più di un secolo, avevano relegato a un ruolo del tutto marginale i consiglieri di estrazione baronale, privi delle sempre più indispensabili competenze tecnico-giuridiche.
Il duca di Gravina era disposto a versare 20.000 fiorini al ‘borsillo segreto’ dell’imperatore e a regalarne altri 5000 al marchese di Rialp, ma le sue richieste non vennero esaudite. Allo stesso modo, nonostante l’offerta di 40.000 fiorini, a questo grande barone digiuno di leggi fu negata la carica di presidente del Sacro Regio Consiglio, la suprema corte di giustizia del Regno di Napoli: un’altra aspirazione che denunciava un sentimento di forte emarginazione dai ruoli chiave dell’apparato burocratico (sentimento molto diffuso nell’aristocrazia nella seconda parte del viceregno austriaco), e il tentativo di recuperare peso al suo interno attivando il patronage imperiale.
Indubbi sarebbero stati i vantaggi che Orsini avrebbe potuto trarre dalla direzione di un tribunale con ampie competenze in materia feudale. Egli, infatti, sin dagli anni Dieci, aveva ingaggiato con le municipalità e alcuni settori del clero dei suoi feudi di Muro e Gravina una serie di conflitti giudiziari relativi all’utilizzo delle terre demaniali e alle modalità di riscossione di gabelle e diritti signorili.
Tuttavia, per avere un qualche segno della munificenza dell’imperatore, il duca di Gravina dovette attendere il maggio 1733 e accontentarsi dell’onorificenza di generale dei Catafratti, un corpo aristocratico di cavalleria.
Morì a Napoli il 4 gennaio del 1734.
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