LIPPI, Filippino (Filippo di Fra Filippo di Tommaso Lippi)
Nacque a Prato dall'unione illegittima tra il celebre pittore e frate carmelitano, Filippo, e la monaca agostiniana Lucrezia Buti, figlia del fiorentino Francesco, mercante di seterie. L'anno di nascita è incerto: il 1457 rimane, ancora oggi, il riferimento cronologico che raccoglie maggiori consensi.
Lucrezia Buti era entrata nel 1451 con la sorella Spinetta nel convento di S. Margherita a Prato, del quale - secondo Milanesi - nel 1456 sarebbe diventato cappellano Filippo Lippi. Questi i precedenti della vicenda di cui, a distanza di un secolo, Vasari (1568, II, pp. 620 s.) offrì la prima versione "romanzata": "Fra Filippo, dato d'occhio alla Lucrezia; […] fece poi tanto, per via di mezzi e di pratiche, che egli sviò la Lucrezia dalle monache; e la menò via il giorno [1° maggio] appunto ch'ella andava a vedere mostrare la Cintola di Nostra Donna". Partendo dal racconto vasariano, le ricerche documentarie di Milanesi hanno appurato che le sorelle Buti e altre tre monache fuggirono dal convento il 1° maggio 1456 per farvi ritorno probabilmente alla fine del 1458, visto che poi tutte e cinque rinnovarono i voti nel dicembre dell'anno successivo. Sulla base di questi elementi il concepimento e la nascita del L. si collocherebbero nel biennio 1456-58. Vi è chi propende per l'inizio del 1457, anticipando la data di nascita il più possibile in considerazione della precoce attività spoletina (Zambrano, in Nelson - Zambrano, 2004). Ruda (1993), al contrario, ritiene che il pittore sia nato nel 1458, basandosi su un passo di una nota lettera di Giovanni de' Medici a Bartolomeo de' Serragli, datata al 27 maggio di quell'anno, nella quale si ricorda che alla corte aragonese "dello errore di Fra Filippo naviamo riso un pezzo". L'errore, che aveva suscitato l'ilarità dei cortigiani, potrebbe essere appunto la nascita del figlio; ma non si può escludere che si tratti invece di qualche altro episodio della vita del carmelitano che allora attraversava un momento tormentato e difficile.
Il primo documento nel quale si fa esplicito riferimento al L. è una tamburagione - una denuncia anonima - dell'8 maggio 1461, indirizzata agli Ufficiali di notte e conservatori dell'onestà dei monasteri contro il procuratore del convento di S. Margherita, Piero d'Antonio di ser Vannozzo, e contro il cappellano, Fra Filippo Lippi (Milanesi, 1878), entrambi accusati di avere commerci carnali con le religiose. "E 'l detto Frate Filippo à avuto uno figliolo maschio d'una che si chiama Spinetta. E detto fanciullo à in casa, è grande e à nome Filippino". Nella denuncia si confondono le sorelle Buti. Mentre nel testamento del 1488 (Milanesi, 1901, pp. 148-150), il L. ricorda Lucrezia "eius dilecte matris et filie Francisci de Buti de Florentia" nonché la propria sorella Alessandra, anch'essa figlia di Fra Filippo.
Le sue vicende sono registrate molto presto sia in testi di carattere letterario e storico sia dalla letteratura artistica, con informazioni che, arricchite e integrate, sono poi confluite nelle Vite vasariane (1550; 1568), testo che ne ha condizionato in profondità e nel tempo gli studi. La visione cortigiana dello storico aretino ne enfatizza gli aspetti comportamentali - "meritò coprire con la grazia della sua virtù l'infamia della natività sua" (1550, p. 503) - e il legame con i Medici - "avendo intrinseca amicizia con Lorenzo Vecchio" (ibid., p. 500). Sul piano del giudizio critico ne esalta invece la bizzarria antiquaria: "fu il primo il quale a' moderni mostrasse il nuovo modo di variare et abbellisse ornatamente con antichi abiti e veste soccinte le figure che e' faceva. Fu primo ancora a dar luce alle grottesche, che somiglino all'antico […]. Maravigliosa cosa era vedere gli strani capricci che nascevano nel suo fare" (ibid., p. 498). Vasari quasi trasforma il L. in un proprio contemporaneo, esaltandone alcuni aspetti della sua attività matura, a scapito di una più equilibrata visione di insieme. Per tale ragione il L. destò qualche sospetto nella critica neoclassica e, soprattutto, beneficiò solo parzialmente della riscoperta ottocentesca della pittura del Quattrocento; nella visione tramandata da Vasari, il pittore era troppo moderno per essere davvero un "primitivo". Le ricerche positivistiche della seconda metà dell'Ottocento, lo sviluppo della filologia, lo straordinario interesse, culturale e collezionistico, che nel mondo anglosassone suscitava Sandro Botticelli, hanno radicalmente mutato lo stato degli studi. Le scoperte documentarie hanno consentito di ricostruirne le vicende e incrementare la conoscenza proprio della fase giovanile e della prima maturità, trascurata invece da Vasari. Queste sono state le necessarie premesse per la messa a punto delle prime monografie dedicate al L., tra le quali un posto di sostanziale rilievo spetta a quella di Scharf (1935). Degli specifici aspetti della sua attività viene dato conto nell'ampia e documentata monografia di Nelson e Zambrano (2004).
Dopo sei anni di "silenzio" documentario, la presenza del giovane L. è attestata - dal maggio 1467 al dicembre 1469 - nel cantiere della cattedrale di Spoleto, dove nella primavera del 1466 Filippo Lippi aveva dato inizio alla decorazione ad affresco della tribuna, ultima impresa pittorica prima della morte. Nei mandati, pubblicati per la prima volta da Fausti (1915), non si rinvengono solo riferimenti a spese fatte in favore del figlio del capo-bottega; già nel settembre 1467, il L. riscuoteva quanto dovuto al padre e dopo la sua morte continuò a farlo, da solo o con Fra Diamante di Feo, che ne era stato il principale collaboratore. Il discostarsi da quella che sembrerebbe essere stata una prassi consolidata trova una ragione nella sua probabile emancipazione, atto giuridico che "mutava profondamente lo status legale del giovane" (Taddei, 2001, p. 44), per tutelare i diritti di un figlio naturale.
Ma la successione nella bottega del padre non si risolse senza contrasti. L'ultimo pagamento per gli affreschi di Spoleto (23 febbr. 1470) fu riscosso dal solo Fra Diamante, il quale - scrive Vasari - "poca parte fece al fanciullo" (1550, p. 381) che, a sua volta, nel 1472 risulta lavorare con Botticelli, interrompendo così i rapporti con lo storico sodale del genitore.
Le notizie sul L. nei documenti spoletini presuppongono anche un'attiva presenza nel cantiere, aprendo così uno spiraglio sul suo primo apprendistato - di certo sotto la guida del padre - che forse ebbe inizio già nella fase conclusiva degli affreschi di Prato, terminati alla fine del 1465. Se questa ipotesi - che presuppone una straordinaria precocità nella formazione del L. - è corretta, andranno tenute in grande considerazione le proposte di Zambrano (Nelson - Zambrano, 2004) che ne rintraccia l'intervento in alcuni brani degli affreschi spoletini, in particolare nella testa di un angelo musicante nell'Incoronazione della Vergine e negli angeli a destra del feretro nella Dormitio Virginis.
Dopo il soggiorno umbro, i rapporti con Fra Diamante non sono documentati. Nel 1477 è attestata una controversia con l'antico socio del padre; e l'ipotesi di un grave conflitto intercorso tra i due sembra essere corroborata da quanto si legge sia nella biografia di Filippo sia in quella del L., in cui Vasari ricorda che il giovane, pur essendo stato affidato dal padre a Fra Diamante, "fu tenuto in governo et amaestrato da Sandro di Botticello" (1550, p. 498).
Il registro della Compagnia di S. Luca nel giugno 1472 attesta la presenza del L. nella bottega di Botticelli (Supino, 1904, p. 133), di certo non come semplice apprendista, visto che era tenuto a pagare in proprio le quote sociali. La notizia ha costituito un punto cardine per la ricostruzione dell'attività giovanile, nonché un fondamentale nodo storiografico negli studi sul pittore. Se in passato tale rapporto si prospettava in una tradizionale e gerarchica ottica di discepolato del L. rispetto al più anziano Botticelli, ricerche più recenti hanno diversamente orientato tale ricostruzione. Da questo punto di vista la Pietà di Cherbourg (Musée Thomas Henry), datata ai primi anni Settanta del Quattrocento e restituita al L. da Zambrano (1996), costituisce uno snodo fondamentale.
La tavola da una parte offre agganci inconfutabili con opere assegnategli con certezza, quali l'Ester e Assuero di Chantilly (Musée Condé), dall'altra è una evidente parafrasi della Pietà lippesca (Milano, Museo Poldi Pezzoli), tanto da potere essere stata esemplata partendo dal materiale proveniente dalla bottega paterna. Il dipinto rappresenta così un punto fermo per ricostruire l'avvio del percorso artistico del L., parallelo e non in esclusiva dipendenza da quello di Botticelli. In questo contesto si inserisce la collaborazione tra i due pittori nell'Adorazione dei magi (Londra, National Gallery, inv. n. 592). L'adesione alla maniera di Botticelli permane nelle opere della metà degli anni Settanta. Nella Madonna della Melagrana (Parigi, Louvre), a lungo contesa tra Botticelli e il L., risalta con grande evidenza l'assimilazione di un "canone" di venustà femminile del tutto botticelliano, ma le cui radici vanno, ancora una volta, ricercate in opere di Filippo degli anni Sessanta, quali la Madonna e angeli degli Uffizi o quella di Monaco. Per il L. tale maniera rientrava in una tradizione che, a buon diritto, poteva rivendicare come propria e che, inoltre, si presentava come una sorta di "marchio di fabbrica" a connotare lo stile di una bottega, secondo una prassi non inconsueta nella Firenze del tempo. L'Incoronazione della Vergine (Washington, National Gallery) testimonia oggi il momento più maturo della collaborazione tra Botticelli e il Lippi. Nella tavola di grande formato - quindi destinata a un luogo pubblico - risalta con evidenza il ricordo degli affreschi di Spoleto, che si accompagna al motivo dinamico e scenografico degli angeli reggicortina che svelano l'evento seguendo una regia tutta botticelliana. Cruciali e controverse le tavole con le Storie di Ester - in origine due forzieri dipinti (smembrati tra Chantilly; Parigi, Louvre; Vaduz, Fürstlich Liechtensteinische Gemäldegalerie; Firenze, Fondazione Horne; Roma, collezione Pallavicini) - sono un passaggio importante per ricostruire la formazione del L. e l'intreccio storiografico che lo aggancia a Botticelli. La qualità dei paesaggi, il senso del ritmo e dello spazio, la gestualità teatrale (per esempio nella cosiddetta Derelitta della collezione Pallavicini) mostrano una declinazione tutta personale del linguaggio postlippesco e botticelliano. Anche se le tavole vanno assegnate in blocco al L., i dipinti per la loro indefinitezza stilistica esemplano quel dilemma storiografico legato alla questione dell'"Amico di Sandro", querelle che ha inciso profondamente sugli studi e sulla moderna ricostruzione della personalità del Lippi.
Lo pseudonimo "Amico di Sandro" fu coniato da Berenson (1899) in un saggio diventato celebre, con il quale creò una personalità fittizia, poi soppressa dal suo stesso inventore nel 1932. Sotto tale etichetta vennero raggruppate opere precedentemente attribuite sia a Botticelli sia al giovane L., dando così corpo a un pittore molto vicino a Botticelli, ma che, avendo caratteristiche proprie, non poteva essere considerato un suo collaboratore. Tale artista sarebbe stato il maestro del L., giustificando così la vicinanza stilistica tra i due. L'operazione di Berenson nasceva da un giudizio critico sostanzialmente negativo sul L., opinione ripresa poco dopo in termini ancora più negativi da Venturi nella sua Storia dell'arte italiana, dove, a proposito dei dipinti della cappella Carafa, scrive: "Filippino cade nello sgangherato, nella pesantezza, nel falso" (1911, p. 654). L'interesse di Berenson per Botticelli e per la cultura figurativa fiorentina di età laurenziana determinò la nascita di una personalità artificiale che condensava qualità e valori che - stando a quella visione - costituivano la quintessenza del Rinascimento italiano. "Amico di Sandro" ebbe, per forza di cose, vita breve. Nonostante alcuni tentativi di agganciare lo pseudonimo a un nome, la mancanza di qualsiasi riscontro documentario mise in discussione una costruzione fondata in modo esclusivo sull'occhio del conoscitore. Gronau (1929) e poi Gamba (1933) posero fine alla sua esistenza, tuttavia da allora il L. fu universalmente considerato un quattrocentista e non un precursore della maniera moderna.
Il Tobiolo e l'arcangelo Raffaele (Washington, National Gallery), i Tre arcangeli (Torino, Galleria Sabauda) e l'Adorazione dei magi (Londra, National Gallery, inv. n. 1124), opere eseguite con grande probabilità tra il 1475 e il 1480, concludono la fase di formazione. Nelle prime due il consueto riferimento ai modi di Botticelli si coniuga a un evidente interesse con quanto veniva messo a punto da Andrea del Verrocchio e dalla sua bottega, in particolare al Tobiolo e l'angelo di Londra e propone un confronto con i dipinti di medesimo soggetto di Piero del Pollaiolo e di Francesco Botticini. L'Adorazione dei magi va senza dubbio annoverata tra i capolavori giovanili.
Nel 1478 un documento, non più rintracciabile, attesta l'esecuzione di una pala d'altare per la chiesa della Ss. Annunziata a Pistoia, per la quale ricevette un compenso di 45 ducati d'oro (Pons, 1996). Il 1o maggio 1480 affittò una casa a Firenze in via del Palazzuolo, per la quale risulta abbia pagato la pigione fino all'aprile 1488 (Nelson, 1991), fino a quando non si trasferì in via degli Agnoli; il 23 sett. 1480 è nominato tutore di un certo Michele Vanni da Prato; il 18 ag. 1481 è ammesso nella Compagnia di S. Paolo, confraternita religiosa che contava allora oltre duecento componenti di estrazione sociale diversa, tra i quali artisti e artigiani, ma anche Lorenzo de' Medici e Angelo Poliziano (Id., 1992, pp. 11 s.). Il L., che partecipò con una certa assiduità alle riunioni settimanali, risulta iscritto nei ruoli di questa rigorosa associazione fino all'aprile 1503. I registri della Compagnia sono stati vagliati per verificare la presenza del L. a Firenze, offrendo dati significativi soprattutto per il periodo 1481-94 (Id., 1991).
La sua attività è poi documentata a Lucca nei primi anni Ottanta del Quattrocento.
Qui, alla fine del 1482, realizzò la Pala Magrini per S. Michele in Foro (in situ) e il 29 settembre di quell'anno si impegnò con Niccolò Bernardi a dipingere per la chiesa di S. Maria del Corso una pala d'altare con una scultura lignea al centro, terminata entro il settembre 1483, quando ricevette il pagamento a saldo (Concioni - Ferri - Ghilarducci, 1988). La realizzazione del dipinto, composto da due ante lignee (Pasadena, Norton Simon) disposte simmetricamente ai lati della scultura, per la quale il L. chiamò Benedetto da Maiano, dimostra che il L. poteva associarsi a uno tra i più quotati maestri della Firenze del tempo, con il quale continuò a collaborare. Nei due dipinti si sperimentano soluzioni compositive originali, sostenute da una straordinaria maestria grafica: il primo si caratterizza per la sottile e inconsueta disposizione ritmica dei personaggi, il secondo sul complesso rapporto spaziale tra scultura e pittura, dove quest'ultima si connota per il sapiente sfoggio di preziosità materica che, insieme con le citazioni da Hans Memling (Meiss, 1973), documenta l'interesse del L. per la pittura fiamminga.
Al giugno 1482 risale il primo documentato rapporto con Filippo Strozzi (Sale, 1976), committente di peso, per il quale il L. dipingerà la Madonna con il Bambino (New York, Metropolitan Museum: 1485-88 circa) e poi nel 1487 darà inizio ai noti affreschi nella cappella gentilizia a S. Maria Novella a Firenze. Nel 1482 o nel 1483 dipinse probabilmente i due tondi con l'Annunciazione destinati all'aula dell'Udienza del palazzo pubblico di San Gimignano, opera che era di certo conclusa prima del maggio 1484.
Il dittico, di straordinaria complessità compositiva, costituisce un'audace soluzione formale nel rapporto tra figura e ambientazione spaziale in relazione alla forma circolare del tondo. Un tour de force virtuosistico sorretto dalla distorsione dell'immagine, nel quale la piramide prospettica accoglie l'analitica visione nordica.
L'orchestrazione della tavolozza e della materia pittorica sviluppa quanto messo a punto nella Pala Bernardi di Lucca e costituisce la premessa per l'Apparizione della Vergine a s. Bernardo (Firenze, badia).
La grande pala lignea fu commissionata da Piero del Pugliese, esponente di spicco dell'oligarchia fiorentina, con il quale il L. aveva stabilito un duraturo rapporto testimoniato, tra l'altro, dall'Autoritratto con Piero del Pugliese (Denver, Art Museum). L'opera, che conferma l'autorevolezza raggiunta anche in patria, fu realizzata per la chiesa del monastero fiorentino delle Campora, dalla quale nel 1529 fu trasferita alla badia. I documenti ne circoscrivono la cronologia in un arco di tempo piuttosto ampio - posteriore all'autunno 1479 e precedente alla primavera 1488 - ma che su base stilistica può essere ragionevolmente ristretto alla metà degli anni Ottanta (Zambrano, in Nelson - Zambrano, 2004).
"Nella sua prima gioventù diede fine alla cappella de' Brancacci […], cominciata da Masolino e non finita da Masaccio per morte sua" (Vasari, 1550, p. 498). Oltre che da Vasari, il completamento del celeberrimo ciclo è ricordato anche dalle fonti più antiche, che ne avevano immediatamente colta l'importanza.
Dopo i restauri degli anni 1981-90, l'intervento del L. è individuato in maniera concorde nell'integrazione di alcune parti della Morte di Anania, nel completamento del S. Pietro in cattedra e della Resurrezione del figlio di Teofilo, nella Disputa con Simon Mago e crocifissione di Pietro, nel S. Pietro visitato in carcere da s. Paolo e nel S. Pietro liberato dal carcere (Baldini - Casazza, 1990). Nonostante la mole degli studi dedicati a questo ciclo pittorico, molti aspetti di tale operazione di "integrazione" e "restauro" rimangono ancora oggi oscuri, se si tiene presente che nel Quattrocento portare a termine (o risarcire) un ciclo pittorico a oltre mezzo secolo dalla sua prima redazione era evento del tutto inusitato. Al momento, l'intervento del L. è documentato in maniera univoca dalle fonti, ma non dai documenti; non sono emersi dati certi né sulla cronologia né sulla committenza. Sarà quindi necessario attenersi a quelle che si configurano oggi come le ipotesi più fondate. La scelta di completare gli affreschi non coinvolse la famiglia Brancacci, ma piuttosto la comunità d'Oltrarno attraverso le sue compagnie religiose, il gonfalone e le consorterie delle famiglie più cospicue, tra le quali emergono i Soderini, i Pugliese, i Guicciardini (Zambrano, in Nelson - Zambrano, 2004). L'impresa assunse così un significato pubblico e quindi politico, nel quale poté entrare in gioco un aspetto tradizionale della politica laurenziana, volta a sostenere e a fare propria la tradizione culturale fiorentina qui rappresentata da Masaccio. La scelta del L. per tale intervento - di certo pensato come mimetico completamento di quanto era già stato dipinto - si lega alla familiarità di suo padre con il Carmine. Nella totale assenza di documenti, la cronologia rimane la questione che presenta maggiori difficoltà: si oscilla tra lo scorcio degli anni Settanta per l'inizio dei lavori e la fine del decennio successivo per la loro conclusione. Al momento è prudente indicare come data di riferimento la prima metà degli anni Ottanta e supporre che l'intervento sia stato scaglionato nel tempo, anziché concentrato in un'unica campagna. Nei dipinti del L. al Carmine si rinvengono infatti caratteri stilistici molto differenziati, talvolta da agganciare all'ultima fase botticelliana, talvolta molto vicini ai dipinti lucchesi.
Lo studio del testo pittorico masaccesco - con il quale vi è una evidente e necessaria ricerca di sintonia, per esempio nella Visita di s. Paolo a s. Pietro in carcere - ebbe un peso notevole nel percorso stilistico del L., segnando il distacco irreversibile dai modi botticelliani e imponendo un più saldo uso della costruzione spaziale. Inoltre alla Brancacci il L. si misura con il ritratto, nell'inevitabile confronto con quelli masacceschi, dando prova di grandissima abilità nel rinnovare il genere: la fedeltà al modello si coniuga, di volta in volta, con il carattere e la modernità dell'effigiato.
Nel 1485 gli fu commissionata una Madonna con il Bambino da Iacopo di Giovanni Salviati, genero del Magnifico. Il L. era ormai affiancato da una bottega e cominciava a godere di un certo benessere economico testimoniato dall'acquisto il 16 dic. 1485 di un "casolare" a Prato - adiacente alla casa ereditata dal padre - per il quale versò il saldo il 21 apr. 1488 (Nelson, 1992, p. 18), e il 5 genn. 1488 a Firenze acquistò due case confinanti in via degli Agnoli (ora via degli Alfani), dove abitò e lavorò fino alla fine dei suoi giorni.
La Pala Rucellai (Londra, National Gallery) proviene dalla cappella di famiglia nella chiesa di S. Pancrazio a Firenze; il sacello fu consacrato il 28 ag. 1485, ma non tutti sono convinti che questa data possa costituire un sicuro termine ante quem.
Nel dipinto il L. rimedita e riformula la celeberrima e incompiuta Adorazione dei magi che nel 1482 Leonardo aveva lasciato incompiuta (Zambrano, in Nelson - Zambrano, 2004), della quale viene ripreso il gruppo centrale della Vergine con il Bambino all'ombra dell'albero.
In tale fase della produzione del L. si registra una stretta consonanza di interessi con Piero di Cosimo, nell'attenzione alla natura e al paesaggio. Quest'ultimo è il protagonista della Pala Rucellai: la sacra conversazione in primo piano ne è del tutto avvolta, anche attraverso i temi sussidiari che vi sono introdotti quali, per esempio, la lotta tra l'orso e il leone o il volatile che nutre i propri piccoli. La pala londinese rappresenta l'inizio di una fase nuova nella rappresentazione del paesaggio nella pittura fiorentina di fine Quattrocento: grazie a Leonardo e ai fiamminghi, le soluzioni messe a punto da Antonio Pollaiolo e nella bottega di Andrea del Verrocchio vengono qui superate grazie alla serrata unità prospettica che tiene insieme il centro e la periferia della composizione.
Datata al 20 febbr. 1486, la Pala di palazzo Vecchio (ora agli Uffizi) era in origine destinata alla sala dei Duecento, dalla quale fu rimossa probabilmente dopo il 1545, ed è nota anche come "Pala degli Otto di pratica", a seguito di un'erronea indicazione vasariana.
Il carattere ufficiale dell'incarico si riflette non solo nell'iconografia e nell'allusione alla famiglia de' Medici, ma anche nel rigoroso impianto compositivo e architettonico, sintesi della sacra conversazione quattrocentesca e "punto di partenza per gli artisti che si troveranno a lavorare in Firenze al principio del Cinquecento" (Zambrano, in Nelson - Zambrano, 2004, p. 352).
Al patrocinio mediceo, che emerge nella commissione della Pala di palazzo Vecchio e che molto probabilmente ha le sue radici nella lunga consuetudine tra Cosimo il Vecchio e Filippo Lippi, si deve un incarico di grande rilevanza, ma di cui non è rimasta traccia: la decorazione pittorica della villa dello Spedaletto (Volterra) dipinta tra il 1487-88 (Elam - Rubinstein, 1988) o, forse, qualche anno dopo (Nelson, 1992). Il L. vi affrescò una vasta sala confrontandosi con Botticelli, Domenico Ghirlandaio e Pietro Perugino impegnati in altre parti della villa, dimostrando così che alla fine degli anni Ottanta era considerato un maestro di grande reputazione. La solida fama del L., che ormai travalicava le mura di Firenze è testimoniata dai dipinti commissionati dal re d'Ungheria Mattia Corvino dei quali si fa esplicita menzione nel suo testamento del 1488.
Il 12 apr. 1487 venne sottoscritto il contratto per decorare la cappella di Filippo Strozzi a S. Maria Novella a Firenze: il compenso pattuito era di 250 fiorini larghi e il lavoro doveva essere terminato entro il 1° marzo 1490. Nell'immediato la stesura degli affreschi andò a rilento e poi si interruppe a seguito degli impegni romani e arrivò a conclusione solo nel 1502 (Sale, 1976).
Il 26 ag. 1488 il L. giunse a Roma, dove il 2 settembre stipulò il contratto per affrescare la cappella gentilizia del cardinale napoletano Oliviero Carafa nella chiesa di S. Maria sopra Minerva a Roma, ricevendo subito 100 ducati di acconto; il giorno seguente ripartì per Firenze.
Tale sequenza dei fatti è documentata dal carteggio che li accompagnò, dal quale emerge anche la mobilitazione della diplomazia fiorentina per assicurargli l'importante commissione e contrastare le manovre di altri concorrenti che ambivano al lucroso incarico. Appena siglato l'accordo, il 2 settembre stesso, il cardinale ne comunicò il felice esito all'abate Gabriele Mazzinghi che aveva sostenuto la candidatura del Lippi. Dalla lettera (Müntz, 1889, pp. 483 s.) emergono con chiarezza i retroscena: Mazzinghi era in contatto diretto con il L. che fu accompagnato all'incontro con il cardinale dall'oratore fiorentino Giovanni Antonio Lanfredini; vi era un forte concorrente toscano e l'intervento del Magnifico ebbe un peso risolutivo nel portare a buon fine il contratto. Al di là delle vicende artistiche, la decorazione della cappella Carafa si inserisce in un contesto politico di cui, nei dipinti, rimane concreta traccia nella presenza degli emblemi medicei associati a quelli del Carafa, segno di un'intesa connessa alla nomina cardinalizia di Giovanni de' Medici, per la quale l'assenso del Carafa era cruciale (Bertelli, 1965), e alla tradizionale alleanza tra Firenze e Napoli.
Tanta attenzione determinò un impegno immediato del L. nell'impresa romana; in previsione di una lunga assenza da Firenze, il 21 sett. 1488 dettò testamento (Milanesi, 1901) e poi presumibilmente tornò a Roma. "Se ne andò a Roma […] passando prima da Spoleto, come volse Lorenzo detto, per fare una sepoltura di marmo a fra' Filippo suo padre" (Vasari, 1550, p. 501). Il L. era stato infatti incaricato dal Magnifico di realizzare un monumento nel duomo di Spoleto, dove era sepolto il pittore. La memoria, costruita attorno al busto-ritratto e alla grande iscrizione dettata da Poliziano, mantiene il carattere originario del progetto - celebrare gli uomini illustri di Firenze - nel quale, naturalmente, la presenza del giglio fiorentino e dello stemma mediceo ne evidenziano in maniera plateale il patronato. Il disegno, liberamente ispirato a un sarcofago antico, va di certo assegnato al L. in considerazione della straordinaria somiglianza con il fastigio della cornice marmorea dell'Annunciazione nella cappella romana. Forse durante la fase iniziale di residenza a Roma restaurò una Madonna del primo Quattrocento, un'edicola mariana che un tempo si trovava in via delle Palle presso la sede della Comunità fiorentina a Roma, affresco frammentario (ora a S. Giovanni dei Fiorentini), nel quale il Bambino mostra evidenti caratteri filippineschi (Bertelli, 1996).
Dall'autunno 1488 al giugno 1489 a Roma preparò i progetti di decorazione del sacello del quale dipinse la volta con le Sibille. A maggio scriveva a Filippo Strozzi rassicurandolo sul suo prossimo ritorno a Firenze, anche se dalle sue parole (Bicchierai, 1855) si evince che sulle pareti della cappella si stava ancora sistemando la cornice marmorea per l'Annunciazione e che, di conseguenza, queste ultime non erano ancora pronte a essere affrescate.
Alla fine di giugno, come promesso, ritornò a Firenze, dove rimase l'estate e parte dell'autunno, affrescando la volta della cappella del banchiere fiorentino per la cui sequenza esecutiva le ricerche di Borsook (1970) e di Sale (1976) costituiscono un insostituibile riferimento. Dal gennaio 1490 fino all'agosto 1493 risulta assente da Firenze e di certo fu di nuovo a Roma, da qui (ante febbraio 1491) inviò un progetto per la facciata di S. Maria del Fiore, in vista del suo auspicato completamento. Prima del 25 marzo 1493 la decorazione dell'ambiente principale della cappella doveva essere terminata, il cerimoniere papale, Giovanni Burcardo, ricorda nel Diario che in occasione della festa dell'Annunziata Alessandro VI visitò il sacello con una nutrita rappresentanza del Collegio cardinalizio. Gli affreschi giunsero al loro definitivo completamento l'anno seguente, probabilmente durante un breve soggiorno del L. a Roma, quando furono portati a termine gli stucchi e le pitture murali nella volta di un ambiente annesso, destinato a ospitare la sepoltura del Carafa.
A partire da Vasari, gli affreschi romani sono stati considerati un punto di svolta nell'attività del L. e, senza dubbio, il gusto antiquario è l'aspetto più evidente di tale cambiamento. Negli anni romani il L. si dedicò con assiduità all'esplorazione e allo studio dei monumenti antichi. Tale interesse è adesso documentato da un ridotto numero di disegni, ma che in origine dovevano costituire un gruppo molto consistente (Shoemaker, 1978): "parecchi libri disegnati di sua mano - ricorda Cellini (pp. 106 s.) nella sua autobiografia - ritratti dalle belle anticaglie di Roma; la qual cosa, vedendogli, m'innamororno assai". In tale direzione si mosse in sintonia con Giuliano da Sangallo, scoprendo attraverso quest'ultimo un antico che era fondamentalmente anticlassico, repertorio di modelli nei quali l'invenzione prevale sul canone; il L. ripercorse e attualizzò quanto esperito da Donatello cinquant'anni prima e la sua esperienza antiquaria romana nacque nell'alveo di una ben identificata tradizione fiorentina (Parlato, 1990). Tale interesse si intrecciava con la capacità di costruire attraverso l'ornamentazione all'antica un repertorio emblematico riferito sia all'araldica del Carafa sia a "commento" delle singole scene (Id., 1989). La relazione tra la pittura e la funzione della cappella è stata ben evidenziata da O'Malley (1981), mentre il rapporto tra i dipinti e il pensiero tomistico è una tesi approfondita da Geiger (1986).
La ricerca di unità tra pittura e architettura insieme con la serrata monumentalità compositiva è l'altro aspetto innovativo degli affreschi della Minerva. Il Trionfo di s. Tommaso d'Aquino è concepito con evidenti espedienti teatrali, anche più manifesti nel celebre disegno preparatorio (Londra, British Museum), nel suggerire per esempio un legame tra la scena dipinta e lo spazio della cappella, prospetticamente amplificato nella turbinosa Assunzione della Vergine.
Dopo il ritorno a Firenze, nell'estate 1493, si colloca il frammentario Laocoonte nell'atrio della villa medicea di Poggio a Caiano, di certo eseguito prima della espulsione dei Medici da Firenze nel novembre del 1494 (Neilson, 1938, pp. 99 s.); da allora fino all'estate del 1495 il L. lavorò con assiduità alla cappella Strozzi, dove completò le Storie di s. Filippo. Queste ultime, nella ricostruzione del tempio di Marte e nell'insistito esotismo antiquario dei personaggi, testimoniano il nuovo gusto archeologico e "romanista" che il L. introdusse a Firenze. Va sottolineato anche che nei dipinti scompare la consuetudine fiorentina di inserire ritratti di personaggi contemporanei, uso al quale il L. si era attenuto sia nella Brancacci sia nella Carafa, una scelta che probabilmente fa seguito a una precisa richiesta della committenza ed è del tutto coerente con la funzione funeraria e privata del sacello.
Nel novembre 1494 progettò il Trionfo della Pace in occasione dell'ingresso trionfale di Carlo VIII a Firenze (Borsook, 1961); nel marzo del 1495 gli fu affidata la realizzazione di una pala d'altare per la certosa di Pavia; l'opera fu solo abbozzata e dopo la morte del pittore, nel 1511, la commissione passò a Mariotto Albertinelli. Il 6 marzo 1496 dettò un secondo testamento (Nelson, 1991, pp. 55-57) dal quale il L. risulta coniugato con Maddalena Monti; ma la coppia non aveva ancora avuto figli; forse le nuove disposizioni testamentarie si resero necessarie in seguito al matrimonio, probabilmente celebrato l'anno precedente (ibid., p. 48). Dall'unione nasceranno tre figli: il primogenito Roberto (2 febbr. 1500), pittore; Giovanni Francesco (15 maggio 1501), orefice; Luigi Tommaso (24 sett. 1503), il quale dopo la morte del padre sarà chiamato Filippo, calzolaio (Nelson - Zambrano, 2004, pp. 616 s.).
Il 29 marzo 1496 firmò l'Adorazione dei magi (ora Firenze, Uffizi) per l'altare maggiore della chiesa di S. Donato a Scopeto, dove il dipinto rimase fino al 1529, quando il complesso monastico fu demolito; l'opera sostituiva la celeberrima tavola per la quale Leonardo aveva ricevuto la commissione nel luglio 1481 e che poi l'anno seguente lasciò incompleta.
Il L. ricevette l'incarico nel 1494 alle stesse condizioni stabilite per Leonardo, prevedendo altresì un'ampia cornice lignea messa in opera da Baccio d'Agnolo, nella quale, oltre alla pala, erano allocate le cinque tavolette della predella (Cecchi, 1988). La composizione pittorica riprende, nelle linee generali, l'impianto leonardesco, tuttavia il legame con l'illustre prototipo rimane in superficie. Il carattere esotico del tutto consono al tema iconografico viene invece sfruttato a fondo dal L. che sembra attingere a schizzi e disegni realizzati durante il soggiorno romano e, da questo punto di vista, la tavola è molto vicina alle Storie di s. Filippo nella cappella Strozzi e all'Incontro alla porta Aurea (Copenaghen, R. Museo delle belle arti) firmato e datato 1487. Di grande interesse è l'aspetto politico connesso alla commissione del dipinto per S. Donato (Nelson, in Nelson - Zambrano, 2004). Nella Adorazione dei magi, la presenza dei ritratti di illustri componenti del ramo cadetto dei Medici, che avevano appena assunto un notevole peso nella politica fiorentina di quegli anni, induce a credere che i monaci avessero stabilito un legame di patronato con la consorteria che allora aveva in mano le redini del potere.
Tra il 1498 e il 1500 il L. eseguì per la famiglia Valori una tavola destinata alla chiesa di S. Procolo a Firenze, nell'anta centrale figurava la Crocifissione con la Vergine e s. Francesco (già a Berlino, distrutta nel 1945), e nelle due laterali i santi Giovanni Battista e Maria Maddalena (Firenze, Accademia). Gli stretti legami dei committenti con i piagnoni, il ricorso al fondo d'oro nella Crocifissione sono stati visti a partire da Scharf (1935) in relazione con le vicende politiche e religiose della Firenze di fine Quattrocento; e per Chastel (1959) il voluto arcaismo della composizione dimostra la straordinaria versatilità stilistica del L., capace di adattarsi alle diverse esigenze dei committenti. In questo contesto va osservato come nel mettere a punto l'emaciata e penitente Maddalena il L. abbia guardato alla celebre statua lignea di Donatello (Firenze, Museo dell'Opera del duomo) che ancora una volta è fonte di ispirazione per diversi registri dello stile filippinesco.
Nel 1498 gli venne allogata la pala per la sala del Gran Consiglio a palazzo Vecchio, per la quale realizzò solo alcuni disegni; il suo coinvolgimento in opere e incarichi pubblici è poi attestato dalla partecipazione a una commissione incaricata di deliberare in merito alla manutenzione della lanterna del duomo (Guasti, 1857, pp. 119 s.); e il 7 genn. 1504 figura tra i trenta componenti del comitato che doveva stabilire la collocazione del David di Michelangelo, nel quale il L. difese la posizione dell'autore (Parks, 1975).
Nel frattempo la decorazione della cappella Strozzi procedeva: tra il 1496 e il 1497 aveva con buona probabilità dipinto la parete d'altare, nell'aprile di quest'anno si aprì un contenzioso con gli eredi sul compenso da pagare, disputa che si risolse a favore del L., che ottenne un incremento di quanto pattuito nel contratto del 1487. Superate tali divergenze, i lavori - stando ai mandati di pagamento - dovevano essere sostanzialmente conclusi alla fine del secolo anche se l'ultima scena dipinta, la Resurrezione di Drusiana, reca la data 1502. Forse, grazie a tali introiti era in grado, nel settembre 1499, di acquistare un appezzamento di terra a Settimo in Valdarno, ottenendo anche la possibilità di trascorrere due mesi l'anno "in villa" (Waldman, 2004, pp. 174 s.).
La sequenza esecutiva della Strozzi, nella quale la Resurrezione di Drusiana va di certo collocata nel momento conclusivo dei lavori, consente di registrare l'orientamento del L. allo scorcio del secolo. Nella scena - dove aleggia il ricordo dell'autorevole modello giottesco della cappella Peruzzi a S. Croce - il corteo funebre si dipana sul proscenio, in una sequenza lineare che consente una piana e chiara lettura del miracolo; l'articolazione spaziale è molto semplificata, contenuto anche lo spirito archeologico, attraverso il quale si ricostruisce l'antica Efeso, soprattutto se messo a confronto con il Miracolo di s. Filippo sulla parete opposta. Si registra quasi un ripensamento di quanto realizzato a Roma e poi a Firenze negli anni Novanta del Quattrocento, di certo un'attenuazione di quello spirito bizzarro tanto elogiato da Vasari.
Negli ultimi anni di vita, l'attività continua con il consueto, incalzante ritmo di lavoro e non sembra risentire, dal punto di vista professionale ed economico, delle novità davvero straordinarie che si erano appena affacciate sulla scena fiorentina con il nuovo secolo. Anzi, contattato da un emissario di Isabella d'Este per decorare lo studiolo della marchesa, il L. nel settembre 1502 avrebbe dichiarato: "chel non poria dar principio a tal opera de questi sei mesi per esser occupato circha altri lavoreri, et che forse poi finiti questi el poria servir la S.V." (Baghirolli, 1873, pp. 159 s.). Gli incarichi dovevano essere davvero tanti: si poteva permettere di rifiutare una cliente di rango e, pochissimo tempo dopo, il 27 settembre, affittò un'altra bottega in via dei Servi, il che lascerebbe intendere che quella di via degli Agnoli non fosse sufficiente (Waldman, 2004, p. 178). In quello stesso anno il Comune di Prato gli aveva allogato una pala per la sala dell'udienza (Prato, Museo civico); il 15 apr. 1503 rinnovò il contratto per un'ancona monumentale destinata all'altare maggiore della Ss. Annunziata, incarico di grandissimo prestigio che riuscirà solo a iniziare e che dopo la morte fu completato da Pietro Perugino.
Lo stile ultimo è attestato da tre opere: il Matrimonio mistico di s. Caterina (Bologna, S. Domenico), firmato e datato 1501, la Pala Lomellini (Genova, Palazzo Bianco), firmata e datata 1503, e infine la tavola per la Ss. Annunziata (Firenze, Accademia).
Permangono gli elementi antiquari che comunque giocano un ruolo del tutto ausiliario, le architetture dipinte diventano meno complesse, le figure di venustà ferma e austera. L'attenzione alle novità fiorentine del primissimo Cinquecento traspare nell'ordinata disposizione dei santi attorno al gruppo centrale nel Matrimonio mistico di Bologna, dove ritorna l'eco delle composizioni leonardesche, esperienza che si ritrova nel classico e statuario chiasmo del S. Sebastiano di Genova. Si delinea, in questa fase conclusiva, un profilo che non corrisponde né a quello bizzarro, consegnatoci da Vasari, né del tutto in sintonia con il pittore "inquieto" e "fuorilegge" di Longhi (1934, p. 99), un percorso diverso e, in qualche modo imprevisto, che si riverbera nell'opera di Andrea del Sarto che, come è noto, era stato allievo di Raffaellino del Garbo, fedele interprete del Lippi. Nella parte superiore della Deposizione per la Ss. Annunziata, la sola che ebbe il tempo di eseguire - testimonia Vasari e confermano le analisi diagnostiche (Falletti - Nelson, 2004) - il lascito è molto diverso: le sue drammatiche note riecheggiano nella Deposizione di Giovanni Battista di Iacopo, il Rosso Fiorentino, a Volterra.
Morì improvvisamente a Firenze il 20 apr. 1504, di "sprimanzia" (Vasari, 1550, p. 503), o squinanzia, una forma di angina fulminante. Il 21 aprile si celebrarono le esequie alle quali presero parte i monaci della Ss. Annunziata (Casalini, 2001, p. 10) e "mentre si portava a sepellire si serrarono tutte le botteghe nella via de' Servi, come ne' dolori universali si suol fare il più delle volte" (Vasari, 1550, p. 503).
Il 24 aprile venne redatto l'inventario dei beni conservati nella casa e nella bottega di via degli Agnoli (Carl, 1987), fatto eseguire dagli esecutori testamentari, Francesco del Pugliese e il suocero, Pietro Paolo Monti. Il documento è di grandissimo interesse perché descrive la dimora e lo studio di un artista affermato nella Firenze del Rinascimento. Andrà almeno ricordata la presenza di un liuto e di altri strumenti musicali, della Bibbia, di opere di Dante, Petrarca e Boccaccio, a testimoniarne il grado di cultura insieme con testi che gli dovevano essere stati molto utili nel lavoro, quali le Metamorfosi di Ovidio in "vulghare", un "libretto delle Sibille" e un volume manoscritto di Tito Livio. Davvero numerosi sono poi i dipinti rimasti incompiuti: tra questi non compare però la Deposizione per l'Annunziata che probabilmente si trovava nella bottega di via dei Servi presa in affitto nel 1502, di cui non si fa menzione in questo inventario.
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