MUGNOS, Filadelfo
– Nacque a Lentini, nel Siracusano, nel 1607, ma poi si trasferì sin da ragazzo a Palermo per proseguire gli studi.
Dalle scarne informazioni disponibili sulla sua formazione si ricava che, laureatosi in diritto, coltivò un forte interesse per le antichità, la letteratura, l’araldica e gli studi genealogici. Da giovane scrisse una serie di testi, rimasti inediti, dedicati alle vite dei santi, stimolato dal processo di reinvenzione del culto dei santi Alfio, Filadelfo e Cirino, martiri del III secolo, importante per la storia e l’identità della sua città natale: secondo la leggenda, infatti, i tre santi, giunti a Messina, sarebbero stati processati a Taormina e poi giustiziati a Lentini. All’inizio del Seicento la ripresa di questo culto veicolò le ambizioni messinesi di egemonia sulla Sicilia orientale, e in particolare sul territorio di Lentini, area di approvvigionamento granario per la città dello Stretto. Tradotta (o fattasi tradurre dal greco) in latino una parte relativa al martirio dei tre santi del Menologio dell’agiografo bizantino Simone Metafraste, Mugnos la usò come base per la sua prima opera a stampa: Il trionfo leontino, o vero il meraviglioso et orrendo martirio e morte delli gloriosi martiri Alfio, Filadelfo e Cirino (Palermo 1640).
La prima metà degli anni Quaranta fu una fase di grande creatività di Mugnos, che, oltre a vari scritti minori (l’idillio Proserpina rapita, Messina 1640; il Discorso contro coloro che dicono essersi ritrovata un’arte nuova di compor tragedie, Palermo 1645), si dedicò a due grandi, impegnativi lavori: da una parte un’opera storica su quello che è considerato l’evento fondamentale della storia siciliana, vale a dire la rivolta antifrancese del Vespro (1282), con la conseguente ‘chiamata’ sul trono di Sicilia di re Pietro d’Aragona; e dall’altra un vasto studio genealogico sulle famiglie nobili siciliane.
I raguagli historici del Vespro siciliano (Palermo 1645) sono un’opera assai significativa: pubblicare nel mezzo dei tormentati anni Quaranta del Seicento una riflessione su una ribellione capitale e sulle sue ragioni fu un atto impegnativo, e per certi versi coraggioso. Certo, Mugnos, usando l’arte della dissimulazione, fu abile a infarcire l’introduzione di una contrapposizione di comodo tra i lunghi «felici reggimenti» aragonesi e asburgici e il breve (17 anni) periodo di dominazione francese, caratterizzato da violenze, ruberie e prepotenze. Creata questa sorta di cortina fumogena, tuttavia, Mugnos avanzò una tesi politicamente temeraria, anche se largamente presente nella seconda scolastica spagnola: la legittimità della ribellione nei confronti di un principe che si fosse fatto tiranno. Questa tesi si inscrive in una visione antropologica pessimistica, che vede da un canto gli uomini preda della naturalità di passioni difficili da frenare: l’ambizione, l’invidia, l’ingordigia, la paura e così via. Se però le azioni mosse da tali passioni sono naturali, altrettanto lo sono le reazioni popolari, sicché proprio come un animale che, sottoposto a un giogo troppo pesante, scalcia, così i sudditi oppressi si ribellano. L’argomentazione è evidentemente insidiosissima, perché tende a far ricadere la causa delle insurrezioni popolari sui comportamenti dei principi, vale a dire sulle loro smodate passioni, ovvero, in termini cristiani, sui loro peccati. Ne viene la denuncia di modalità di governo come l’eccessivo ruolo dei ministri, il fiscalismo esorbitante e la vendita degli uffici; in controluce, una condanna delle pratiche di quel ‘governo straordinario e di guerra’ che aveva dominato, a partire dagli anni Venti, le politiche delle due grandi potenze contrapposte, la Francia e la Spagna, e dei loro ministri-favoriti: Richelieu e Olivares.
L’esempio dei Vespri, come un suggestivo specchio storico, invia riflessi assai istruttivi per la sensibilità contemporanea. Enfatizzandoli, la trattazione di Mugnos acquista un significato politico assai più evidente che nel racconto dedicato ai Vespri nelle due grandi storie della Sicilia: quelle di Tommaso Fazello e Francesco Maurolico. In particolare le descrizioni del fiscalismo esasperato, causa prossima della rivolta antifrancese trovavano ora echi imprevisti e orecchie attente in una classe dirigente isolana disillusa dal progetto olivaresiano di Unión de las armas e propensa a valutare criticamente gli svantaggi di un coinvolgimento siciliano nelle guerre degli Asburgo non controbilanciato da un’adeguata rappresentanza nella distribuzione dei benefici e delle cariche istituzionali e politiche della monarchia. Sicché i suaccennati mali, il fiscalismo esasperato, la vendita delle cariche pubbliche e la difesa da parte della Corona dei comportamenti scorretti o immorali tenuti dai propri rappresentanti, si sommano in un’accusa di fondo: il Principe che non si dota degli strumenti, degli «occhi» e delle «orecchie» per conoscere la realtà, credendo a versioni di comodo, mette inevitabilmente a rischio la sua autorità e, con la sua autorità, il trono. Quasi a volere inverare la diagnosi di Mugnos, appena due anni dopo la pubblicazione dell’opera la popolazione di Palermo – seguendo l’esempio masanelliano – si ribellò. E la lettura in chiave di attualità dell’antecedente storico si fece allora, se possibile, ancora più stringente.
Alla pubblicazione de Iraguagli historici fece seguito nello stesso 1645 l’altra grande opera: la prima parte del Teatro genealogico delle famiglie nobili siciliane. La seconda parte fu pubblicata a Palermo, come la prima, nel 1655, mentre la terza apparve solo nel 1670, a Messina. Il Teatro è l’opera più impegnativa cui si dedicò Mugnos, quella che esprime meglio la voglia di affermazione sociale di un provinciale che, pur divenendo cittadino palermitano e ascritto alla prestigiosa Accademia dei Riaccesi, non sarebbe riuscito nel suo intento di diventare un intellettuale di punta.
Mugnos affrontò in questo testo il delicato tema della nobiltà e dell’antichità delle famiglie nobili del Regno con grande libertà intellettuale, nella consapevolezza dichiarata che si trattasse di valori relativi, destinati a non durare se non accompagnati dalla virtù. Di più, avanzò la tesi di un’origine molteplice della nobiltà: l’antichità delle famiglie è così solo uno dei criteri di nobilitazione possibili; accanto a essa vi è la nobiltà affermatasi grazie alle capacità messe in mostra nei campi «delle lettere e dell’armi» e quella derivante da servizi prestati al principe mediante «baronie, carichi ed uffici supremi». In breve, gran parte delle famiglie nobili sono tali in ragione della loro virtù, sono cioè a un certo punto diventate nobili; e d’altra parte non può continuare a mantenersi nobile, anche se con una genealogia illustre, una famiglia che queste virtù non pratichi più. Non si tratta di un’impostazione solo teorica: nella sua opera Mugnos mette in evidenza la distanza che corre tra le ricostruzioni di comodo («castelli in aere») delle discendenze aristocratiche e la verità dei fatti storici, puntando l’indice su tutte quelle famiglie, talune delle quali illustri e potenti, che hanno tentato di nascondere la verità. Tenta così di assegnare allo storico-erudito-genealogista un ruolo diverso da quello di un mero notaio o ‘certificatore di antichità’, assegnandogli (e assegnando a se stesso) quello, invero ben più impegnativo e ambizioso, di colui che valuta, compara, sottopone a critica, sceglie.
La libera interpretazione del ruolo di genealogista messa in scena da Mugnos, unita a taluni svarioni e a una certa predilezione per la nobiltà delle famiglie della Sicilia orientale, era destinata a non piacere (o, per meglio dire, a dispiacere) al blocco nobiliare di recente formazione aggregatosi a Palermo attorno al commercio dei grani, alla vendita degli uffici, al potere dei grandi asientistas genovesi, all’egemonia gesuitica. Per questa nobiltà il ruolo del genealogista non era poi troppo diverso da quello di un pittore, incaricato a pagamento di abbellire il passato con colori vivaci, per la maggior gloria del committente. Non stupisce dunque che le reazioni al Teatro genealogico furono così aspre da indurre il luogotenente del Regno facente funzioni di viceré, Martin de Redin, a emanare il 10 gennaio 1657 un dispaccio nel quale le opere di Mugnos (non solo il Teatro genealogico dunque, ma anche Iraguagli historici), erano tacciate di «apocrife e favolose». Solo in seguito, nel 1663, il viceré Francesco Caetani, duca di Sermoneta, avrebbe provveduto all’abrogazione di quel rescritto. Ma ancora nell’ottobre dello stesso anno il Teatro genealogico fu al centro di una discussione tenutasi nientedimeno che nel Consejo de Estado, in cui si rese evidente come l’opera offendesse profondamente la famiglia dei Branciforte, primo titolo del Regno come principi di Butera, descritta nella sua ascesa alla nobilitazione mediante l’acquisto di feudi, sfruttando la propria posizione di mercanti e di speculatori.
Più in generale negli anni Cinquanta Mugnos fu al centro di vivaci polemiche. In particolare alcune sue opere letterarie (Lico e Lisso favola boscareccia, Palermo 1650 e soprattutto Il nuovo Laertio, Palermo 1650, un centone di vite di personaggi illustri) furono oggetto di attacchi, tra cui quelli assai virulenti del giovane Vincenzo Auria, destinato a divenire negli anni seguenti il polemista di punta dell’aristocrazia palermitana. Malgrado gli attacchi, Mugnos non rinunziò alla carriera di genealogista, scrivendo una Historia della augustissima famiglia Colonna (Venezia 1658), nella quale tra l’altro sostenne la tesi che un’origine incerta non è affatto, per una famiglia nobile, titolo di demerito, essendo questa mancanza di informazioni sui progenitori della stirpe tipica di tutte le casate più prestigiose. Il che non toglie che anche Mugnos, screditato in patria, cercasse strumenti di nobilitazione, ottenendo un abito portoghese di cavaliere di Christo.
In quegli anni, poi, l’erudito lentinese continuò a lavorare al Teatro genealogico, e stampò a Palermo nel 1669 una seconda edizione, largamente rimaneggiata, de I raguagli historici del Vespro.
Rispetto alla prima edizione, la seconda presenta importanti novità: mutato il clima politico, essa si diffonde ben poco in assunti teorici sul tema della ribellione e appare, probabilmente anche per effetto delle polemiche politiche subite, meno decisa nell’indicare come causa della rivolta le colpe dei governanti. Anche il tema delle passioni, esaltato da una prosa molto più barocca, densa d’iperbole e alla ricerca del meraviglioso, viene declinato in maniera più neutra, enfatizzando per esempio il tratto della gelosia, tratto caratteristico del temperamento siciliano e causa scatenante (per le galanterie spinte dei francesi verso le donne siciliane) dello scoppio dell’insurrezione sulla spianata della chiesa dello Spirito Santo, a Palermo, il 31 marzo 1282. Inoltre, essa appare propensa a indicare piuttosto dei correttivi politici, pur non rinunciando a denunciare il fiscalismo e le altre violazioni delle tradizioni fondamentali del Regno. È interessante in questo senso notare come comunque Mugnos intercetti anche questa volta un momento di inquietudine, prodromo di una crescente tensione culturale e politica, che sarebbe sfociata di lì a pochi anni nella rivolta di Messina (1674-78).
Negli anni finali della sua carriera, Mugnos, forse anche per sottrarsi alle polemiche suscitate in Sicilia dalla sua opera, tentò di espandere il suo raggio di azione, cercando nuovi protettori fuori dall’isola, scrivendo opere genealogiche (Discorso laconico della famiglia Petrucci, Napoli 1670) e dedicandosi alla stesura della prima parte – relativa alla sola lettera A – di un faraonico progetto sulla nobiltà universale (pubblicato postumo come Teatro della nobiltà del mondo, ibid. 1680).
Nella dedica di quest’ultimo lavoro, indirizzata al napoletano Carlo Calà, già potentissimo presidente di Sommaria, altissimo ufficiale della Corona e incorso in una famosa disavventura per aver commissionato all’erudito cosentino Ferdinando Stocchi una genealogia nobile svelatasi completamente falsa, sembra possa cogliersi più di un commento alle comuni sventure: specie nella considerazione che il secolo vede la nobiltà «imbrattata più ne’ vitij che esercitata nelle virtù», che è «la più gran cosa del mondo».
Morì a Palermo il 28 maggio 1675 e fu sepolto nella chiesa di S. Francesco dei minori conventuali.
Fonti e bibl.: Archivo general de Simancas, Estado, leg. 335 (consulta del 31 ottobre 1663); G. Campanile, Notizie di nobiltà. Lettere, Napoli 1672, pp. 30-33; A. Mongitore, Bibliotheca Sicula sive de scriptoribus siculis qui tum vetera, tum recenti ora saecula illustrarunt, Palermo 1714, pp. 163 s.; G. Rossi, I manoscritti della biblioteca nazionale di Palermo, I, Palermo 1873, pp. 4, 25; G.M. Mira, Bibliografia siciliana ovvero gran dizionario bibliografico, Palermo 1875, p. 111; Confederazione fascista dei professionisti e degli artisti, Dizionario dei siciliani illustri, Palermo 1939, p. 336; G. Giarrizzo, La Sicilia dal Cinque-cento all’Unità d’Italia, in V. D’Alessandro - G. Giarrizzo, La Sicilia dal Vespro all’Unità d’Italia, Torino 1989, pp. 263-300; F. Benigno, La memoria dei Vespri. Un esempio di uso politico della storia, in Favoriti e ribelli. Stili della politica barocca, Roma 2011, pp. 193-208.