Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La rivoluzione cubana suscita simpatie in Europa per il suo socialismo ricco di comunicatività, entusiasmo, vivacità culturale, ma dopo il fallimento della guerriglia in America Latina, Castro si avvicina a Mosca per ottenere aiuti economici e non sacrificare le conquiste sociali. Il grigiore, la burocratizzazione e la violazione dei diritti umani susseguenti costano a Cuba buona parte del sostegno precedente. Lo sfaldamento dell’URSS determina una grave crisi, cui Castro fa fronte aprendo l’isola al capitale estero e al turismo, soprattutto europei. Dall’inizio degli anni Novanta però si moltiplicano le critiche per l’assenza di democrazia e i rapporti con l’Unione Europea si deteriorano
Una figura controversa
Nel 1959 la rivoluzione contro il dittatore Fulgencio Batista trionfa a Cuba, isola caraibica dipendente economicamente dagli Stati Uniti, della quale pochi in Europa sanno qualcosa. Ancora meno numerosi sono coloro che hanno seguito le vicende della guerriglia iniziata nel 1956. Al massimo ciò sviluppa una certa curiosità per l’aspetto esteriore dei ribelli, per le loro barbe incolte, per la loro informalità, elementi documentati dalla stampa del Vecchio Continente. Ma da allora si va diffondendo, anche iconograficamente, l’immagine di Fidel Castro, che viene ben presto identificato con lo Stato e con la rivoluzione. Vi è chi, sulla scorta del governo statunitense, lo bolla come pericoloso comunista e costoro non cambieranno più parere né schieramento; la maggioranza dell’opinione pubblica, tuttavia, esprime giudizi più articolati che, nel corso dei decenni, si trasformano da prevalentemente positivi in prevalentemente negativi per l’assenza di democrazia a Cuba e per l’accentramento decisionale.
Nei primissimi anni colpiscono gli obiettivi di eticità e modernizzazione delle misure prese nel 1959 e gli aneliti di giustizia sociale. Grande eco ha la capacità di Castro di stabilire un rapporto immediato con le masse, dando avvio a un’esperienza di democrazia diretta alimentata dalla sua innegabile capacità oratoria. Sino alla fine degli anni Sessanta, ma anche successivamente, la pubblicistica del Vecchio Continente sottolinea insistentemente le conquiste realizzate in termini di scolarizzazione, assistenza sanitaria, speranza di vita alla nascita, riduzione dei tassi di mortalità, condizione dell’infanzia, aumentate capacità di consumo, sforzi per garantire alle donne un reale diritto di cittadinanza, lotta al razzismo. Il precipitare dello scontro con gli Stati Uniti, coronato dall’embargo, dal tentativo di invasione della Baia dei Porci (1961) e dalla crisi dei missili (1962) è prevalentemente attribuito alla incapacità di Washington di comprendere realtà e dinamiche latinoamericane, che ha spinto così il governo rivoluzionario tra le braccia dell’Unione Sovietica. La diffusione del consenso sta d’altronde a indicare che i cubani seguono ciecamente il proprio leader, che, mettendo al centro delle preoccupazioni la questione nazionale, nodo irrisolto sin dai tempi dell’indipendenza, dà loro una dignità collettiva e individuale.
A suscitare simpatia nei confronti dei rivoluzionari contribuisce il giudizio di molti intellettuali recatisi sull’isola in quel periodo, a partire da Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, che vengono catturati sia da un’esperienza che non risulta imprigionata in schemi rigidi sia dai suoi principali interpreti, Castro e Guevara. I servizi giornalistici si susseguono, così come saggi e monografie, offrendo l’immagine di un socialismo dei tropici assai più ricco di inventiva, allegria, improvvisazione, comunicatività e entusiasmo di quello ormai incupito e burocratizzato del polo sovietico. La ricchezza della rivoluzione caraibica viene confermata dalla vivacità culturale di quegli anni, specie in campo letterario e cinematografico, dalla moltiplicazione di biblioteche e centri culturali, dalla continua organizzazione di spettacoli e dibattiti, spazi, questi, che iniziano a chiudersi solo a partire dal 1968.
In quegli anni Castro rappresenta un punto di riferimento per la sinistra europea, al cui interno cominciano già a serpeggiare malumori nei confronti del “socialismo reale” e a farsi strada aspettative sulla rivoluzione nel Terzo Mondo. Ma il capo del governo cubano raccoglie consensi anche presso una fetta dell’opinione pubblica genericamente progressista, in una fase in cui l’America Latina comincia a diventare preda di dittature militari. L’esplodere della contestazione giovanile del 1968 dà poi nuovo vigore al mito di Castro, che diviene, per un’intera generazione, la personificazione del diritto alla ribellione e alla negazione del determinismo geografico, il simbolo dell’internazionalismo e dell’antimperialismo, fattore, quest’ultimo, che gli procura il sostegno anche di elementi non di sinistra.
Dall’avvicinamento all’URSS alle tensioni con l’Unione Europea
Il panorama comincia a cambiare quando, dopo la morte di Guevara e il fallimento della guerriglia in America Latina, Castro sembra piegarsi alla ragione di Stato e si avvicina progressivamente a Mosca, riuscendo così a mantenere le conquiste sociali e a migliorare ulteriormente il tenore di vita della popolazione grazie agli aiuti sovietici, ma facendo perdere a Cuba i caratteri distintivi del periodo precedente e trasmettendo anche in Europa un’immagine di grigiore e di burocratizzazione, di centralismo fossilizzato, di rinuncia alla spontaneità. Tale scelta gli sottrae molte delle simpatie conquistate negli anni precedenti e i giovani sono i primi a manifestare delusione per questo sogno infranto, anche se molti continuano a giustificare i cambiamenti intercorsi. L’appoggio espresso all’URSS per l’invasione della Cecoslovacchia suona poi come un campanello d’allarme per i partiti comunisti, che hanno assunto, in genere, una posizione del tutto diversa. Contrasti, questi, che si ripropongono con vigore ancora maggiore in occasione dell’invasione dell’Afghanistan. Il leader cubano, d’altronde, manifesta grande avversità nei confronti dell’eurocomunismo e di queste frizioni resta traccia, ad esempio, durante una visita di Berlinguer a Cuba nel 1981.
L’impoverimento culturale costa a sua volta l’appoggio degli intellettuali, con una manifestazione clamorosa nel 1971, quando l’umiliante autocritica imposta al poeta Heberto Padilla induce personaggi come Sartre, de Beauvoir, Pasolini, Resnais, Goytisolo, Moravia, Duras, Enzensberger a pubblicare su “Le Monde” una lettera aperta a Castro in cui si stigmatizza l’accaduto. Un ruolo significativo nell’opera di demitizzazione hanno poi gli intellettuali cubani che trovarono asilo in Europa, soprattutto in Spagna, tra cui vanno menzionati almeno Guillermo Cabrera Infante e Carlos Franqui, che denunciano in primo luogo la violazione dei diritti umani.
Nel periodo in questione Castro comincia ad avere peso nel Terzo Mondo, di cui diviene portavoce, e l’internazionalismo cubano si concretizza nell’invio di tecnici, medici, aiuti militari e persino truppe. L’intervento in Angola contro le armi sudafricane garantisce a Castro una grande popolarità in Africa (anche se altre imprese, come l’impegno in Etiopia, suscitano parecchie critiche) e di tale popolarità devono tenere conto forze politiche e governi europei. La sua immagine e quella della rivoluzione subiscono tuttavia un forte deterioramento dalla fine degli anni Ottanta, quando il crollo del socialismo dell’Est e la scomparsa di rapporti commerciali privilegiati con l’ex blocco sovietico determinano una gravissima crisi economica che si traduce in caduta verticale del tenore di vita, peggioramento dei servizi sociali, insofferenza allargata. Le successive riforme economiche, l’apertura al capitale estero e al turismo per ottenere valuta estera e sopravvivere finiscono però per avvicinare, come non mai, l’isola all’Europa occidentale e per suscitare maggiore curiosità nei suoi confronti. In effetti, i capitali investiti provengono soprattutto da Spagna, Italia, Gran Bretagna, Francia e Paesi Bassi, mentre i visitatori che cominciano ad affluire in numero crescente sono prevalentemente europei.
I nuovi interessi economici sono alla base della moltiplicazione di rapporti ufficiali; nell’arco del 1998, ad esempio, Spagna, Portogallo, Italia e Francia hanno inviato uno o più ministri nell’isola, conseguenza, certo, del capolavoro diplomatico di Fidel, la visita di Giovanni Paolo II nel gennaio dello stesso anno. Alto valore simbolico ha assunto poi la presenza del re di Spagna al IX vertice iberoamericano tenutosi a L’Avana nel 1999. Il recupero della visibilità internazionale di Castro è infine legittimato dalla sua presenza a una serie di riunioni e vertici internazionali, molti dei quali da lui monopolizzati. La nuova linea lo spinge anche a visitare l’Europa occidentale, dove sino alla metà degli anni Novanta lui, figlio di uno spagnolo, non aveva mai messo piede. Le sue apparizioni in pubblico suscitano grande interesse, come è accaduto nel 1995 a Parigi, quando è accolto con grande cordialità dal presidente Mitterrand e nel 1996, in occasione del vertice della FAO a Roma.
Nelle assise internazionali, Castro continuerà a lanciare le sue tradizionali denunce circa i rapporti diseguali tra Paesi ricchi e poveri, l’imperialismo, l’ingiustizia delle leggi di mercato e le piaghe sociali che ne derivano, ma porrà l’accento anche su nuove tematiche, dal debito estero alle politiche ambientali, dalla guerra preventiva alle privatizzazioni.
Malgrado i rapporti più stretti tra Europa e Cuba, a partire dall’inizio degli anni Novanta aumentano e si rafforzano le critiche a Castro per le violazioni dei diritti umani e la questione dei dissidenti. I processi del 1999 e del 2003 conclusisi con lunghe pene detentive per 75 oppositori e la pena capitale per tre dirottatori motivano una netta presa di distanza da parte di molti intellettuali europei schierati a sinistra. Più in generale, si registra un deciso allentamento dei legami con la sinistra europea, favorito peraltro dal panorama delineatosi in America Latina dall’inizio del XXI secolo, con la conquista del potere esecutivo di forze progressiste in molte nazioni, a dimostrazione che anche per il subcontinente esiste la possibilità di perseguire una politica riformista rispettando i principi della democrazia formale.
Ancora più tesi risultano, negli ultimi anni, i rapporti tra Castro e l’Unione Europea, malgrado il primo abbia coltivato a lungo la speranza di potersi appoggiare alla seconda per contenere i danni dell’aggressività statunitense. Dopo le condanne del 1999 e del 2003, infatti, sotto la spinta del premier spagnolo Aznar, l’UE adotta una serie di sanzioni, magari non determinanti sul piano economico, ma significative su quello simbolico, suscitando l’ira di Castro, che accusa Spagna e Italia di aver imboccato una deriva di subordinazione servile a Washington. La frattura del 2003 è parzialmente sanata nel 2005, quando il nuovo governo spagnolo di Zapatero convince l’Unione a ritirare le sanzioni, ma la situazione rimane ancora in bilico ed è caratterizzata da reciproca diffidenza.