FIBBIA (dal lat. fibula [v.]; fr. boucle; sp. hebilla; ted. Schnalle; ingl. buckle)
L'uso della fibbia discende logicamente da quello della cintura (v.), che essa venne a tenere stretta di solito sul davanti della figura. Nel mondo classico essa è in generale formata da una placca di metallo in due pezzi, uno dei quali munito di un'asticciola con punta ripiegata, la quale, quando la fibbia si chiude, va infilata in un foro praticato nel secondo pezzo della placca; le asticciole sono normalmente unite a due a due. Non è raro il caso che le asticciole stesse siano decorate: nell'Italia Meridionale ad es., nel sec. IV e III a. C., è assai diffuso un tipo di fibbia in bronzo, nel quale la base delle asticciole è lavorata in modo da simulare una specie di coppia di ali chiuse.
Le fibbie potevano essere sia d'osso sia di metallo, queste ultime erano di rame, di bronzo, d'argento e d'oro. La decorazione poteva essere varia e talvolta molto ricca. Omero ricorda una fibbia di Ulisse, ornata del gruppo di un cane che stringe nelle zampe un cerbiatto; un magnifico esemplare d'oro, da Itaca, presenta invece un grosso nodo con palmette e fiorellini da cui pendono cordicelle guarnite da teste di Satiri. A Roma, nell'Impero, sono frequenti le fibbie costituite da una placchetta, decorata di figure che, in qualche caso, sono sostituite da iscrizioni di carattere augurale. Talvolta in luogo della placca o di uno dei due pezzi di questa è un semplice anello che viene infilato in un gancio: si conoscono esemplari in cui al posto del gancio è una protome umana o animale.
Nel Medioevo l'uso delle fibbie per chiudere le sopravvesti era così esteso, che gli orefici che le fabbricavano, formarono una corporazione.
Le fibbie erano di fogge diverse e venivano attaccate alle vesti in varie maniere: esse erano anche costituite da due parti fissate ai due opposti orli della veste e che si riunivano. Le fibbie che servivano ad allacciare le cappe avevano, di solito la forma di un medaglione rotondo, ovale, quadrato, a losanga o a forma di quadrifoglio. Derivavano, in parte, dai modelli goti e longobardi, i quali presentavano forme d'insigne pregio artistico. Le più ricche erano cesellate e adorne di smalti, di filigrane, di antichi cammei, di pietre preziose.
Se ne hanno descrizioni in opere poetiche e in romanzi di cavalleria del tempo. Alcune recavano anche pietre incise raffiguranti scene d'amore e di cortesia. Ricordiamo la magnifica fibbia proveniente dal tesoro dell'abbazia di San Dionigi (Biblioteca Nazionale di Parigi e quella con cammeo antico circondato da un'opera di oreficeria.
Cadute in disuso nel vestiario dal sec. XIV in poi le fibbie a fermaglio seguitarono a essere adoperate nei paramenti sacri e di grande cerimonia ed erano solitamente molto ornate con lavori di smalto e d'oreficeria, come il "bottone" di piviale che il Cellini descrive, da lui eseguito per Clemente VII.
Vanno poi menzionate le fibbie da cintura che si distinguono dalle altre. Queste specie di fermagli si componevano di due pezzi simmetrici, muniti l'uno di un gancio e l'altro di una breve catenella con altro gancio, che si adattava al primo. Se ne fece largo uso dal sec. XIV al XVI e il Cellini le ricorda usate perfino dalle contadine fiorentine, di lavoro gentile, a filigrana.
I fermagli d'oro divenuti assai rari erano considerati, durante il Medioevo, come gioielli complementari di ogni veste. Erano, essi, doni che si offrivano, come si legge nel Roman de la Rose, in molte occasioni alle dame, le quali li mettevano non solo ai loro corpetti ma anche nelle acconciature di velo. Nel sec. XV, quando gli uomini portavano cappelli di stoffa, fermagli d'oro e di pietre preziose servivano ad aggiustare le acconciature e le piume. Qualche volta gli autori satirici del Medioevo si scagliavano contro l'eccessivo lusso delle fibbie.
Bibl.: Daremberg e Saglio, Diction. des antiq. grecques et romaines, II, p. 1101 segg.; F. Cabrol e H. Leclercq, Dictionn. d'archéol. chrét. et de liturgie, V, col. 1478 seg.; E. Viollet-le-Duc, Dictionn. du mobilier franç., III, Parigi 1874, p. 3 segg.; A. Schültz, Das höfische Leben zur Zeit der Minnesinger, Lipsia 1889, I, p. 277.