FERRETI, Ferreto de'
Nacque verso la fine del secolo XIII, con tutta probabilità a Vicenza, da Giacomo e da Costanza.
Resta incerto l'anno di nascita, da collocare, in base ad alcuni discussi cenni autobiografici, tra il 1294 e il 1297.Si da per sicura invece la sua origine vicentina, anche se apparteneva ad una famiglia probabilmente oriunda di Padova. Il nonno, Ferreto "Brexani" (o "Brexane"), risulta comunque già attivo come notaio della Camera di Vicenza sin dal 1266,all'indomani della dedizione di quella città al più potente Comune padovano. L'esercizio dell'arte notarile fu proprio anche del padre del F., Giacomo, e del fratello di costui, Donato, poi giudice, menzionati entrambi in un atto del 1283,mentre rimane dubbia l'esistenza di un ulteriore zio paterno, omonimo del F., il cui figlio Bonamico avrebbe pure intrapreso la carriera di giudice. Oltre al F., infine, anche il fratello Citaino percorse sicuramente l'usuale curriculum previsto per l'iscrizione al Collegio notarile di Vicenza.
Scarsissime sono le notizie relative alla giovinezza del Ferreti. Sebbene secondogenito, egli dovette accollarsi l'onere di capofamiglia dopo la scomparsa prematura del padre (1302). Sotto la tutela della madre Costanza e dello zio Donato, con la famiglia del quale continuò a serbare una perfetta solidarietà, il F. rimase infatti nella casa paterna, in contrada S. Faustino, provvedendo ai bisogni del fratello maggiore Francesco, affetto da alienazione mentale, e dei più giovani fratelli Citaino e Fontana (che risultano conviventi con lui ancora al momento della sua morte).
L'attenzione alla vita politica della sua città e ai fatti traumatici che la sconvolsero agli inizi del Trecento dovette certo essere sempre acuta se egli stesso ci parla dell'impressione che gli fece durante la sua adolescenza una serie di eventi che avevano interessato Vicenza: l'arrivo degli ambasciatori del re tedesco e futuro imperatore Enrico VII nel 1310; la disordinata fuga dei Padovani il 15 apr. 1311, sotto l'incalzare dell'esercito di Cangrande Della Scala, mentre una moltitudine di contadini impauriti si rifugiava con famiglie e masserizie sotto i portici della sua casa per sfuggire alle devastazioni dei nemici; il ripetersi delle violenze nel 1314,in forme tanto gravi da indurlo alle lacrime. Tuttavia, non sussistono indizi per ritenere che egli abbia ricoperto incarichi di particolare responsabilità nel governo della sua città.
Il matrimonio con Anna, figlia del giudice Alberto "de Scaletis", che ebbe in dote dal padre la buona somma di 500 lire, fu celebrato prima del 1317 e può considerarsi un ulteriore segno del credito goduto dal F. entro quel ristretto gruppo di notai e legisti che costituiva il nerbo del ceto intellettuale laico a Vicenza tra Due e Trecento.
Proprio in seno alla corporazione notarile il F. dovette far ben presto apprezzare le sue doti poiché ne fu eletto gastaldo in età relativamente giovane (17 apr. 1320).Durante l'arco di tempo in cui il suo nome figura nelle matricole della fraglia (1316-1336) tornò a occupare la stessa carica ancora nel 1331 e nel 1336 e fu inoltre notaio, elettore, esaminatore e consigliere della stessa istituzione corporativa. Alcuni suoi rogiti autografi del 1316, del resto, interessano sempre l'attività di essa. Le poche altre testimonianze documentarie superstiti confermano l'impressione di una vita assai poco movimentata, chiusa entro l'orizzonte della città natale e del suo territorio e divisa tra il disbrigo di modesti affari di pubblico interesse connessi con le sue competenze professionali e la cura di questioni più strettamente private.
Lo scarno dossier dei dati sicuri riguardanti il F. si chiude con il testamento del 4 apr. 1337. In esso il F. chiese di essere sepolto presso la chiesa domenicana di S. Corona. A questo luogo pio come a quello dei minoriti di S. Lorenzo, alla propria chiesa parrocchiale di S. Faustino e ad altri oratori e ospedali di Vicenza faceva lasciti e donativi a suffragio dell'anima sua e dei parenti, senza dimenticare familiari, amici e persone povere. Resta incerto il giorno della sua morte, avvenuta tuttavia sicuramente a Vicenza entro il 10 apr. 1337. giorno in cui il suo nome veniva ufficialmente cancellato dalla matricola dei notai di Vicenza "quia defunctus".
A fronte delle scarse tracce di un'attività notarile che fu certo intensa, anche se breve (all'amico Marcio del fu Giacomino da Angarano lasciava nel testamento tutti i suoi libri di imbreviature "et alias scripturas autenticas in publicam formam relevandas"), restano del F. alcune opere che gli hanno assicurato, sin dal tardo Medioevo, un posto di rilievo nella cultura letteraria nazionale, tanto che L. A. Muratori, primo editore del F. (in Rerum Ital. Scriptores, IX,Mediolani 1726), arrivò a preferime la lingua, per la sua purezza ed eleganza, a quella dello stesso Petrarca.
Nell'ambito di quell'incisivo movimento di riscoperta, studio e imitazione degli autori classici, che sin dalla fine Duecento ebbe il suo nucleo propulsore nel cenacolo preumanistico padovano intorno a L. Lovati e A. Mussato, il F. si inserì con una sua spiccata personalità, pur condividendone i generali orientamenti di gusto e di vita, frutto di una laboriosa sintesi tra passione civile e ammirazione entusiastica per la letteratura e la civiltà del mondo romano.
Discepolo di B. Campesani - che trascorse tutta la vita a Vicenza come notalo e, grazie a una produzione poetica oggi in gran parte perduta, godette di notevole fama presso i circoli umanistici veneti del primo Trecento -, il F. ebbe a disposizione quanto di meglio l'ambiente natale potesse offrire per una formazione grammaticale e retorica raffinata, rivitalizzata dall'analisi diretta di codici contenenti opere di autori antichi da secoli dimenticate. A significativo d'altro canto che al momento dell'iscrizione nel Collegio dei notai di Vicenza, il 27 sett. 1313, il F. ottenesse l'esonero dai prescritti esami "in grammatica et scriptura". Dal maestro evidentemente egli ereditò infatti anche il piacere di coltivare la poesia latina, lasciato, sembra, in una fase più matura, per dedicarsi interamente al genere storiografico.
Della sua produzione poetica ci sono giunti sei piccoli carmi, cinque dei quali dedicati al Campesani da poco defunto, definito "vatum princeps" e "vates toto celeberrimus orbe", e il sesto indirizzato al Mussato al fine di strappargli alcuni versi a ornamento del sepolcro del maestro scomparso: tutti sono posteriori al 1323. Di altre composizioni rimangono solo frammenti: sei versi degli originali ottantadue dell'Inventio Priapeia; quattro su centodieci di un poemetto in morte di Dante (il F. fu uno dei primi letterati a leggere il poeta fiorentino e a citarlo nei suoi scritti); altri due di una breve poesia gratulatoria rivolta al poeta Pulice da Costozza per la nascita di un erede in casa dei nobili vicentini da Schio. Il F. è inoltre l'autore di un poemetto, finora inedito, con cui invita alcuni "compagni e amici carissimi" a trovar moglie.
Di ben altra mole e impegno è il carme De Scaligerorum origine poëma, costituito da cinque libri (l'attribuzione dell'ultimo al F. è tuttavia controversa, visto che il testo è tramandato solo in un manoscritto del sec. XVI), per complessivi 1902 versi, che svolge un programma celebrativo della nascita e delle vittorie di Cangrande Della Scala, allora avviato a realizzare una delle più vaste signorie dell'alta Italia, e più in generale degli "Scaligeri duces".
Lo sfondo è quello della Marca Trevigiana, la regione nella quale già aveva signoreggiato Ezzelino da Romano. Col racconto della feroce tirannide di Ezzelino si apre l'opera, che passa poi a rievocare le lotte intestine di Verona mediante le quali si insediarono al potere Mastino e Alberto Della Scala, fino a narrare minutamente la nascita di Cangrande, la guerra tra costui e Padova, culminata nella conquista di questa città e di Treviso. Dietro il pretesto encomiastico, tuttavia, affiora con compostezza uno spirito di più larga partecipazione ai casi dell'intero Veneto di terraferma (la Marchia felix o Marca gioiosa).Anche se, come sottolineava, i fasti di un illustre passato si rinnovano soprattutto alla corte scaligera, il F. non mancò di ricordare Padova, fondata da Antenore fuggiasco da Troia, Verona, già urbs regia, e Vicenza urbs Cimbria, nobile e veneranda come le altre città, sebbene la sorte l'avesse condannata ad essere "inter velut agna duos urbas parva leones" e quindi a mutare frequentemente padrone. Lo stile, ridondante di echeggiamenti di Virgilio, Stazio, Lucano, Ovidio (poeti da lui espressamente citati, insieme con Omero), mostra una assidua frequentazione dei testi classici e una eccellente, ancorché pionieristica attuazione del programma di rinnovamento della poesia latina medievale in chiave già umanistica.
C'è chi ha pensato al carme come a una sorta di operazione ideologica, una risposta polemica all'Ecerinis del Mussato, la tragedia che con la severa condanna di Ezzelino e del suo dispotico dominio sulla Marca Trevigiana intendeva scopertamente stigmatizzare la politica bellicistica e liberticida di Cangrande. Più sottilmente, ma forse ingiustamente, qualcuno ha invocato ragioni di smaccata cortigianeria verso l'astro del ghibellinismo veneto, cui andavano le simpatie del poeta. Con maggiore verosimiglianza altri ancora hanno insistito sul vivo desiderio di conseguire la laurea poetica e l'onore di poeta palatino che avrebbe animato il F., forse anche per suggestione di quanto occorso al Mussato.
In ogni caso, così come nel carme sugli Scaligeri, il F. ebbe senza dubbio presente l'opera poetica del Mussato; di quest'ultimo egli si rivela seguace e imitatore in quella che si suol considerare la sua maggior fatica, la Historia rerum in Italia gestarum ab anno MCCL usque ad annum MCCCXVIII.
Sebbene il centro ideale dell'opera sia costituito dalla novitas della spedizione italiana di Enrico VII, con lo strascico di guerre che ne seguirono nel Veneto e, nuovamente, dalle imprese di Cangrande, in realtà l'Historia può considerarsi un vero saggio di storiografia abbracciante episodi, personaggi e istituzioni dell'intera penisola, vista a sua volta nel panorama degli avvenimenti europei, per cui lo sguardo dell'autore si spinge, se necessario, anche in Germania, in Francia, in Palestina, in Ungheria.
Il primo libro prende le mosse dalla situazione italiana all'epoca della morte di Federico II (1250) e narra la storia degli ultimi Svevi, l'occupazione angioina dell'Italia meridionale e in generale gli sviluppi politici del Regno e del Mediterraneo sino alla pace di Caltabellotta. Il secondo, assai più lungo, sposta la sua attenzione sui casi dell'Impero, segnati dalla elezione di Alberto d'Asburgo, e su quelli del Papato, contraddistinti dalla clamorosa elezione e rinuncia di Celestino V, cui subentrò la forte personalità di Bonifacio VIII; ma indugia anche nell'esposizione minuta dei mutamenti di regime e delle guerre che interessarono le maggiori città della Toscana, della Lombardia e del Veneto. Col terzo libro il F. dichiara finalmente di occuparsi degli avvenimenti accaduti dal tempo della sua adolescenza in poi ed arriva a toccare il cuore dell'Historia: l'incoronazione di Enrico VII e la sua discesa in Italia, seguita città per città in Piemonte e in Lombardia, nell'inquieto scenario delle lotte tra guelfi e ghibellini e dell'affermazione delle prime signorie sulle ceneri dei liberi Comuni. Nel quarto l'ardua impresa imperiale di pacificare la valle del Po con la conquista delle città ribelli come Cremona e Brescia s'intreccia con i fatti d'arme e il lavorio diplomatico che accompagnano la fine della "custodia" padovana su Vicenza. Nel quinto, lunghissimo libro, infine, il F. riannoda le fila del racconto, narrando le peripezie del viaggio dell'imperatore da Genova a Pisa e a Roma, in un ambiente non meno convulso e ostile di quello lombardo, il suo ritorno verso Nord, la sua morte a Buonconvento. Poi, tornando indietro, riassumeva le principali novità accadute nella Langobardia durante il soggiorno di Enrico VII nell'Italia centrale, per concentrarsi nel resoconto circostanziato delle vicende riguardanti l'espansionismo scaligero, in particolare nei teatri di Padova e Vicenza. Sullo sfondo nuovamente tornano le vicissitudini delle città dell'Italia centrosettentrionale e dei grandi schieramenti guelfo e ghibellino nel gioco delle potenze europee e del Papato avignonese.
Il metodo seguito è chiaramente esposto all'inizio del terzo libro, dove il F. afferma che lo storico deve seguire "meram veritatem", abolendo, a differenza dei poeti, ogni sorta di finzione e di abbellimento e sforzandosi nel contempo di evitare travisamenti dettati da volontà di compiacere o da odio. E in linea di massima si può dire che egli dia buona prova di tale scrupolo di verità, sia quando dipende (spesso alla lettera) dal Mussato, sia quando attinge da annales o veterum scripta non precisati, sia infine quando parla per diretta esperienza o fama dictante.
Nel proemio dell'opera il F. attribuisce alla storiografia il compito di far rivivere vicende lontanissirne nel tempo "come fossero presenti" e di educare gli animi a una vita lodevole di buone azioni e retti pensieri: una prospettiva, dunque, che, anche per la padronanza di un'espressione linguistica elaborata e solenne, mostra un sorprendente grado di maturità nel recupero pieno della tradizione classica.
Altro merito concordemente riconosciuto al F. è l'organicità dell'espositone, che pure distacca la sua opera dalla cronachistica tradizionale, col suo impianto elementare e anodino. Anche se difetta di quel vigore di pensiero e di quella capacità di pittura viva di caratteri e passioni che è propria del Mussato, egli è nondimeno "largo e sereno osservatore, anche se non profondo" (Manera).
A dispetto del suo "spirito moraleggiante", del suo "atteggiamento declamatorio", della sua "prolissità", più volte rilevate dagli studiosi, va infine notato che il F. si mostra al di fuori di ogni dubbio stilista tra i più scaltriti del suo tempo nell'imitazione dei classici (più Livio che Sallustio, pure da lui programmaticamente chiamato in causa) e trasferisce nel suo lavoro anche il meglio di una natura poco esuberante ma equilibrata. Lontanissimo da furori e cecità partigiane (nonostante le speranze riposte in Enrico VII e in Cangrande, si è giustamente esitato nell'inquadrarlo come ghibeffino), egli ha infatti accenti di assoluta sincerità nella critica anche mordace della disumanità delle tirannidi, nella cristiana inclinazione alla pace e al perdono, nella aspettativa di una gloria, cui ciascun uomo deve aspirare, che non può che muovere da virtù, nella convinzione sofferta della intrinseca moralità dello studio e della cultura.
Le opere del F. sono state pubblicate m tre volumi da C. Cipolla, con il titolo Le opere di Ferreto de' Ferreti vicentino,nelle Fonti per la storia d'Italia, XLII, XLIII, XLIII bis, Roma 1908, 194, 1920; ai quattro manoscritti del De Scaligerorum origine conosciuti dal Cipolla va aggiunto il cod. gamma 2.37 della Biblioteca civica di Bergamo (cfr. Gianola, L'Ecerinide,p. 205). È rimasto inedito soltanto il citato poemetto con l'invito agli amici a trovar moglie segnalato da R. Weiss, La cultura preumanistica,p. 272, e da P. O. Kristeller, Iter Italicum, II, p. 298, il cui manoscritto si conserva a Verona, Bibl. capitolare, ms. CCLXVI = 242, ff. 37r-39r.
Fonti e Bibl.: Le prime note biografiche sul F. si trovano già nei Cronicorum Vicentiae libri sex di G. B. Pagliarini, scritti verso la metà del sec. XV, che riportano anche alcuni frammenti di sue opere, conservate e non (vedi l'edizione di Vicenza 1663, VI, pp. 298 s., e per una più corretta lezione il ms. 20.10.25 della Biblioteca Bertoliana di Vicenza, fondo Gonzati,posto a base di B. Pagliarini, Cronicae,a cura di J. S. Grubb, Padova 1990). Il più cospicuo gruzzolo di documenti relativi all'attività pubblica del F. sconosciuti alle più tradizionali biografie si può trovare nella inedita tesi di laurea di G. Pavan, Il Collegio dei notai di Vicenza dalle origini alla metà del XIV secolo,Università di Padova, facoltà di lettere e filosofia, a. a. 1964-65, pp. 197 s., ed è disperso tra l'Archivio di Stato di Vicenza (Collegio dei notai,31, f. 36v; 86, ff. 47v, 77v-78v), la Biblioteca Bertoliana della stessa città (ms. 7.9.28, ff. 24v, 135v), la Biblioteca Barbara Melzi di Legnano (ms. 4, f. 42v) e l'Archivio di Stato di Padova (Archivi privati Selvatico, 71, perg. del 16.8.1320, finora sconosciuta).
Cfr. inoltre: F. Vigna, Preliminare di alcune dissertazioni intorno alla parte migliore della storia eccles. e secolare della città di Vicenza, Vicenza 1747, pp. 55-63; P. Calvi [Angiolgabriello di Santa Maria], Biblioteca e storia di quei scrittori così della città come del territorio di Vicenza, I,Vicenza 1772, pp. 153-165; I. Savi, Mem. antiche e moderne intorno alle pubbliche scuole in Vicenza, Vicenza 1815, pp. 18 s.; G. Zanella, Di F. de' F., poeta e storico vicentino, Vicenza 1861; M. Laue, F. von Vicenza. Seine Dichtungen und sein Geschichtswerk, Halle 1884; U. Balzani, Studi sul F., Milano 1884; C. Cipolla, Studi su F. de' F.,in Giorn. stor. della letter. ital., VI(1885), pp. 53-112; G. Filippi, Politica e religiosità in P. de' F.,in Archivio veneto, n. s., XXXII (1886), pp. 37-61, 309-327; C. Cipolla, F. de' F. e l'episodio di Guido da Montefeltro, in Bull. dell'Ist. stor. ital. e Archivio Muratoriano, XXXI (1910), pp. 99-101; Id., La data della morte di Dante secondo F. de' F.,in Atti dell'Acc. delle scienze di Torino, XLIX (1913-14), pp. 434-439; G. Manera, F. de' F., preumanista vicentino,Vicenza 1949; R. Weiss, Benvenuto Campesani,in Bollett. del Museo civico di Padova, XLIV (1955), pp. 135, 141 s.; G. Mantese, Mem. stor. della Chiesa vicentina, III, Il Trecento, Vicenza 1958, pp. 549-547; R. Weiss, La cultura preumanistica veronese e vicentina nel tempo di Dante,in Dante e la cultura veneta,Firenze 1966, pp. 263-272; M. Carrara, Gli scrittori latini dell'età scaligera,in Verona e il suo territorio, III,2, Verona 1969, pp. 27-32; G. Mantese, Nuovidocumenti relativi allo storico e umanista vicentino F. de' F. (1294-1337) e alla famiglia Ferreta nei sec. XIVXV, in Arch. veneto, XCII (1971), pp. 13-34; A. Torre, F. F.,in Enciclopedia Dantesca, II,Roma 1971, p. 844; L. Gargan, Il preumanesimo a Vicenza. Treviso e Venezia, in Storia della cultura veneta, II, Il Trecento, Vicenza 1976, pp. 142-145; G. Billanovich, Il preumanesimo padovano, ibid., pp.19-110; G. M. Gianola, L'"Ecerinide" di F.F.: "De Scaligerorum origine",in Studi medievali,XXV (1984), pp. 201-236; F. Lomastro Tognato, L'eresia a Vicenza nel Duecento. Dati, problemi, fonti,Vicenza 1988, pp. 48, 58; Gli Scaligeri, 1277-1387, Verona 1988, p. 103; G. Arnaldi, Realtà e coscienza cittadine nella testimonianza degli storici e cronisti vicentini dei secoli XIII e XIV,in Storia di Vicenza, II, L'età medievale, a cura di G. Cracco, Vicenza 1988, p. 315-341.