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Ferrara

di Augusto Vasina, Pier Vincenzo Mengaldo - Enciclopedia Dantesca (1970)
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Ferrara

Augusto Vasina
Pier Vincenzo Mengaldo

Duplice sarebbe la natura dei rapporti di D. col mondo ferrarese: innanzi tutto di ordine genealogico, per la sua presunta discendenza dagli Aldighieri di F., tramite la moglie del trisavolo Cacciaguida: mia donna venne a me di val di Pado (Pd XV 137); in secondo luogo, di carattere più propriamente poetico-letterario: e in tal caso ci si può valere dei numerosi riferimenti quasi tutti appuntati sugli Estensi, signori della città.

Senza avere la pretesa di entrare nel merito della complessa e controversa identificazione della val di Pado, sulla quale molto anche di recente si è scritto, ma senza portare una documentazione veramente probante e decisiva né a favore della tesi ferrarese, né di altre soluzioni, ci si limita qui a osservare che l'ipotesi della discendenza dagli Aldighieri di F. della ‛ donna di val di Pado ' è senza dubbio la meno fragile fra le tante finora avanzate in proposito. Non resta, pertanto, che procedere all'esame diretto dei passi danteschi relativi a F., i quali nel loro complesso esprimono un costante atteggiamento risentito di D. nei riguardi del mondo ferrarese e sembrano in parte riecheggiare motivi e toni della dura polemica antiestense condotta nei suoi scritti, e in particolare nella Chronica parva, dal ferrarese Riccobaldo, contemporaneo del poeta.

I primi riferimenti a F. sono di natura linguistica e tendono a definire, per successivi tentativi di approssimazione, i caratteri e la posizione del volgare ferrarese nella dispersiva carta linguistica dell'Italia tardo-medievale: innanzi tutto distinguendo nell'area dialettale lombarda la parlata ferrarese da quella piacentina (VE I X 9); poi, precisando il rapporto fra il volgare bolognese e il nostro, nel senso che quello è tributario di questo di un'accentuata gutturalità, comune a tutte le parlate lombarde, che non facilita di certo le vocazioni poetiche e deve considerarsi come un serio ostacolo all'affermazione della poesia volgare anche negli ambienti ferraresi (I XV 2-4). Ma già nel trattato linguistico si affaccia, ora con accenti volutamente vibrati (I XII 5), ora in tono velatamente ironico (II VI 5), la polemica antiestense di D., nutrita di spirito anticortigiano che è anche avversione per i singoli discendenti degeneri della dinastia dominante nella città e per i suoi indirizzi politici faziosamente guelfi; polemica cui paiono richiamarsi costantemente in unità d'ispirazione etico-politica tutti i passi relativi al mondo ferrarese contenuti nella Commedia. Anche gli Estensi sembrano così rientrare a pieno titolo - tanta è l'insistenza al riguardo dei versi danteschi ! - nel mondo demoniaco dei tiranni, di cui, appunto, l'Alighieri, nell'esprimere il suo sentimento morale e civile, non sa se condannare più la violenza sanguinaria o le arti dell'inganno e del tradimento.

Tiranno, anzi il primo tiranno di F., fu, infatti, il marchese Opizzo II d'Este, incontrato da D. nel settimo cerchio dell'Inferno e rievocato nel truce clima di congiura della sua corte, vittima delle delittuose ambizioni di potere di un figliastro: e quell'altro ch'è biondo, / è Opizzo da Esti, il qual per vero / fu spento dal figliastro sù nel mondo (If XII 110-112). Poco dopo, nella prima bolgia dell'ottavo cerchio, D. incontra fra i seduttori il bolognese Venedico Caccianemico, autorevole esponente della Parte marchesana nella sua città, ma, insieme, così compiacente agli amori venali di Opizzo II da indurre la sorella a prostituirglisi: I' fui colui che la Ghisolabella / condussi a far la voglia del marchese, come che suoni la sconcia novella (XVIII 55-57).

Nella seconda cantica l'attenzione di D. si volge dal marchese Opizzo ai figli: dapprima ad Azzo VIII (quel da Esti, Pg V 77), che riappare per un momento nella luce sinistra di parricida per essere incolpato di un nuovo delitto, l'uccisione del fanese Iacopo del Cassero, suo rivale politico; e poi a Beatrice, vista dal defunto primo marito, Nino Visconti, nella sua instabilità affettiva, per essersi voluta risposare con Galeazzo Visconti (VIII 73-75); infine ancora ad Azzo VIII per aver tramato un infame mercato ottenendo in isposa per denaro da Carlo II d'Angiò (lo Zoppo) la giovane figlia Beatrice (XX 79-81).

Sebbene D. non abbia risparmiato occasione per lamentare e denunciare il clima di violenza e di corruzione instaurato presso la corte ferrarese dagli Estensi, non si può certo dire che questi abbiano frapposto seri ostacoli alla diffusione degli scritti e delle memorie dantesche in Ferrara. È vero, invece, che già nel corso del secolo XIV gli Estensi ne favorirono in più modi, e persino alla loro corte, lo studio. Esso, già suscitato dal poeta ferrarese Antonio Beccari, trovò in Benvenuto da Imola - che condusse a termine fra il 1379 e il 1383 il suo Comentum alla Commedia, dedicandolo appunto a Nicolò II d'Este, suo ospite e mecenate - un illustratore senza dubbio efficace e appassionato. In età umanistica fu un modesto scrittore, Serafino Candido de' Bontempi, a mantenere vivo nella cultura estense, pur fra incomprensioni e ostilità di letterati e cortigiani, l'interesse per gli scritti dell'Alighieri, mediante l'imitazione della Commedia. Segnalazioni di manoscritti contenenti il poema dantesco ci sono state conservate in inventari della biblioteca del castello estense, a partire almeno dai tempi di Nicolò III. Nella cultura di corte soprattutto il poema dantesco ricorre tra le opere più lette e studiate anche dai principi; come è testimoniato, ad esempio, dal caso di Lucrezia Borgia e di Ippolito I d'Este. E si hanno anche tracce della diffusione capillare delle opere dantesche presso lo Studio cittadino, dove, a partire dal 1459, fu istituita una pubblica lettura della Commedia, secondo il commento di Benvenuto, seguita dagli Estensi e da non pochi Ferraresi. Inoltre, da un'accurata indagine condotta su atti notarili cittadini, relativi ai secoli XV e XVI, risulta che in F. fra gli scritti danteschi soprattutto la Commedia trovò diffusione particolarmente nel ceto dei funzionari estensi, dei dottori di medicina e di arti e dei mercanti.

Il trasferimento della corte estense a Modena nel 1598, a seguito della devoluzione di F. alla S. Sede, segnò un effettivo declino della cultura cittadina con evidenti conseguenze negative anche per la tradizione dantesca. Da quel momento a oggi non si può certo dire che siano rilevabili tracce particolarmente significative della presenza di D. nella cultura ferrarese.

Bibl. - L.N. Cittadella, La famiglia degli Allighieri in F., Ferrara 1865; I. Del Lungo, D. e gli Estensi, in " Nuova Antol. " XI (1887) 549-577; T. Sandonnini, D. e gli Estensi, in " Atti e Mem. Deputazione St. Patria Prov. Modenesi " s. 4, IV (1893) 149-195; G. Bertoni, La Biblioteca Estense e la coltura ferrarese ai tempi del duca Ercole I (1471-1505), Torino 1903; E. Levi, Antonio e Nicolò da F., poeti e uomini di corte del Trecento, in " Atti e Mem. Deputazione Ferrarese St. Patria " XIX 2 (1907) 41-405; G. Fatini, D. presso gli Estensi (contributo allo studio e alla fortuna di D. nel sec. XV), in " Giorn. d. " XVII (1909) 126-144; T. Casini, Nei paraggi di Marcabò, in Scritti danteschi, città di Castello 1913, 194-205; A.F. Massera, D. e Riccobaldo da Ferrara, in " Bull. " XXII (1915) 168-200; M. Catalano, D. e F., in Documenti e studi, pubbl. per cura della Deputazione St. Patria Prov. Romagna, IV, Bologna 1922, 183-210; D. Fava, La Biblioteca Estense nel suo sviluppo storico, Modena 1925, 134, 169, 221; F. Filippini, La " donna di val di Pado ", in " Felix Ravenna " XXXIV (1930) 46-53; A. Lazzari, Obizzo II d'Este in D. e nella storia, in " Giorn. d. " XXXIX (1938) 127-150; A. Ostoja, D. e F., in " Analecta Pomposiana " II (1966) 1-84).

Lingua. – Dal punto di vista linguistico la città viene nominata una prima volta in VE I X 9, dove la differenziazione interna dei quattordici volgari principali d'Italia è illustrata, per la Lombardia, con l'esempio dei Piacentini e dei Ferraresi: con ogni probabilità D. intendeva qui indicare due punti lontani all'interno della stessa regione linguistica, e Ferrara è per l'appunto al confine coi dialetti romagnoli, come Piacenza con quelli piemontesi e liguri. Quindi in VE I XV 3-4, parlando della parlata bolognese che contempera armoniosamente le opposte caratteristiche dei dialetti romagnoli ed emiliani, D. attribuisce al dialetto ferrarese, come a quelli di Modena e Reggio, una certa fastidiosa asprezza, garrulitas, propria a suo avviso di tutti i ‛ Lombardi ' (v. Lombardia), ribadendo dunque l'appartenenza della parlata di Ferrara a questa area.

Tale caratteristica negativa di quei dialetti, aggiunge D., fa sì che nessun ferrarese, come nessun modenese e reggiano, abbia poetato a livello di poesia illustre: infatti quei parlanti, propriae garrulitati assuefacti, non possono in alcun modo avvicinarsi al volgare ‛ aulico ' sine quadam acerbitate. Il Marigo, appoggiandosi all'uso di acerbo in Pd XI 103, interpreta qui acerbitas come " immaturità " (e nella traduzione " acerbezza "; similmente il Pézard: " verdeur de langue "). Ma invece di questo significato, che costringe entrambi i traduttori a un giro di frase piuttosto infedele alla lettera dantesca, il vocabolo avrà semplicemente il valore di " asprezza ", né più né meno che come in VE I XII 7, dove si parla di acerbitas degli Apuli ( v. Apulia): cfr. per l'uso latino Thesaurus L.L., sub v. acerbitas (particolarmente Sen. Ep. XXIV 14) e acerbus (particolarmente Rhet. ad Her. IV XLVII 60 " si ... vocem mittat acerbissimam "). Improbabile anche l'ipotesi del Crocioni, basata sul confronto con l'uso di acerbitate in Cv IV XXVIII 4, per cui qui D. intenderebbe dire che i Ferraresi ecc. non possono liberarsi dalla loro ‛ garrulità ' senza uno strappo violento, uno sforzo. L'unico rimatore ferrarese del tempo di D. che ci sia noto è un Reolfino, che indirizzò un sonetto, verosimilmente entro il 1297, al poeta padovano Aldobrandino de' Mezzabati (nominato da D. in VE I XIV 7), cui questi rispose (cfr. M. Barbi, in " Studi d. " I [1920] 40-42).

Bibl. -G. Crocioni, Il dialetto di Reggio nel " De vulgari Eloquentia ", in " Giorn. d. " XXVI (1923) 35; Marigo, De vulg. Eloq., 126-127.

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