FARINA, Ferrante
Lucchese, figlio di Francesco, è ricordato come orafo in documenti lucchesi dal 1727 al 1779.
Il padre, Francesco, era maestro orefice, documentato per la prima volta nel 1726, con bottega propria in piazza S. Michele; assunse, secondo quanto prescritto nell'atto di istituzione della matricola, l'insegna dell'aquila. La sua bottega, frequentata tra l'altro da Antonio Franceschi, l'unico maestro in filigrana attestato a Lucca per tutto il corso del sec. XVIII, dovette avere una produzione - purtroppo non identificata - certo assai vasta se si considera l'alta tassa pagata da Francesco in occasione della fiera annuale di S. Croce. Console della matricola nel biennio 1748-49, non è più ricordato nei documenti dopo il 1752 (vedi, per l'indicazione dei documenti d'archivio che lo riguardano, Capitanio, 1986, p. 113).
II F. collaborò con il padre condividendone anche il marchio dell'aquila, distintivo della bottega. Personaggio di primo piano nell'ambiente orafo cittadino, ebbe anche il riconoscimento ufficiale della propria perizia tecnica, ricoprendo per cinque volte la carica di console della corporazione e svolgendo nel 1759 le funzioni di pubblico zecchiero ad interim. Molto attivo nelle associazioni di mestiere - la matricola degli orefici ed argentieri e la Compagnia di S. Eligio -, le ultime notizie che lo riguardano risalgono al 1779, quando lo troviamo ancora investito dell'autorità di console della matricola.
Non si hanno notizie di un suo matrimonio o di figli, ma considerò evidentemente come tale Pietro Francesco Puccetti, che i documenti ci dicono figlio di sua sorella. Il F., che dopo la morte del cognato Giovanni Domenico era divenuto tutore del ragazzo, chiese ed ottenne nel 1764 di poterlo tenere a bottega come se fosse un proprio figlio, con tutti i privilegi che ciò comportava. Nessun legame di parentela risulterebbe invece con un tale Luigi Farina, che nel 1792 venne ammesso a far parte della Confraternita lucchese degli orafi intitolata a S. Eligio.
L'attività di orafo del F. si svolse per un arco di tempo di oltre cinquant'anni, ma, come si è detto a proposito del padre, la produzione della sua bottega, che pure dovette essere di notevole entità, è del tutto ignota. Registrato nelle carte della Zecca di Lucca - come già suo padre - in qualità di maestro orefice, il F. si avvalse anche della presenza nella bottega di famiglia, oltre che del già citato maestro in filigrana Antonio Franceschi, di altri artigiani affermatisi poi come maestri autonomi: il nipote-pupillo Pietro Francesco Puccetti-, Francesco Defendente Zanatta e Tommaso Benedini.
Ma se non è possibile reperire le prove tangibili del lavoro del F., si sono invece conservati di lui due scritti che ne testimoniano la preparazione anche tecnico-teorica nel campo dell'arte: le Istruzioni per esercizio dell'arte e maneggio d'oro e d'argento, stilate nel 1729 e oggi custodite tra i manoscritti della Biblioteca statale di Lucca (pubbl. in Capitanio, 1981, pp. 443 s.), ed una relazione "sopra il quesito ... se l'argento nelle fusioni possa calare in sostanza", conservata presso l'Archivio di Stato di Lucca nel fondo dei Commissari della Zecca (pubbl. ibid., pp. 424 ss.).
Il F., che anche in altre occasioni viene definito "Professore d'intelligenza e probità", enuncia nelle sue Istruzioni le qualità indispensabili per chi vuole praticare la professione di orafo: "buon disegno, conto sufficiente e rettitudine", ma la sua disamina si appunta poi sulle fasi preliminari della lavorazione dell'oro e dell'argento, cioè quelle relative all'approntamento della materia prima nella lega desiderata, consigliando di utilizzare come tale le monete in pratica già pronte al titolo voluto: nel testo si spiega dunque come saggiare le medesime e come procedere alla fusione, con un invito all'attenzione, in quanto il valore intrinseco del metallo non sempre corrispondeva a quello nominale. Naturalmente l'interesse dichiarato sta nell'individuare le "monete di vantaggio", quelle cioè in cui il metallo prezioso e presente in quantità maggiore del dovuto, con evidente guadagno per chi riusciva a procurarsele, come ben sapevano gli incettatori e, possiamo dirlo, anche gli orafi più accorti. In effetti, tra le carte dell'antica Zecca di Lucca, varie sono le ricevute che attestano la compravendita di monete da parte degli orafi locali ed una vede protagonista lo stesso F., che acquista un ruspo fiorentino, uno genovese ed un ungaro. Tale pratica di utilizzare le monete alla stregua del metallo in verga verrà però ufficialmente proibita nello Stato lucchese nel 1760, con un provvedimento legislativo che estese anche agli orafi il divieto di "struggere la moneta nazionale per valersene in lavori spettanti all'arte loro" (pubbl. ibid., p. 430). L'incetta di monete d'aggio aveva infatti provocato la quasi esclusiva circolazione della cosiddetta moneta nera, con evidente pericolo per la solidità economica dello Stato.
L'altro interessante intervento tecnico del F. - quello relativo al comportamento dell'argento durante il processo di fusione - è databile al 1754 ed il testo, da lui firmato, è sottoscritto dai consoli pro tempore della matricola degli orefici e argentieri. La relazione, stesa su richiesta delle autorità statali preposte al controllo della Zecca cittadina e delle attività con essa connesse, era stata evidentemente affidata direttamente ai responsabili della corporazione di mestiere e questi ne avevano poi incaricato il F., riconoscendolo come una autorità in materia: e ciò è tanto più significativo se si pensa che uno dei consoli era Michelangelo Vambrè, esponente della più prestigiosa famiglia di argentieri che operò a Lucca tra Sei e Settecento. In effetti il F. si dimostra degno di tale fiducia, sostenendo tesi che, se appaiono oggi opinabili, certo dovevano essere allora le più aggiornate in materia, come dimostra la puntuale citazione di un luogo della Scienza della natura, ponderosa opera del padre Giovanni Maria Della Torre, pubblicata a Napoli nel 1748-49 e poi a Venezia nel 1750.
Fonti e Bibl.: Per i documenti dell'Arch. di Stato di Lucca relativi all'attività del F. nell'ambito della corporazione degli orafi lucchesi e ai suoi legami con la pubblica Zecca vedi l'elenco in Capitanio, 1986, p. 118 (per quelli relativi a Francesco, p. 113); Lucca, Bibl. statale, ms n. 2696: Libro dei decreti dell'Alma Compagnia di S. Eligio, detta delle onorande arti degl'orefici, argentieri, cc. 19, 21, 22, 33, 37v, 40, 43v, 48, 58v, 60, 66; A. Capitanio, Idocumenti dell'Archivio di Stato e della Biblioteca statale di Lucca, in Le botteghe degli argentieri lucchesi del XVIII secolo (Lucca; catal.) Firenze 1981, pp. 413 n. 21, 415 n. 28, 417 n. 34: 418 n. 37, 419 n. 45, 420 s. n. 48, 422 nn. 54 e 56, 423 nn. 58, 59 e 61, 424 n. 62, 426 nn.65 e 71, 427 n. 75, 428 n. 77, 430 s. n. 83, 437 n. 91, 438 s. n. 98, 441 s. nn. 105 e 108, 443 s. (vedi anche alle pp. 361, 371, 486, 489, 499 del catal.); Id., Orafi e marchi lucchesi dal XVI al XIX secolo, Firenze 1986, pp. 118, 174 (cfr. anche Indice; per Francesco, p. 113).