CARAFA, Ferrante
Primogenito di Federico, marchese di San Lucido e conte d'Archi, e di Giovanni Gallerano, nacque a Napoli nel 1509. Com'era l'uso nell'aristocrazia napoletana, la sua educazione, prevalentemente militare, non ignorò gli studi letterari, cui presiedette l'umanista Antonio Minturno.
Nel 1535 fu presentato a Carlo V, di ritorno da Tunisi, e ne ricevette il titolo di gentiluomo di bocca. In quello stesso anno cominciò il servizio attivo nell'esercito imperiale, prendendo parte nel corso di dodici anni, secondo quanto egli stesso ricorda, alle campagne di Piemonte e di Provenza, all'impresa di Tripoli del 1541 e alle spedizioni dei contingenti napoletani in Germania e in Fiandra: senza, tuttavia, che la sua carriera militare acquistasse un particolare rilievo.
Nel 1546 fu tra i firmatari degli statuti dell'Accademia napoletana dei Sereni e in quello stesso anno fondò e presiedette quella, istituita nel "seggio" di Capuana, degli Ardenti. Lo scioglimento, l'anno successivo, ad opera del vicerè Pedro de Toledo, delle due accademie napoletane (e della terza, degli Incogniti) si giustificava con il sospetto che in tali istituti si annidassero, con qualche germe di eterodossia religiosa, le residue velleità di resistenza dell'aristocrazia alla politica assolutistica del governo viceregio. Nel caso del C. tali sospetti potevano trovare conferma - in quello stesso anno 1547, con il quale egli cessò il servizio militare e si ritirò definitivamente a Napoli - nel suo atteggiamento durante i moti provocati dal tentativo del Toledo di introdurre nel Regno l'Inquisizione di modello spagnolo.
In questa occasione il C., pur non aderendo esplicitamente alla ribellione, fu tra coloro che tentarono di opporsi alle drastiche misure repressive ordinate dal viceré, spingendosi sino a liberare con la forza alcuni esponenti popolari arrestati dagli sbirri della Vicaria. Fatto imprigionare dal Toledo, fu liberato soltanto alla definitiva repressione della rivolta, sia che le sue responsabilità fossero riconosciute come marginali sia che le autorità spagnole non intendessero aggravare, con una severità non più necessaria, le tensioni nell'aristocrazia esautorata.
L'episodio fu comunque sufficiente a garantire per l'avvenire l'incondizionato lealismo del C., pago d'allora in poi di una difesa puramente simbolica delle prerogative della sua casta: così, per esempio, nel 1568 si prodigò presso il viceré duca d'Alcalá perché consentisse agli eletti di Napoli di rimanere a capo coperto nelle udienze viceregie, un privilegio abolito dal Toledo. A loro volta i successori di quest'ultimo consentirono al C. alcune modeste cariche pubbliche: sino al 1557 fu più volte deputato della città, succedendo l'anno seguente al padre nella carica di "deputato dei baroni di titolo", che conservò, secondo la sua stessa testimonianza, almeno sino al gennaio 1583, ma che probabilmente fu sua sino alla morte; fu preposto al tribunale delle fortificazioni di Napoli, e in tale qualità ordinò tra l'altro il rifacimento del ponte che univa il Castel dell'Ovo con S. Lucia; e nel 1557, su incarico del duca d'Alba, partecipò, peraltro marginalmente, alle trattative di pace con Paolo IV.
Nel 1558 ereditò dal padre il titolo marchionale di San Lucido e la contea d'Archi; secondo l'Aldimari dovette tuttavia vendere quest'ultima, con il relativo titolo per far fronte ai propri debiti.
L'attività letteraria del C., qualitativamente modesta, ma quantitativamente cospicua, può essere distinta secondo due filoni: esercitazioni poetiche, in lingua toscana, ispirate agli esempi greci e latini, d'argomento sacro, o familiare, o guerreresco, o amoroso; prose autobiografiche, orazioni e lettere a vari eminenti personaggi politici e religiosi.
Del primo gruppo vanno ricordati le Rime spirituali della vera gloria humana in libri quattro e altrettanti della divina, Genova 1559, il poema Dell'Austria, Napoli 1572, per la vittoria cristiana a Lepanto, Il nono et decimo libro d'Homero... dato in paragrafi alle toscane muse, Napoli 1578, e la raccolta di liriche I sei libri della Carafè, L'Aquila 1580; del secondo, una Oratione... alla Santità di pp. Gregorio XIII et alla Maestà del re Filippo d'Austria per la lega da farsi fra loro et tra le provincie cattoliche Italia et Spagna, L'Aquila 1573, e, del tutto simili alla precedente per l'argomento, le Orationi alla Santità di PP. Sisto Quinto et alla Maestà del re Filippo d'Austria per la lega da farsi contra infedeli et heretici, Vico Equense 1585, oltre alle Memorie pubblicate dal Volpicella.
Opere, le une e le altre, al di là dell'irrilevanza dei risultati letterari, notevoli come testimonianza di una sconfitta e di un avvilimento che investono non soltanto l'autore, ma l'intero suo ceto. Non più rivolto, come ai suoi inizi accademici, a definire un'area di resistenza al potere, l'impegno letterario del C. esprime la sottomissione, lo sforzo di dimenticare e far dimenticare i propri trascorsi di ribelle non meno con i vacui esercizi dell'imitazione poetica che con l'adesione bigotta ai programmi egemonici asburgici e alle velleità restaurative della Controriforma. E d'altra parte la ricerca di lustro letterario, l'arroganza dei consigli ai potenti, i progetti di grandi imprese militari, proprio per la loro astrattezza e irresponsabilità politica, non sono tanto il segno di una impossibile ambizione di rivincita, quanto la patetica rivendicazione di benemerenze cortigiane.
Appunto ai meriti cortigiani della letteratura e della milizia faceva riferimento il C. nel 1585, quando richiese al viceré Pedro Girón, duca d'Ossuna, di poter riaprire la sua antica accademia, con il titolo significativamente modificato in quello di "Sereni Ardenti di Cristo e di Maria, dell'Austria e dei Gironi", adducendo che "non si ponno reggere bene le monarchie, l'imperi, i regni, le provincie, i stati propij senza questa honoratissima compagnia dell'armi e delle lettere" (Guerra, p. 184). Ma evidentemente le autorità spagnole non gradivano, a distanza di un quarantennio, neppure il ricordo, indiretto e deformato dalla piaggeria cortigiana, di quell'ultimo, effimero episodio di resistenza all'assolutismo, e la richiesta del C. fu respinta.
Il C. morì a Napoli nel giugno del 1587. Aveva avuto quattro mogli: Beatrice di Mario Loffredo, Beatrice di Iacopo della Marra, Giulia di Giovanni Francesco Conclubet d'Arena, Faustina Capecelatro. Dal secondo matrimonio ebbe l'unico figlio Federico, che gli premorì.
Ludovico Dolce dedicò al C. il terzo e il quinto libro delle Rime di diversi illustri signori napoletani, pubblicati a Venezia nel 1552 e nel 1555; G. B. Attendolo la sua Oratione nell'esequie di Carlo d'Austria, Napoli 1571; F. A. Vivolo la Espositio in 5 Porphirii voces, pubblicata a Napoli nel 1575. Tra i letterati protetti dal C. si ricorda Scipione Ammirato, che fu suo ospite nel 1551 e nel 1558.
Fonti e Bibl.: Mem. di Ferrante Carafa marchese di Santo Lucido, I a cura di S. Volpicella, in Arch. stor. per le prov. napoletane, V (1880), pp. 235-261; S. Guerra, Diurnali, a cura di G. de Montemayor, Napoli 1891, pp. 183 sa.; N. Toppi, Bibl. napoletana, Napoli 1678, p. 83; B. Adimari, Historia geneal. della famiglia Carafa, Napoli 1691, II, pp. 331-41; B. Capasso, La fontana dei Quattro del Molo di Napoli, in Arch. stor. per le prov. napoletane, V (1880), p. 174; B. Croce, Saggi sulla letter. ital. del Seicento, Bari 1948, pp. 140 a.; Id., Aneddoti di varia letter., I, Bari 1953, pp. 302, 306, 309, 327, 372 s.; R. De Maio, Le origini del seminario di Napoli, Napoli 1957, pp. 73 s., 82, 94, 142 ss., 149, 164; F. Nicolini, Saggio d'un repertorio biobibliogr. di scrittori nati o vissuti nell'antico Regno di Napoli, in Boll. d. Arch. stor. d. Banco di Napoli, fascc. 17-20 (1962-66), pp. 27, 131, 135, 509 s.