CARACCIOLO, Ferrante
Secondogenito di Marino, marchese di Bucchianico e principe di Santobuono, e di Isabella Caracciolo, duchessa di Feroleto, nacque a Santobuono il 9 dic. 1605.
Ancora giovanissimo, chierico senza beni di fortuna e privo di scrupoli, si distinse per la sua litigiosità e per il suo senso degli affari. Avuta nell'ottobre del 1629 una controversia con Scipione Beltramo e con Antonio Barile, nel dicembre dell'anno dopo si batté in duello a Napoli, insieme con il fratello Giovanni Battista, con Adriano Acquaviva, che rimase ucciso. Ferito, il C. trovò rifugio assieme al congiunto nella chiesa di S. Antonio di Padova e per il suo stato di ecclesiastico fu preso sotto la protezione dell'arcivescovo di Napoli, card. Francesco Boncompagni, fino all'appianamento della controversia. Continuò allora la sua intensa attività affaristica, fungendo da prestanome ad alcuni importanti personaggi, fra cui il viceré conte di Monterey, sottraendosi dolosamente al pagamento degli oneri fiscali, eludendo le leggi, trafficando spregiudicatamente con polizze di arrendamenti delle gabelle. Fra il 1634 e il 1636 fu coinvolto nella faida che, dopo la morte violenta del principe di Forino, oppose la famiglia di lui alla vedova, Marzia Carafa. Per istigazione di quest'ultima il C. uccise un familiare del cognato di lei, Tommaso Caracciolo. Accusato dell'assassinio e imprigionato in Castelnuovo, fu raggiunto in carcere anche da due membri della fazione avversa, il già citato Tommaso e Annibale Caracciolo. Tornati tutti in libertà, i due ultimi furono oggetto di un attentato, che causò la morte di Annibale. Il colpevole materiale di questo delitto fu identificato in Ottavio Brancaccio, ma il C. fu accusato di esserne il mandante. Imprigionato di nuovo, subì la tortura, ma riuscì a convincere i giudici della sua estraneità al fatto.
Nel complesso il C., coadiuvato efficacemente dal fratello, il priore Giovanni Battista, dai bravi di cui si circondava, dai servitori e dagli schiavi, aveva adottato un modo di vivere del tutto consono a quello di alcuni rappresentanti del baronaggio dell'epoca, che vivevano di sopraffazioni e di violenze, arricchendosi smodatamente con illeciti guadagni, poco curandosi di provocare l'esasperazione degli sfruttati.
Marchese di Bucchianico, probabilmente dal 1625, anno della morte del padre, il C. il 20 marzo 1641 ottenne l'assenso regio alla rinuncia in suo favore, da parte del fratello Alfonso, che a sua volta lo aveva ereditato dalla madre, del ducato di Castel di Sangro. Nello stesso anno egli aumentava le sue proprietà con l'acquisto di San Vito e di Agnone in Abruzzo e il 7 luglio 1644 della città di Chieti, messa all'asta dalla Regia Camera. Questa compera non avvenne però senza contrasti e senza recriminazioni da parte della città. Quando, alla fine del dicembre 1646, partito il C. per Napoli, dove l'imposizione della gabella sulla frutta poneva le premesse immediate della rivolta che sarebbe scoppiata l'anno successivo, Chieti fu affidata da lui ad amministratori, che non seppero mediare i contrasti, ma li accentuarono con la loro durezza, la città si ribellò (4 apr. 1647), ma la rivolta durò un brevissimo lasso di tempo, poiché il C., con l'aiuto dei due fratelli, ne riprese il possesso e vi fece un solenne ingresso il 22 dello stesso mese.
Quando scoppiò, il 7 luglio, la rivoluzione napoletana, il C. si trovava a Napoli e fu accanto al viceré allorché i popolari invasero il palazzo vicereale. Il giorno dopo egli con altri nobili, delegati dal viceré alla stessa missione, si avventurò nella città per indurla alla calma. Anche la sua casa, dopo i primi incendi, fu inclusa nella lista di quelle che dovevano subire questa sorte, ma in seguito i rivoltosi si accontentarono di impadronirsi delle efficienti e numerose armi conservate nell'armeria del palazzo. Pochi giorni dopo (15 luglio), il C., capitato alla presenza di Masaniello e non essendo sceso di carrozza, si trovò a correre il pericolo della reazione del capopolo, che infatti poche ore dopo gli fece ingiungere di recarsi a baciargli pubblicamente i piedi. Morto Masaniello, il palazzo del C. fu assalito altre due volte ed egli e i fratelli furono costretti a fuggire la prima volta nella chiesa di S. Giovanni a Carbonara, da cui uscirono travestiti per nascondersi nel monastero dei SS. Apostoli, e la seconda a Castelnuovo, allorché il palazzo subì il saccheggio. Mentre, entro lo stesso luglio, il C. trovava un più tranquillo rifugio a Sorrento, la rivolta raggiungeva Guardiagrele e Chieti, che vennero rapidamente sottomesse dal governatore Michele Pignatelli; la seconda città, però, otteneva il 31 agosto di ritornare al demanio regio, dietro pagamento di 2.000 ducati.
Nell'ottobre il C., radunati duecento cavalli e trecento fanti, si unì alla forza dei baroni filospagnoli convenuti ad Aversa e prese parte nel novembre ai fatti d'arme svoltisi vicino Nola e Somma. Partecipò duramente alla repressione di Cimitile, facendo uccidere un prete che aveva guidato i popolari, e si portò quindi alla difesa di Salerno. Il 27 dicembre da Nola iniziò un'azione contro il vicino casale di Tufino e, non essendosi obbedito con prontezza al suo ordine di esplorazione, egli stesso si lanciò avanti di persona, ricevendo così un colpo mortale di arma da fuoco alla tempia. La sua morte causò la perdita di Nola, dove il C. fu sepolto nel giardino dei gesuiti, poiché era stato scomunicato a causa dell'uccisione del prete di Cimitile.
Il C., che aveva sposato il 29 genn. 1645 Chiara Loffredo, ebbe due figli, Alfonso e Marino, che fu erede suo e dello zio principe di Santobuono.
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