FERRANDINO (Ferradino, Ferrandina)
Famiglia di marmorari e scultori lombardi, originari di Casasco d'Intelvi (Como) (Alfonso, 1985, p. 383), documentati a Genova a partire dal 1562: il 4 ott. 1562 un Antonio è compare, insieme con Rocco Lurago da Ramponio, al battpsimo di Maddalena, figlia di Stefano Carranca (ibid., p. 18). Dal rapporto di coniparatico con un esponente dell'arte dei "magistri antelami" lombardi, Rocco Lurago, e dalla celebrazione del battesimo nella chiesa di S. Sabina, sede della cappella dell'arte degli scultori di nazione lombarda, si puo ipotizzare l'appartenenza di Antonio ad una di queste due corporazioni. Sono certamente suoi parenti Pietro Antonio e Battista, presenti nel 1604 all'assemblea dei "magistri antelami" lombardi nella chiesa di S. Giovanni di Pré; Pietro Antonio, già consigliere, venne in questa data eletto tra i consoli della corporazione (ibid., p. 382). Non si hanno altre notizie di costoro, che lavorarono a Genova nell'ambito della consolidata tradizione degli architetti, dei costruttori e dei capimastri lombardi operosi nei cantieri della città fin dal XII secolo; molto più documentati sono i F. scultori, soprattutto Alessandro, figlio di Antonio (forse l'Antonio compare di battesimo nel 1562), e i suoi due figli Giuseppe e Giovanni Battista.
Frutto di un errore del Soprani è la figura di Leonardo; come è stato chiarito dai documenti, si tratta in realtà dello scultore Leonardo Mirano, un altro lombardo attivo a Genova, in rapporti di lavoro con i F., come molti altri marmorari (Soprani, 1674, p. 295; Belloni, 1985, pp. 34-39; Parma Armani, 1988, p. 70).
Nell'archivio della chiesa di S. Sabina non sono registrati gli atti di nascita e di morte di costoro, poiché con ogni probabilità nacquero tutti in Val d'Intelvi e vi tornarono nei loro ultimi anni.
Il costante rapporto con il paese di origine era tipico dei marinorari lombardi operosi a Genova fra Cinquecento e Seicento: i loro laboratori si caratterizzano come imprese familiari, in un intreccio strettissimo di parentele e matrimoni che rafforzavano e confermavano la solidarietà di mestiere e di o nazione". La scelta dei padrini per i battesimi. dei testimoni per le nozze e per gli atti notarili, dei garanti per i lavori particolarmente impegnativi, degli esecutori testamentari, conferma il saldissimo senso di appartenenza ad una comunità che riconosceva nell'arte degli scultori di nazione lombarda e nei suoi consoli e consiglieri, regolarmente eletti, l'istituzione che la rappresentava e che ne difendeva il lavoro e gli interessi. Presso la cappella dell'arte in S. Sabina si svolgevano le riunioni, verbalizzate dal notaio con l'accurata registrazione dei presenti. Quando i F. giunsero a Genova, i maestri lombardi avevano da tempo in città il monopolio non solo della produzione dei manufatti scultorei, ma anche del commercio dei marmi grezzi e lavorati e, a volte, l'appalto delle cave di Liguria e di Carrara. Gli inventari delle botteghe alla morte degli artisti, le disposizioni testamentarie, gli atti notarili per gli appalti, per i trasporti via mare e per la compravendita dei marmi, documentano una parte tutt'altro che secondaria dell'attività dei capibottega, imprenditori e commercianti oltre che scultori. Nei laboratori, situati quasi tutti - come quello dei F. - alla Ripa davanti al porto per un trasporto più rapido e meno costoso dei marmi dalle navi, i maestri lombardi eseguivano tutti i manufatti marmorei per l'arredo delle chiese, dei palazzi, dei giardini e delle piazze: dalle statue da altare a quelle da giardino, dagli altari alle balaustre, ai portali, alle fontane, ai rivestimenti a tarsie delle pareti delle cappelle, ai pavimenti in marmi policromi; per questi ultimi lavori spesso giungevano dalle cave i pezzi gia dimensionati e tagliati da mettere in opera.
Il primo documento relativo ad Alessandro, figlio di Antonio, è l'importante commissione affidatagli nel 1600 dalla nobile famiglia Grillo: insieme col collega lombardo Santino Parraca il F. eseguì l'altar maggiore, la balaustra e lo splendido pavimento policromo del presbiterio, le due porte e le due paraste ai lati del coro nella chiesa di Nostra Signora delle Vigne (Alfonso, 1985, pp. 291 s.; delle porte e dell'altar maggiore, sostituito nella prima metà del Settecento, non resta più traccia). Garanti dei lavori sono i colleghi ed amici Bartolomeo Pellone e Taddeo Carlone. R molto probabile che Antonio (indicato come defunto nell'atto di commissione) fosse morto da poco e che Alessandro avesse a lungo lavorato nella bottega paterna, della quale nel 1600, risulta titolare.
La collaborazione di Alessandro col Parraca continuò in due opere eseguite per la famiglia Pinelli: la decorazione marmorea della cappella gentilizia (seconda a sinistra) nella chiesa di S. Maria della Cella nel 1602-1603 (modificata da alcune aggiunte settecentesche) e il completamento dei lavori, già iniziati da Taddeo Carlone e Battista Orsolino, per la cappella Pinelli nella chiesa di S. Siro nel 1606 (Alfonso, 1985, pp. 201, 301 ss.); ambedue le' commissioni comprendono l'altare, il pavimento e la balaustra in marmi policromi. Pochi anni dopo Alessandro eseguì per il facoltoso commerciante genovese Franco Borsotto l'altare di Nostra Signora della Neve nel santuario di Nostra Signora della Misericordia di Savona e l'altare della Maddalena (secondo a destra) nella chiesa di S. Maria Maddalena a Genova, quest'ultimo compiuto insieme con Santino Parraca su progetto dell'architetto Andrea Ceresola detto il Vannone (ibid., pp. 316 s.; Parma Armani, 1993). A questi due altari, iniziati nello stesso anno (1614), seguì quello per la cappella gentilizia di Giovan Battista De Giudici nel battistero della cattedrale di Ventimiglia (nell'Ottocento spostato nella seconda cappella della navata sinistra), iniziato da Alessandro nel 1619 e terminato nel 1621 (Alfonso, 1985, p. 197; Bartoletti, 1990, p. 95).
Non conosciamo per ora altre opere documentate di Alessandro, che certo eseguì numerosissimi lavori da marmoraro, nei suoi ultimi anni, avvalendosi della collaborazione del figlio maggiore Giuseppe, come attestano alcuni dei pagamenti effettuati nel 1615 dal Borsotto, per l'altare di Savona, a "mastro Giuseppe figlio di mastro Alessandro" (Parma Armani, 1993, pp. 89 s.). La lunga consuetudine lavorativa dei F. col Parraca fu in questi anni rinsaldata dal matrimonio di Giuseppe con la figlia di Santino, Pellegrina: lo documenta l'atto di nascita, finora inedito, del loro figlio Santino a Casasco d'Intelvi il 5 sett. 1620 (Casasco, Arch. d. Parr. S. Maurizio, Liber Baptizatorum, 1609-1715). Ancora vivo nel febbraio 1622 (Alfonso, 1985, p. 299), Alessandro era già deceduto nel settembre 1623, quando i figli Giuseppe e Giovanni Battista "quondam Alexandri" risultano responsabili della bottega nell'atto notarile per l'altare della villa Spinola di Comigliano (Di Raimondo-Müller Profumo, 1982, p. 30).
Le poche opere finora note di Alessandro si inseriscono totalmente nella cultura figurativa e nella prassi operativa dei marmorari lombardi operosi a Genova in quegli anni. Si tratta di "macchine" d'altare caratterizzate da elementi decorativi e da schemi compositivi e spaziali ancora cinquecenteschi nei moduli classicheggianti delle maestose strutture architettoniche con colonne, capitelli corinzi, fregio e frontone spezzato; l'assoluta staticità e frontalità di questi complessi, appena movimentata dai due angeli posti sul frontone e dai manieristici cartigli sotto il fregio, è accentuata dai paliotti rettangolari geometricamente definiti in superfici piane, decorate a tarsie.in marmi policromi e suddivise in specchiature da erme angeliche scolpite a bassorilievo in marmo bianco. Gli altari eseguiti da Alessandro per le chiese di S. Siro, della Maddalena e di S. Maria della Cella a Genova e quelli per Savona e per Ventimiglia corrispondono in tutto a questo modello e non si differenziano minimamente da quelli eseguiti da altre botteghe, come dimostra la speculare corrispondenza fra l'altare di Alessandro nel santuario di Savona e quello eseguito in questa chiesa nello stesso anno (1614) per Franco Borsotto da un altro maestro lombardo, Rocco Pellone (Parma Armani, 1993, p. 68).
È probabile inoltre che Alessandro, più volte citato nei documenti come "scopelinus" o "scalpelinus", fosse soprattutto un esecutore di progetti forniti dalla committenza, come dimostrerebbe l'esecuzione dell'altare della Maddalena su disegno di A. Ceresola detto il Vannone; un artigiano, dunque, tecnicamente esperto, ben inserito nell'arte degli scultori di nazione lombarda, come dimostrano i suoi documentati rapporti con i colleghi, le sue presenze alle assemblee e la sua partecipazione, con la donazione della lastra di marino per la mensa dell'altare, alla decorazione della cappella dell'arte in S. Sabina nel 1621 (Belloni, 1988, p. 269). La ripetitività dei suoi altari rispecchia il tradizionalismo culturale della committenza genovese e delle botteghe dei marmorari lombardi; ma la sua esperienza e le sue capacità tecniche e organizzative si misurano anche - come per la maggior parte dei colleghi - nella sua attività di gestore di cave e di commerciante di marmi. Insieme con Antonio Redi, infatti, Alessandro estraeva marmi rossi e verdi "mischi" da alcune cave in Val Polcevera, e dal 1615 al 1619 forniva marmi e pietre per il palazzo Centurione in piazza Fossatello (Alfonso, 1985, pp. 82, 196). La perfetta conoscenza dei materiali era uno dei requisiti necessari per questo lavoro, poiché era compito degli stessi artefici procurare i marmi, dettagliatamente descritti negli atti notarili.
I due figli di Alessandro, Giuseppe e Giovanni Battista, formatisi nella bottega paterna, ne continuarono l'attività come infaticabili costruttori di arredi e parati marmorei e come conduttori di cave e commercianti di marmi. Come attesta la documentazione, lavorarono quasi sempre insieme, in una gestione paritaria della bottega e delle commissioni nella quale però, a volte, emerge la preminenza di Giuseppe, il fratello maggiore, nato probabilmente nel 1593, poiché nel censimento del 1605 fu registrato come dodicenne nelle carte della parrocchia di S. Siro (Belloni, 1988, p. 69). Giovanni Battista, nato forse nel 1611, come attesta un atto notarile che lo dichiara quarantenne nel 1651 (Alfonso, 1985, p. 49), collaborò, oltre che col fratello, anche con lo scultore Leonardo Mirano, che, fino alla morte nel 1637, fornì ai due fratelli molte delle sculture (angeli, erme, statue centrali dei frontoni) da porre nel contesto delle loro strutture architettonico-decorative (Belloni, 1988, p. 30). I F. infatti, come tutti i marmorari "scopelini", ricorrevano spesso alla collaborazione di scultori di "figura"; nei contratti si assumevano l'mpegno, in qualità di impresari, dell'intera opera, reclutando poi, a volte, uno statuario.
Giuseppe e Giovanni Battista continuarono a condurre lo sfruttamento delle cave di marmi "mischi" rossi e verdi in Val Polcevera, già gestite dal padre Alessandro e da Antonio Redi, insieme col figlio di quest'ultimo, Lorenzo Redi, e nel 1657 associarono all'impresa anche Tomaso Orsolino; inoltre vendettero a Genova marmi acquistati a Carrara e, nel 1650, fornirono marmi "ad uso della fabrica" del duomo di Milano (Alfonso, 1985, pp. 72, 77, 82).
Non si citano qui i numerosi documenti (ibid., passim) nei quali i due comparvero come testimoni, padrini e garanti per altri scultori di nazione lombarda operosi a Genova; i padrini dei nove figli di Giuseppe, nati a Genova (dopo il trasferimento a Genova della moglie Pellegrina) e battezzati in S. Sabina, furono tutti scultori e architetti lombardi, a confermare una consolidata prassi di solidarietà di "nazione" e di mestiere.
Giuseppe assunse parte delle responsabilità della bottega ben prima della morte del padre, come dimostrano il citato documento del 1615 relativo all'altare di Savona e il suo impegno nel 1620 a fornire a Nicolò Pallavicino i marmi per la decorazione del suo palazzo in costruzione "in Platea Guastati" (piazza dell'Annunziata); di queste forniture si fece garante, nel contratto, "Alexander eius pater" (Belloni, 1988, p. 70). Si riferiscono al solo Giuseppe le carte d'archivio relative ad altre forniture e transazioni commerciali, effettuate dopo la morte del padre: l'invio di due colonne di "mischio".rosso e verde della cava di Val Polcevera alla chiesa carmelitana di S. Pietro di Cevoli (Pisa) nel 1629, la costituzione nel 1645 di una società col marmoraro carrarese Giovanni Pincellotti per lo sfruttamento di alcune cave precedentemente gestite dal solo Pincellotti in Liguria, l'acquisto nel 1646 di marmi da Carrara e di marini già lavorati come colonne del pregiato "mischio" di Francia (Alfonso, 1985, pp. 52 s., 69, 222 s.). Poiché la documentazione relativa al commercio dei marmi e alla gestione delle cave si riferisce sempre al solo Giuseppe oppure ad ambedue i fratelli, mentre non è emerso finora nessun documento del genere relativo al solo Giovanni Battista, si può ipotizzare che il fratello maggiore detenesse il controllo e la direzione di questo particolare settore dell'attività della bottega. Tale ipotesi sembra confermata dalla fornitura di marmi per il palazzo alla Ripa di Giovanni Domenico Spinola da parte del solo Giuseppe nel 1629; al piano terra della stesso palazzo, che affaccia sui moli del porto, Giuseppe ottenne in affitto dal suo committente alcune botteghe (Pessa-Montagni, 1991), probabilmente per usarle come laboratori e magazzini per i marini. Alcuni anni prima, nel 1623, ambedue i fratelli, come risulta dal contratto notarile, avevano invece eseguito il maestoso, classicheggiante altare in marmi policromi per la cappella nella villa dello stesso Spinola a Cornigliano (oggi istituto "Calasanzio").
Al contratto sono ancora allegati i progetti, disegni a penna acquerellati a vivaci colori a rappresentare quelli dei marmi (Di Raimondo-Müller Profumo, 1982, pp. 25, 30).
Giovanni Battista, dunque, partecipò alla realizzazione delle opere, in questo caso certo agli ordini del fratello, data la sua giovane età; mentre la direzione degli affari restò a Giuseppe.
È impossibile precisare la paternità dei brani scultorei nel contesto dei complessi marmorei eseguiti dai due fratelli; tuttavia i caratteri stilistici della maestosa Madonna col Bambino in marmo bianco nel santuario di Nostra Signora del Carmine a Casasco, che un'antica cronaca locale assegna a Giuseppe (Cetti, 1993, p. 36), sono assai simili a quelli della Madonna della cappella Spinola a Comigliano, che può essere perciò attribuita allo stesso Giuseppe.
Fino al 1640 i due fratelli lavorarono insieme nella stessa bottega che, a giudicare dall'imposta di L. 12 pagata nell'ambito della tassazione straordinaria per la costruzione delle nuove mura nel 1630 (Alfonso, 1985, p. 98), sembra un laboratorio di media grandezza. In questi anni i due fratelli, probabilmente chiamati dall'amico Bartolorneo Bianco, architetto lombardo, col quale già avevano lavorato nella villa Spinola di Cornigliano, compirono importanti lavori per la famiglia Costaguta nelle chiese di Nostra Signora dell'Orto, di S. Giovanni Battista e di S. Francesco a Chiavari.
Dal 1624 al 1632 circa Giuseppe e Giovanni Battista realizzarono il monumentale altar maggiore di Nostra Signora dell'Orto, quattro monumenti funebri nella stessa chiesa, due in S. Giovanni Battista e uno in S. Francesco (quest'ultimo è andato perduto), gli stemmi marmorei della famiglia Costaguta in queste tre chiese e l'altare della cappella gentilizia in S. Francesco (in seguito smembrato e conservato in parte nella chiesa di S. Maria di Ne, mentre la pala marmorea è attualmente sulla facciata di palazzo Rocca a Chiavari). Allegati ai contratti notarili, stilati tutti nel 1631 ad eccezione del contratto per l'altare di Nostra Signora dell'Orto, che fu steso dapprima nel 1624 e poi, con un nuovo progetto, nel 1627, vi sono gli splendidi disegni acquerellati degli altari e dei monumenti funebri (Algeri, 1987). Questo imponente complesso di opere per la potente famiglia Costaguta è caratterizzato da forme auliche e classicheggianti e da moduli decorativi tardocinquecenteschi di raffinata eleganza. In particolare i monumenti funebri son connotati da un linguaggio tipicamente manieristico nei cartigli, nelle erine, nelle edicole architettoniche che incorniciano i ritratti dei defunti, nelle urne marmoree. Lo splendore della policromia e la qualità dei materiali (bianco del Polvazzo, verde Polcevera, rosso di Francia, alabastro e altri marmi pregiati) sono garantiti dai contratti nei quali i F. promettevano "ogni bellezza e perfezione di marmi fini del Polvazzo allatati senza macchie, ben lavorati e lustri così i mischi a giudizio di M. Baltolomeo Bianco".
Il successo di queste opere procurò alla bottega F. altri lavori per la commitienza chiavarese: l'altare della famiglia Vaccà e quello della Confraternita di S. Antonio nella chiesa di S. Giovanni Battista, ambedue in costruzione nel 1640 (Alfonso, 1985, p. 80; Algeri, 1987, pp. 69 s.), e la balaustra del presbiterio di Nostra Signora dell'Orto, eseguita nel 1650 dal solo Giuseppe (Algeri, 1987, p. 106). Nel 1634 Giuseppe e Giovanni Battista, insieme con altri scultori e marmorari lombardi, collaborarono con Tomaso Orsolino alla grande pala marmorea e all'altar maggiore, probabilmente anche alla decorazione marmorea di alcune cappelle, nel santuario di S. Maria di Canepanova a Pavia (Alfonso, 1985, p. 131; Parma Armani, 1988, pp. 26, 74); nel 1635 ricevettero l'incarico di eseguire la decorazione marmorea di una cappella nella chiesa dell'Annunziata di Centuri in Corsica (Belloni, 1988, p. 70). In questi anni i due fratelli assunsero molti altri impegni; quando nel 1640, per la partenza da Genova di Giovanni Battista, divisero davanti al notaio i loro beni - botteghe, casa e lavori in corso - il dettagliato inventario steso per la loro valutazione comprendeva il pavimento marmoreo della cappella degli Spinola e la cappella Della Rovere nella chiesa di S. Caterina (distrutta), la cappella Centurione nella chiesa di S. Siro (quinta a destra), gli altari dei Vaccù e di S. Antonio nella chiesa di S. Giovanni Battista a Chiavari e due monumenti funebri "del marchese di Calderetta in Spagna" (finora non identificati), lavori tutti in corso di esecuzione, che Giuseppe si impegnò a portare a termine in assenza del fratello (Alfonso, 1985, pp. 80 s.).
Non è emersa per ora alcuna documentazione sull'assenza, certamente dovuta a motivi di lavoro, di Giovanni Battista, che risulta nuovamente a Genova nel 1645 (ibid., p. 283); è possibile che la bottega avesse ricevuto un'importante commissione in Lombardia, oppure in Sardegna o in Corsica, territori, questi ultimi, da tempo dipendenti da Genova per la fornitura di manufatti marmorei. Giuseppe restò responsabile della bottega genovese e dell'attività imprenditoriale e commerciale: poco dopo la partenza del fratello, nello stesso 1640, costituì una società con Lorenzo Redi per lo sfruttamento delle cave di Val Polcevera, anche in qualità di procuratore di Giovanni Battista e, insieme con Giovan Battista Bianco, costruì il pulpito marmoreo della chiesa di S. Agnese (distrutta; il pulpito è andato disperso; ibid., pp. 82, 126). Nel 1642 Giuseppe si impegnò a fornire la statua di una Madonna col Bambino "et uno diavolo sotto i piedi" ai padri minimi di S. Francesco di Paola (dispersa; Belloni, 1988, p. 70) e ad eseguire la decorazione marmorea della cappella della Madonna della Fortuna nella chiesa di S. Vittore (distrutta; Alfonso, 1985, p. 113; Belloni, 1988, p. 71); per la stessa chiesa nel 1646 costruì l'altare di Gio. Ambrogio Agnola, dei quale resta soltanto il disegno acquerellato con il progetto (Alfonso, 1985, p. 81). Nel 1645, quando eseguiva il pulpito in marmi Policromi per la chiesa di S. Bartolomeo di Borzonasca (ibid., p. 299), Giuseppe era da tempo impegnato nella progettazione di un imponente complesso decorativo, insieme con lo scultore Giovanni Pincellotti, che con ogni probabilità aveva sostituito il Mirano nell'eseguire le parti statuarie nelle strutture architettoniche dei Ferrandino. Nel 1636, infatti, Giuseppe e il Pincellotti avevano presentato a Giannettino Spinola, che aveva appena ottenuto il giuspatronato della chiesa di S. Siro, il bozzetto e il preventivo per la decorazione marmorea delle pareti e dell'abside, in concorrenza con i progetti e preventivi presentati da altre tre imprese di marmorari lombardi: Rocco PelIone, Tomaso e Giovanni Orsolino, Tomaso Carlone e Domenico Casella (Belloni, 1975).
Nella sostanziale identità di linguaggio che accomuna i quattro progetti si esprime la cultura ancora tardocinquecentesca di questi artisti, che continuavano a proporre schemi ornamentali di sapore manieristico nell'articolata ed abile declinazione di un ricco e collaudato vocabolario decorativo: nei bellissimi progetti, grandi disegni acquerellati che rappresentano tutto il repertorio di soluzioni ornamentali tipico di queste botteghe, i cartigli, le erme, i fregi a bassorilievo, i frontoni spezzati e i capitelli corinzi, le lesene scanalate e i festoni, le tarsie geometriche, le nicchie fiancheggiate da colonne che, come strutture d'altare, incorniciano le statue si dispongono in una ritmica e regolare scansione dello spazio, in una ripetitiva cadenza di forme improntate ad una statica frontalità.
La documentata vicenda di questa progettazione ebbe una prima conclusione nel 1646, quando l'esecuzione del lavoro venne affidata a Giuseppe e al Pincellotti, con un nuovo progetto in parte modificato; nel 1653 i lavori sembrano avviarsi definitivamente con un terzo progetto, all'esecuzione del quale prende parte anche Giovanni Battista, tornato a Genova da alcuni anni (Boggero, 1982).
La realizzazione dell'opera è connotata da un'aulica solennità nel classicismo delle strutture architettoniche, disposte su due piani e scandite dall'ordine gigante delle paraste scanalate con capitello corinzio; la sobria policromia dei marmi (bianco, verde Polcevera, rosso "mischio", bardiglio, alabastro) disegna composizioni geometrizzanti nelle specchiature centrate da grandi diamanti in marmo giallorosato.
Fra il 1646 e il 1649 Giuseppe aveva anche eseguito, sempre insieme col Pincellotti, la scalinata e il monumentale portale laterale della stessa chiesa, complesso di straordinaria imponenza in marmo bianco, con quattro colonne e frontone spezzato con due angeli e, al centro, la statua di S. Siro (attualmente sul portale moderno della facciata) e lo stemma dei committenti, la famiglia Gentile (Alfonso, 1985, p. 222).
Si ignora la data del ritorno a Genova di Giovanni Battista; ma è evidente la sua nuova situazione di autonomia rispetto al fratello. Collaborò infatti ancora saltuariamente con lui, come nell'impresa di S. Siro, ma si associò a Rocco Pellone. per la progettazione (cfr. il disegno acquerellato) e la costruzione dell'altar maggiore della chiesa di S. Chiara d'Albaro nel 1647 (il paliotto è settecentesco) e per il completamento della monumentale cappella di S. Ignazio nella chiesa del Gesù nel febbraio 1650 (ibid., pp. 120, 123 s.). Morto nel 1650 Rocco Pellone, Giovanni Battista si associò a suo figlio Carlo Stefano Pellone per eseguire nel 1651-52, su committenza della famiglia Pasqua, l'altar maggiore, il pavimento e la balaustra del presbiterio, le porte che separano il presbiterio dal coro nella chiesa di S. Domenico di Taggia (Bartoletti, 1990, pp. 99-101). Nel 1654-55 Giovanni Battista si associo con lo scultore Tomaso Orsolino per la realizzazione di un'opera di grande prestigio, la cantoria marmorea del duomo di Genova (Varni, 1861; Alfonso, 1985, p. 157).
Le due grandi balconate in marmo bianco che si fronteggiano nei bracci del transetto sono decorate da "candelabre" di strumenti musicali e da gruppi di putti musicanti, scolpiti ad altorilievo dall'Orsolino in tondeggianti e raffinate forme manieristiche; la struttura architettonica di Giovanni Battista è decorata da mensole, da festoni e da drappeggi ritmicamente disposti.
Pochi anni dopo i due fratelli lavorarono ancora insieme. In collaborazione con Giovanni Battista Orsolino, Giulio De Ferrari e Francesco Chiarino da Lugano, nel 1657 rifecero il pavimento della navata centrale del duomo di Genova con marmo verde di Polcevera e "marmi bianchi ... chiari, in ogni bellezza e bontà et senza alcun pelo", sotto la diretta sorveglianza di Giovanni Carlo Brignole, deputato della Fabbricadel duomo, incaricato di "vedere e approvare" ogni pezzo prima della posa in opera (Alfonso, 1985, p. 78). La semplice e severa bicromia del tappeto marmoreo secentesco a grandi motivi geometrici si inserisce armoniosamente nell'architettura medievale della navata.
È questo uno degli ultimi lavori di Giuseppe, che nel 1660, alle nozze del figlio Alessandro, risultava già deceduto; Alessandro, l'unico maschio dei suoi dieci figli giunto all'età adulta, non continuò la professione paterna (Alfonso, 1985, pp. 297-98). Non sono finora emersi dagli archivi genovesi, né dal Liber defunctorum della chiesa parrocchiale di Casasco, gli atti di morte dei due fratelli F., dei quali non abbiamo più notizia dopo il 1657. Se non si tratta di un caso di omonimia, non infrequente nelle ramificazioni dei gruppi familiari, e opera di Giovanni Battista l'altare della Madonna delle Grazie nel duomo di Cremona, eseguito nel 1668 da un Giovanni Battista Ferrandino in collaborazione con Giovan Battista Bianchi di Argegno (Lucchini, 1894).
Abbiamo notizia di altri marmorari F. operosi a Genova nella prima metà del Seicento, ma non se ne conoscono le opere né il grado di parentela con Alessandro, Giuseppe e Giovanni Battista. Bernardo e Maurizio sono registrati rispettivamente nel 1637 e nel 1641 fra i presenti alle assemblee dell'arte in S. Sabina; Martino e Paolo lavorano come apprendisti nelle botteghe di Giuseppe Ferrandino e di Leonardo Mirano nel 1630 (Belloni, 1988, pp. 269 s.).
Fonti e Bibl.: R. Soprani, Le vite de' pittori, scoltori et architetti genovesi, Genova 1674, p. 295; S. Varni, Elenco dei docum. artistici, Genova 1861, p. 12; L. Lucchini, Ilduomo di Cremona, Mantova 1894, I, p. 144; B. Cetti, Artisti vallintelvesi, Como 1973, pp. 94 s.; V. Belloni, Caröggi crêuze e möntae. Docum. di storia cultura pittura scultura mecenatismo vita genovese dal Cinque all'Ottocento, Genova 1975, pp. 63, 70 s., 73; F. Boggero, in Genua picta. Proposte per la scoperta e il recupero delle facciate dipinte (catal.), Genova 1982, pp. 295 ss.; A. Di Raimondo-L. Müller Profumo, Bartolomeo Bianco e Genova, Genova 1982, pp. 25, 30; L. Alfonso, Tomaso Orsolino e altri artisti di "Natione lombarda" a Genova e in Liguria dal sec. XIV al XIX, Genova 1985, pp. 80 ss., 120, 123, 126, 201, 222, 291 s., 297 ss., 301 ss. e passim; V. Belloni, Leonardo Mirano scolpì 1618, in La Casana, 1985, n. 2, pp. 34-39; G. Algeri, in L. Pessa-C. Montagni, La chiesa di S. Francesco e i Costaguta. Arte e cultura a Chiavari dal XVI al XVIII secolo (catal.), Genova 1987, pp. 69-71, 104-108, 112 s., 133; V. Belloni, La grande scultura in marmo a Genova (secoli XVII e XVIII), Genova 1988, pp. 17, 30 s., 69-71, 269 s.; M. C. Galassi, Imateriali e la loro tecnica di lavorazione, in La scultura a Genova e in Liguria dal Seicento al primo Novecento, Genova 1988, pp. 59, 61; F. Lamera, La scultura per la "macchina" d'altare, ibid., pp. 108 s., 201; E. Parma Armani, Riedificazioni e nuove chiese: traccia per l'arredo scultoreo e Alessandro, Giuseppe, Giovan Battista F., ibid., pp. 25 s., 37, 44, 70, 74, 76-78; M. Bartoletti, Documenti ined. sull'attività di alcuni "scultori di marmi" lombardi e ticinesi nei territori di Ventimiglia, Sanremo e Taggia nel Sei e Settecento, in Quaderni Franzoniani, III (1990), 6, pp. 95, 99 ss.; L. Pessa-C. Montagni, La casa di G. D. Spinola: un tassello mancante nella storia della palazzata della Ripa, in Boll. ligustico, III (1991), pp. 6 s.; M. Bartoletti, Il convento di S. Domenico a Taggia, Genova 1993, p. 42; E. Parma Armani, Un committente genovese per il santuario della Misericordia di Savona tra Cinque e Seicento: Franco Borsotto. Documenti, in Atti e mem. della Soc. savonese di storia patria, XXIX (1993), pp. 68, 89 s.; B. Cetti, Vita e opere dei maestri comacini, Milano 1993, pp. 35 s.; U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexicon, XI, p. 434.