TAMBRONI ARMAROLI, Fernando
TAMBRONI ARMAROLI, Fernando. – Nacque ad Ascoli Piceno il 25 novembre 1901 da Arturo e da Amalia Laureti. Il padre, ultimo di quindici figli, direttore di un istituto di rieducazione giovanile, nel secondo dopoguerra fu assessore alle finanze e vicesindaco nella giunta Angelini (1951-64) del Comune di Ancona, dove la famiglia, originaria di Appiano, nel maceratese, nel frattempo si era trasferita.
Terminati gli studi liceali si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Macerata, dove conseguì la laurea. In quegli anni si diede alla militanza politica, divenendo segretario provinciale del Partito popolare (PPI) nel maceratese e vicepresidente nazionale della FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana) sotto la presidenza di Giuseppe Spataro. Nella seconda metà del 1926, in novembre, quando il PPI venne sciolto dal regime fascista, il Corriere adriatico pubblicò un vero e proprio atto di disconoscimento della propria attività in seno al partito sottoscritto da Tambroni, il quale dichiarò «di abiurare la sua fede politica» e di disinteressarsi di qualsiasi attività contraria al regime fascista, al contempo riconoscendo in Benito Mussolini «l’uomo designato dalla Provvidenza di Dio». A tale abiura fece seguito nel 1932 l’iscrizione al PNF (Partito Nazionale Fascista). Dopo la guerra motivò la ritrattazione con il riferimento a minacce e costrizione.
Negli anni del fascismo si dedicò all’esercizio della professione forense, avviando nel 1923 il praticantato presso l’avvocato Augusto Giardini, insieme al quale, nel giugno del 1926, difese presso la corte d’assise all’Aquila alcuni degli imputati per i fatti di Ancona del giugno 1920. Divenne un penalista piuttosto noto e apprezzato; nel 1927 accolse nel proprio studio la sorella Rina (la seconda donna avvocato a iscriversi all’Albo di Ancona), alla quale nel dopoguerra avrebbe lasciato lo studio. Il difensore dell’anarchico Michele Schirru, che nel 1931 attentò alla vita del duce e fu giustiziato, l’avvocato Cesare D’Angelantonio, che ebbe Tambroni come collega e amico, lo descrisse come «corazzato d’imperturbabilità», con un’oratoria che «procede sul filo di una inflessibile logica, quasi fosse distaccata dalla vicenda umana» (Prefazione, in Il senso dello Stato, 1960, p. 7).
La guerra lo vide centurione della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, al comando di una batteria contraerea nell’Anconetano. Al termine del conflitto ritornò all’attività politica, contribuendo all’impianto politico-organizzativo della Democrazia cristiana nelle Marche. Nel 1946 venne eletto nella circoscrizione di Ancona all’Assemblea costituente, nella quale fece parte della Giunta delle elezioni e della Quarta commissione per l’esame dei disegni di legge, risultando relatore di un paio di provvedimenti inerenti lavori pubblici.
Eletto in Parlamento nella prima legislatura repubblicana il 18 aprile 1948, promosse, il 14 novembre di quello stesso anno, a Pesaro, alla presenza di una decina di deputati e del presidente della Camera Giovanni Gronchi, un convegno dei cosiddetti Gruppi di politica sociale, gravitanti nell’area della sinistra democristiana. L’auspicio di una più ampia democrazia interna al partito e le perplessità circa uno schieramento filo-occidentale schiacciato sugli orientamenti statunitensi condussero la direzione della Democrazia cristiana (DC) a un duro richiamo ai partecipanti al convegno, indicando nei Gruppi «un tipo di organizzazione [...] contrario alla disciplina sostanziale del partito» (Il Popolo, 18 novembre 1948). L’incidente rientrò, ma fu l’occasione nella quale Tambroni, oratore di chiusura e determinante nel convincere Gronchi a partecipare, emerse come un uomo politico dal profilo nazionale, critico nei confronti degli indirizzi degasperiani e favorevole a un programma di riforme sociali.
Da allora si concentrò nell’attività parlamentare e di governo: tra il 15 giugno 1948 e il 27 gennaio 1950 fu vicepresidente della Commissione Lavori pubblici della Camera, quindi, dal 31 gennaio 1950 al 16 luglio 1953, sottosegretario alla Marina mercantile in due governi presieduti da Alcide De Gasperi (sesto e settimo). Nella seconda legislatura, dopo un breve incarico – appena un mese – quale sottosegretario di Grazia e Giustizia nell’ottavo governo De Gasperi, venne chiamato da Giuseppe Pella a ricoprire l’incarico di ministro della Marina mercantile, riconfermato in quel ruolo anche nei successivi governi Fanfani e Scelba, rimanendo di fatto ininterrottamente alla guida di tale dicastero dall’agosto 1953 al luglio 1955. In questa veste legò il suo nome a un provvedimento legislativo (522/1954, noto appunto come legge Tambroni) che per la prima volta tentava di sistemare la questione cantieristica in maniera organica attraverso la concessione per un decennio di sgravi fiscali e aiuti statali decrescenti per favorire la riduzione dei costi di produzione, in una prospettiva di sostegno all’occupazione e all’industria, favorendone la competitività nel contesto internazionale. Il rilancio della cantieristica nazionale si saldò a un disegno di cattura del consenso dei lavoratori: lo testimonia ad esempio il funzionamento della Fondazione Mariport di Venezia-Marghera (istituita nel gennaio 1954), di cui Tambroni fu presidente onorario, laddove, alle commesse garantite attraverso il ministero a un porto in profonda crisi economico-produttiva, si accompagnò l’opera di assistenza ai marittimi sotto l’egida del patriarcato veneziano, allora guidato da Angelo Roncalli, e grazie al flusso costante di finanziamenti privati e pubblici.
Nel luglio del 1955, quando la guida del governo passò da Mario Scelba ad Adone Zoli, divenne ministro dell’Interno, incarico mantenuto anche nel passaggio dalla seconda alla terza legislatura nel secondo governo Fanfani (sino al 15 febbraio 1959). In questa veste organizzò due campagne elettorali (amministrativa nel 1956 e politica nel 1958), portò in approvazione interventi sulla legge comunale e sulla finanza locale, predispose progetti di riforma dell’assistenza pubblica e della legge sulla protezione civile, firmò il riordinamento del corpo dei vigili del fuoco e apportò modifiche alle disposizioni del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, fu tra i firmatari del disegno di legge in tema di referendum, autorizzò la traslazione dei resti di Mussolini nella cappella di famiglia a Predappio, sciolse il consiglio comunale di Napoli, guadagnandosi l’ostilità di Achille Lauro.
La conduzione tambroniana del ministero per molti versi non si discostò dal tradizionale uso politico degli apparati, ad esempio nel ricorso ai prefetti per condizionare la vita politica in provincia. In vista delle elezioni del maggio successivo, nell’autunno del 1957 inviò infatti a tutti i prefetti una nota riservata invitandoli a produrre una relazione che non solo illustrasse gli orientamenti politici della popolazione, ma indicasse provvedimenti che «potrebbero attuarsi prima delle elezioni per influenzare favorevolmente il corpo elettorale [...] proposte precise che abbiano concrete possibilità di attuazione pratica», al fine di «una più efficace lotta contro il comunismo» e «per determinare o favorire l’orientamento politico delle nuove leve elettorali» (Roma, Archivio centrale dello Stato, Ministero del’Interno, Gabinetto 1957-1960, b. 356, f. 17225). L’inchiesta si condensò in un elenco di interventi urgenti – soprattutto nel settore dei lavori pubblici e dell’assistenza – che indirizzò ai colleghi ministri, invitandoli a realizzarli celermente al fine di orientare il giudizio dell’opinione pubblica. Intensificò inoltre l’attività di schedatura politica: creò infatti un ufficio ad hoc, con alcuni suoi stretti e fidati collaboratori, cui venne assegnato un appartamento ove operare separatamente all’ombra di un’apposita struttura di copertura (l’Agenzia Eco). Politici, militanti e cittadini con simpatie di sinistra finirono in questi schedari, ma dossier vennero aperti anche su colleghi di partito e uomini politici prossimi alla DC, di modo da disporre di strumenti di condizionamento, se non di ricatto, politico. Tambroni peraltro manifestò un orientamento favorevole all’adeguamento della macchina amministrativa alle esigenze di una società in rapido mutamento: invitò i prefetti a collaborare più strettamente con i sindaci; si preoccupò della formazione dei funzionari e del consolidamento del loro senso d’appartenenza allo Stato; sostenne la meccanizzazione degli uffici e dispose la costituzione dell’Ufficio studi e documentazione per le relazioni pubbliche per migliorare la rappresentazione dell’operato del ministero. In qualità di ministro dell’Interno, dunque, non rinunciò, anzi rafforzò, il ricorso agli apparati in favore degli interessi politici del governo e del suo partito, a tal fine contribuendo alla modernizzazione e all’efficienza degli uffici.
Nella vita interna alla DC si mosse con estrema prudenza nella delicata fase politica che contraddistinse l’estinguersi della formula del centrismo. Nel 1956 intervenne nel congresso di partito a Trento precisando, in ordine all’ipotesi di collaborazione con il Partito socialista italiano (PSI), «che per noi l’alternativa di maggioranza non vi dovrebbe essere e non vi sarà, ma ci sarà solo un effettivo problema di collaborazione e quindi un completamento di maggioranza» (cit. in Radi, 1990, p. 47). Seguirono anni di contrasti e contraddizioni interne, che videro Tambroni politicamente vicino ad Amintore Fanfani. Questi si dimise agli inizi del 1959 sia dalla segreteria della DC sia dalla guida del governo, sostituito in quest’ultimo incarico da Antonio Segni. Tambroni rimase nel governo, ma lasciò il ministero dell’Interno per quello del Bilancio e del Tesoro, trasferimento da alcuni interpretato come un tentativo di contenimento non solo della sua influenza, ma, indirettamente, di quella di Gronchi, nel frattempo salito al Quirinale. Nel 1959, tra il consiglio nazionale in marzo e il congresso in ottobre, confermò la sua prossimità politica a Fanfani, intervenendo in entrambe le assise della DC con discorsi ampiamente ripresi dalla stampa, invocando un programma di governo «decisamente innovatore» e una prospettiva di centro-sinistra («una politica di centro è assurda», affermò al congresso, mentre la scelta della collaborazione con socialdemocratici e socialisti «sarà invece un grande passo innanzi verso la luce e la realtà del nostro Paese», ibid., p. 73). Insieme a Fanfani uscì dal congresso sconfitto sul piano dei numeri, ma circondato da un’ampia risonanza che contribuì ad assegnargli un ruolo di spicco.
Quando anche Segni rassegnò le dimissioni (24 febbraio 1960), Gronchi per la formazione del nuovo governo tentò senza successo varie soluzioni, affidando infine proprio a Tambroni l’oneroso compito in una situazione politica estremamente confusa. Preso atto dei veti contrapposti, sia interni alla DC sia tra i partiti rappresentati in Parlamento, il 25 marzo 1960 presentò un governo monocolore democristiano con l’appoggio esterno del Movimento sociale italiano (MSI), che non chiese di contrattare il voto per sostenerlo.
Il 4 aprile, alla Camera, annunciò «una preminenza del momento ‘amministrativo’ su quello più propriamente ‘politico’», lasciando intendere che si sarebbe mantenuto entro «limiti ragionevoli e necessari», «senza mete ambiziose» (Camera dei deputati, Atti Parlamentari. Discussioni, III legislatura, seduta del 4 aprile 1960, p. 13424), garantendo la continuità dell’azione di governo. Delineò tuttavia un programma che parve andare ben oltre le necessità dell’approvazione del bilancio dello Stato e il disbrigo degli affari ordinari, elencando tra i suoi obiettivi l’approvazione delle leggi sul referendum, la riforma del Senato, l’istituzione della regione a statuto speciale del Friuli-Venezia Giulia, la riforma della finanza locale, la modernizzazione della macchina dello Stato, un ampio programma di interventi economico-sociali, il Piano verde, una politica dei lavori pubblici e la costruzione di quartieri residenziali, la riorganizzazione delle Ferrovie dello Stato, la realizzazione del Piano della scuola, una politica estera che non precludesse all’Italia il miglioramento delle relazioni bilaterali con i Paesi emergenti. Nella replica conclusiva al dibattito aggiunse che il governo non solo aveva carattere ‘amministrativo’, ma di ‘emergenza’ di fronte al prolungarsi della crisi politica in corso, dovuta a una più generale crisi dei partiti politici, il cui rischio più grave era rappresentato dall’avanzata del comunismo. «In questo momento, a nostro giudizio, altre forme di Governo non vi sono», concluse, a meno che non vi fosse «una preclusione contro la mia persona» (Camera dei deputati, Atti Parlamentari. Discussioni, III legislatura, seduta dell’8 aprile 1960, p. 13650). L’8 aprile la votazione – con il sostegno fondamentale del MSI – fu favorevole al governo. Ma il rilievo politico assunto dal dibattito e le convulsioni interne alla DC (dopo la fiducia alla Camera si dimisero i ministri Pastore, Sullo e Bo, mentre altri chiesero una riunione immediata del Consiglio dei ministri) costrinsero Tambroni a dimettersi. Per verificare la possibilità di un’apertura a sinistra, il 14 aprile Gronchi affidò l’incarico a Fanfani, osteggiato però da una parte importante della DC, di modo tale che il 23 il governo Tambroni venne rinviato alle Camere. Il 29 aprile anche il Senato espresse voto favorevole.
L’insistenza sulla natura eminentemente amministrativa, e non politica, del suo governo, rappresentato come l’unico possibile – quindi necessario – nel quadro della crisi del sistema dei partiti e dinanzi al pericolo comunista, fu il modo con cui Tambroni sembrò occultare il tentativo di forzare gli instabili equilibri interni alla DC. Nel richiamo alla dimensione ‘amministrativa’ del suo agire peraltro mascherò una precisa visione della funzione di governo della società, peculiare miscela di personalismo, prospettive d’ordine, spregiudicatezza nell’uso degli apparati, demagogia economico-sociale con spunti populistici, accentuato anticomunismo. Questi tratti risultarono il frutto della sua decennale esperienza nelle stanze governative, e tennero insieme in forma originale uno sguardo gerarchico e autoritario sulla modernità e un’inclinazione tradizionalista e difensiva tipica del provincialismo italiano. Quelle stesse circostanze, anche fortuite, che ne favorirono l’inaspettata ascesa e disegnarono il profilo politico dell’operazione che guidò, ne determinarono in fondo l’altrettanto repentina caduta.
Un paio di settimane dopo l’insediamento del governo, alla metà di maggio, venne annunciato che il MSI avrebbe tenuto il proprio congresso nella città di Genova, medaglia d’oro della Resistenza. Contro tale decisione progressivamente salì la protesta antifascista delle piazze italiane, che sfociò tra la fine di giugno e la prima settimana di luglio negli scontri di Genova, Roma, Licata, Palermo, Catania, Reggio Emilia, con scontri e arresti, feriti e morti provocati dall’energica azione repressiva delle forze dell’ordine, in ciò senza dubbio legittimate anche dall’insistente richiamo a un supposto piano eversivo del Partito comunista italiano (PCI). Il 7 luglio, mentre giungevano nell’aula della Camera le notizie dei dimostranti uccisi a Reggio Emilia, Tambroni parlò di «incidenti spiacevoli», e della volontà del governo di fare «il proprio dovere per la difesa dello Stato e delle libere istituzioni» (Camera dei deputati, Atti Parlamentari. Discussioni, III legislatura, seduta pomeridiana del 7 luglio 1960, pp. 15700-15701); e il ministro dell’Interno Spataro presentò gli scontri come frutto «della preordinata agitazione di piazza promossa dal Partito comunista in alcune città» (ibid., p. 15689). Si produsse un clima talmente teso che il presidente del Senato, Cesare Merzagora, con pratica inedita e non informando il presidente della Repubblica, l’8 luglio propose – trovando sostegno anche nel presidente della Camera Giovanni Leone – una sorta di tregua di quindici giorni, con il rientro nelle caserme delle forze dell’ordine e la rinuncia alla piazza da parte di partiti e movimenti antifascisti. Ciò delegittimò di fatto l’operato di Tambroni e Spataro, e rappresentò l’anticamera della crisi di governo.
Il 19 luglio 1960 Tambroni dunque si dimise. La fase finale della sua vita trascorse nel segno prevalente del silenzio, rotto solo per tornare sulla valutazione del suo operato alla guida del governo. A tal fine, il 24 novembre 1960 presentò un’interpellanza per avere conferma che il nuovo presidente del Consiglio, Fanfani, avesse davvero affermato in un discorso che «ebbe a verificarsi un “conflitto tra opposti estremismi”». Ipotesi che Tambroni contestò, sostenendo «che l’ordine pubblico venne violentemente e dolosamente turbato da una azione massiccia preparata e voluta prevalentemente dal Partito comunista [...] alla quale non altri “estremismi”, ma le forze dell’ordine, cioè le forze dello Stato, si opposero con successo, ripristinando in modo assoluto la normalità in tutto il territorio nazionale» (Camera dei deputati, Atti Parlamentari. Discussioni, III legislatura, seduta del 24 novembre 1960, p. 17891). Tambroni chiese inoltre di «conoscere con quali mezzi si ritenga di poter condurre vittoriosamente [...] la lotta contro il comunismo», sostenendo – e quindi chiarendo la sua posizione rispetto all’apertura a sinistra – che il Partito socialista era «la sola chiave utile che può consentire al comunismo di aprire la porta di casa della democrazia italiana» (ibid., p. 17894).
Dopo di allora rimase in disparte, sino al congresso della DC tenutosi a Napoli nel gennaio del 1962, dove svolse un secco intervento contro l’apertura a sinistra, accolto freddamente dalla platea dei delegati. Il suo nome non venne inserito in alcuna delle liste per l’elezione nel consiglio nazionale del partito. L’isolamento interno alla DC apparve ormai evidente, ratificato nelle prime settimane del 1963 dalla decisione di non ricandidarlo in vista delle elezioni politiche come capolista nella circoscrizione Marche.
In seguito a un infarto, nella notte del 18 febbraio 1963 morì nella sua casa di Roma.
Il giorno dopo La Stampa lo ricordò in prima pagina come «un uomo freddo [...] non c’era in lui colore di cordialità. [...] fu sempre un solitario, contò pochissimi amici veramente intimi anche quando raggiunse il vertice della sua carriera politica» (n.a., L’uomo politico, in La Stampa, 19 febbraio 1963).
Sposato con Mafalda Giacopelli, ebbe due figlie, Maria Grazia e Gabriella.
Opere. Il senso dello Stato. Scritti e discorsi, Milano 1960; Un governo amministrativo, Roma 1960.
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio centrale dello Stato, fondi Presidenza del Consiglio dei ministri e Ministero dell’Interno; Istituto Luigi Sturzo, Archivio storico, Fondo Giovanni Gronchi.
L. Radi, Tambroni trent’anni dopo. Il luglio 1960 e la nascita del centro-sinistra, Bologna 1990, ad ind.; P. Di Loreto, La difficile transizione. Dalla fine del centrismo al centro-sinistra 1953-1960, Bologna 1993, ad ind.; G. Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni Cinquanta e Sessanta, Roma 1996, ad ind.; S. Luzzatto, Il corpo del duce. Un cadavere tra immaginazione, storia e memoria, Torino 1998, pp. 218-220; M. Fratesi, Fernando Tambroni e le sue Marche, in Le Marche dalla ricostruzione alla transizione 1944-1960, a cura di P. Giovannini - B. Montesi - M. Papini, Ancona 1999, pp. 159-173; P. Cooke, Luglio 1960: Tambroni e la repressione fallita, Milano 2000; G. Tosatti, Storia del Ministero dell’Interno. Dall’Unità alla regionalizzazione, Bologna 2009, pp. 306-315.