FOSCARI, Ferigo Todero
Nato a Venezia il 14 luglio 1733 da Francesco e Laura Correr, con l'appoggio del padre, autorevole esponente del partito senatorio, percorse una buona carriera nelle molteplici magistrature della Repubblica. Fu savio agli Ordini (1759, 1760, 1762), presidente aggiunto al collegio della milizia da Mar (1768), provveditore alle Biade (1773), provveditore alle Fortezze (1774, 1775), aggiunto ai riformatori dello Studio di Padova (1775, 1778), savio alla Mercanzia (1775), provveditore agli Ori e alle monete (1777) e savio alle Acque (1777). Seguendo la tradizione familiare (il padre fu uomo di ampia cultura e patrocinò l'edizione di monumentali opere di erudizione ecclesiastica) coltivò anche le lettere: allievo di Carlo Lodoli si apprestava a raccoglierne gli scritti di architettura quando, il 14 sett. 1782, dovette accettare l'oneroso e ingrato incarico di nobile a Pietroburgo.
Venezia e Russia avevano avviato i primi contatti per un accordo commerciale nel 1663; per tutta la prima metà del XVIII secolo l'aspirazione veneziana a un accordo limitato al terreno commerciale si scontrava con le insistenze russe per un'intesa diplomatica di più ampio respiro e con esplicite finalità antiottomane. Il 25 maggio 1782 il Senato decise finalmente di inviare un rappresentante con la qualifica di "nobile", inferiore a quella di ambasciatore, con compiti limitati alla sfera commerciale e con l'obbligo di chiedere preventive istruzioni su questioni strettamente politiche. Il rango modesto dell'incarico, il viaggio lunghissimo e dispendioso, la sede lontanissima e sicuramente foriera di spese eccezionali resero subito del tutto sgradita la carica e per mesi si susseguirono i rifiuti dei patrizi designati, nonostante ripetuti aumenti degli emolumenti previsti.
Il F. non poté rifiutare, ma dilazionò di molti mesi la partenza per sposare Margherita Condulmer che poi, caduta inferma di mente, condizionerà fortemente la sua esistenza. Partito da Venezia nel giugno 1783 raggiunse Vienna, fece tappa a Dresda e Berlino e giunse a Pietroburgo il 16 ottobre.
La missione in Russia non portò ad alcun risultato di rilievo. Il F. si limitò a trasmettere le consuete informazioni sugli affari politici e militari d'Europa, tra l'altro poco apprezzate a Venezia perché, data la lentezza delle comunicazioni, quasi sempre in ritardo rispetto alle ben più tempestive notizie provenienti dalle altre capitali dell'Europa occidentale.
Seguendo le commissioni ricevute il F. si interessò alla situazione economica e commerciale della Russia: in una serie di dispacci che avevano la struttura di una vera e propria relazione, trasmise dettagliate informazioni sulla marina, sull'esercito e sul commercio dell'immenso impero retto da Caterina II, "sagia aclamatissima sovrana"; anche su questa attività diplomatica il giudizio di alcuni storici è pero riduttivo o del tutto negativo.
La missione doveva durare tre anni ma il F. fu costretto a restare a Pietroburgo sino all'agosto 1790 per la difficoltà di trovare un nobile disposto ad accettare un incarico rivelatosi avaro di soddisfazioni politiche e micidiale dal punto di vista finanziario.
Gli ultimi quattro anni del F. a Pietroburgo furono un vero calvario: le spese esorbitanti per i viaggi e per la fastosa vita di corte, l'esiguità degli assegni del Senato (4.000 ducati annui più 1.000 per il viaggio), la carestia e il conseguente improvviso aumento dei prezzi dei generi di prima necessità, il venir meno dei finanziamenti personali del padre, lo precipitarono in una desolante miseria.
Perseguitato dai creditori, che tentarono perfino di impedirgli il ritorno in patria, tempestò il Senato e gli inquisitori di Stato di suppliche dal tono sempre più disperato. Il 4 marzo 1789 scrisse: "si tratta in fatto ed all'evidenza di un totale a questa parte successivo disservigio pubblico e dippiù forse non reparabile eccidio mio…".
L'approssimarsi del suo "eccidio" commosse il Senato: il 27 luglio 1790 arrivò a Pietroburgo il successore Zanpiero Grimani e il F. poté finalmente tornare in patria, avendo perso in questa missione, secondo sue valutazioni, ben 35.000 ducati. Una prassi consolidata nella macchina politica della Repubblica voleva che a un patrizio importante, indebolito nelle finanze da una dispendiosa missione diplomatica, si offrisse l'occasione di un pronto recupero finanziario con il bailaggio a Costantinopoli, carica ambita e lucrosa, per i cospicui proventi dei diritti pagati dalla comunità mercantile veneta in Oriente; così il 6 giugno 1790 il F. era stato designato bailo ma anche questa volta la missione si rivelò onerosa, travagliata e molto più lunga del previsto. I commerci veneziani in Levante erano ormai un pallido ricordo del passato. In Francia era scoppiata la Rivoluzione che di lì a qualche anno avrebbe travolto anche la Repubblica di Venezia; la permanenza sulle rive del Bosforo non fu di tre anni ma di cinque (agosto 1792-agosto 1797).
Il F. inviò informazioni riservate sulle forze terrestri e marittime della Russia, della Turchia e di altre potenze, intervenute a favore dei mercanti veneti predati dai corsari barbareschi o vessati dai doganieri turchi, difese i sudditi veneziani dalle accuse di simpatie filorusse, cercò di parare le proteste della Porta per la protezione accordata ai malviventi nelle isole di Cerigo e Cerigotto e tentò, vanamente, di salvaguardare le ragioni veneziane nella vertenza con Alì, pascià di Giannina, per il possesso degli scogli di Arta. Tra le altre azioni diplomatiche spiccano l'appoggio alle navi venete impegnate nel trasporto di grano dalla Siria e le proteste contro il "molesto" e "infesto" pascià di Scutari, che ammassava truppe alla frontiera albanese.
Come molti suoi predecessori il F. seguì l'evoluzione della vita politica turca e i timidi e contraddittori tentativi riformisti del sultano: l'ira per l'intransigenza turca sulla vertenza di Arta gli ispirò parole dure sul governo ottomano, "li di cui princìpi saranno sempre figli della violenza, di un despotismo senza limiti, tuttoché moderato sovente da un'imponente necessità" (25 marzo 1796), ma in altre occasioni annotava con soddisfazione l'avvio di alcune riforme (arsenale, corpo del genio, addestramento alla francese delle truppe, istituzione di una scuola di lingua italiana e francese, taglio della barba ai soldati) e la loro accettazione da parte della popolazione. La sua valutazione sulle condizioni e sul futuro dell'Impero ottomano fu oscillante e risentì del contemporaneo tumultuoso e imprevedibile sviluppo della Rivoluzione francese: il 9 ag. 1794 si chiese se non fosse vicino "il giorno in cui l'Europa avesse a pentirsi di avere illuminata una Nazione che anche nella sua decadenza sarà sempre grande, sempre potente" e il 26 maggio 1796 raccolse con preoccupazione le voci dell'imminente apertura a Venezia di una rappresentanza diplomatica stabile, sulla falsariga di quanto già avvenuto l'anno prima a Vienna, Pietroburgo, Berlino, ma viceversa il 21 ag. 1795, e poi in altre occasioni, paventò l'imminente caduta di questo "sfibratissimo impero", "circostanza troppo osservabile per la repubblica Serenissima in spezialità, poiché confinante, poiché gran parte de suoi sudditi di rito greco, e perché devoluti alla Russia, come fatalmente lo comprova la giornaliera esperienza".
Sin dai primi giorni del suo arrivo a Costantinopoli il F. fu molto attento ai rapidi sconvolgimenti politici provocati in Oriente dalla Rivoluzione francese. Seguendo un'ormai secolare tradizione di amicizia e di alleanza la Porta accoglieva benevolmente anche il nuovo governo della Convenzione e i "giacobini", ma l'intreccio di eventi sempre più torbidi, scrisse preoccupato il F. il 9 ag. 1794, rendeva "sempre più difficile un fondato vaticinio sullo sviluppo delli diversi ed involuti affari": non gli restò che promettere al Senato "la maggiore continuata vigilanza". Inviò a Venezia precise informazioni sull'attività dei nuovi diplomatici "giacobini" a Costantinopoli e sulle contromosse delle potenze europee coalizzate contro la Francia: voci di incendi a Pera provocati dai "giacobini" in odio ai diplomatici ostili, maneggi francesi per indurre il sultano a una dichiarazione di guerra, echi della nuova spartizione della Polonia, danze "giacobine" davanti all'albero della libertà su navi alla fonda nel porto di Costantinopoli, crescente peso dell'Impero ottomano nelle vicende europee, perché ambito alleato di ambedue le parti in lotta.
Il 10 giugno 1796 giunsero a Costantinopoli, e destarono "grave sensazione" negli ambienti diplomatici, le prime confuse notizie sulle travolgenti vittorie del Bonaparte nell'Italia settentrionale e alcuni "oziosi" vociferavano di un'imminente alleanza della Repubbliea con la Francia vittoriosa. Nei giorni seguenti il reis effendi (il ministro degli Esteri ottomano) cercò di convincere il F. dell'interesse veneziano a un accordo con la Francia; per parte sua l'inviato francese Raymond Verminac gli propose segretamente un'"alleanza difensiva", cui avrebbero potuto accedere anche Spagna e Impero ottomano, e sottolineò profeticamente i progetti espansionistici dell'Austria, "potenza inquieta ed ardita che aveva disseccate le sorgenti della prosperità delle provincie di Terraferma della Repubblica e le di cui mire su queste medesime provincie non sono equivoche", e della Russia, che "minaccia niente meno della casa d'Austria, l'indipendenza e la sicurezza della Repubblica di Venezia" (9 luglio 1796).
Ancora privo di istruzioni il F., probabilmente in cuor suo non pregiudizialmente ostile, lasciò cadere l'offerta "con parole vaghe e per nulla impegnative"; il 22 agosto una lettera del Senato confermò la neutralità di Venezia e quindi il rifiuto dell'alleanza con la Francia e la Porta. Era un momento difficile per il F., in attesa del successore e privo di informazioni aggiornate sulla situazione militare in Italia: gruppi di schiavoni si offrirono di partire volontari per difendere Venezia ma ricevettero la rassicurante risposta che "non vi era l'immaginato bisogno" (25 luglio 1796).
Nell'ottobre 1796 il F. annunciò al Senato "nuovi imbarazzi" e voci allarmanti di "secrete viste" su Venezia da parte, questa volta, della Francia, "una nazione intenta a trarsi per ogni via dall'attuale abisso, sacrificandone qualunque altra, allor quando possi farlo impunemente".
Il successore Francesco Vendramin ritardò di mesi il suo arrivo e così il F. si trovava ancora a Costantinopoli quando cadde la Repubblica (12 maggio 1797). Quando il 24 maggio Vendramin arrivò finalmente nella capitale ottomana il F., che già nel marzo 1796 aveva cominciato a prospettare al Senato le sue malattie e la sua "sconcertata economia", sollecitò il rimpatrio ma non riuscì a trovare navi disponibili: nel frattempo alcuni fanatici, col pretesto dell'ormai mutato regime politico, tentarono di sottoporlo a processo per le sue azioni negli ultimi tempi della missione. Finalmente il 1° sett. 1797 il Vendramin comunicò alla Municipalità democratica che il "cittadino" F. aveva iniziato il viaggio di ritorno via terra.
Dai verbali della Municipalità democratica apprendiamo che il 26 ott. 1797 il F. presentò una petizione sull'organizzazione del foro; dopo questa data non abbiamo più notizie su di lui.
I Dispacci da Pietroburgo di F. F. 1783-1790 sono stati pubblicati a cura di G. Penzo Doria con Introduzione di G. Bonfiglio Dosio (Venezia 1993).
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