TROYA, Ferdinando
– Nacque a Portici il 3 gennaio 1786 da Michele Troja e da Anna Maria Marpacher.
Nel corso del suo esilio, il fratello maggiore Carlo (v. la voce in questo Dizionario) mutò la j in y nel cognome del padre, che era un medico famoso, vicino alla dinastia borbonica. I fratelli Troya maturarono nelle tumultuose vicende dell’invasione francese, del conflitto civile del 1799 e della prima Restaurazione.
La famiglia seguì i Borbone in Sicilia. In seguito, quando tornò nella capitale, Ferdinando compì studi giuridici, mentre si formava il regno napoleonico a Napoli, all’interno della guerra permanente tra le coalizioni antifrancesi e l’impero europeo di Bonaparte. Ancora una volta i Troya restarono al fianco dei Borbone nella seconda fuga in Sicilia; solo Carlo restò a Napoli, tenuto in una certa considerazione dal nuovo regime.
Chiuso nel 1815 il Decennio francese, la Restaurazione consentì ai partigiani e ai simpatizzanti borbonici di conquistare posizioni nelle istituzioni civili e militari insieme ai funzionari murattiani rimasti in servizio a seguito del trattato di Casalanza. Ferdinando iniziò la carriera nella magistratura napoletana. Nel 1817 entrò come referendario nel Supremo Consiglio di Cancelleria, diretto da Donato Tomasi e istituito al posto del Consiglio di Stato dei napoleonidi. La sua era una posizione di secondo piano, ma all’organismo – pur senza autonomia di indirizzo politico – era affidato il compito di istruire le questioni più importanti su cui doveva esprimersi il governo.
Troya si segnalò tra i borbonici fedeli, all’interno di una comunità ideologica convinta che la lealtà dinastica e la compenetrazione con la Chiesa cattolica fossero l’unica cornice possibile per il Regno delle Due Sicilie. Assolutista dichiarato, scalò i vertici della magistratura. Fu inviato inizialmente come giudice ordinario nelle Puglie, a Trani, e in seguito, nell’agosto del 1819, prese servizio presso l’importante tribunale di Santa Maria di Capua. Nel 1820 però la rivoluzione sconvolse la politica della Restaurazione, sfidò il regime di Ferdinando I e lo costrinse a concedere la costituzione.
L’intervento austriaco e la scelta del re di tradire l’impegno costituzionale determinarono una frattura che sarebbe durata quasi mezzo secolo, mostrando l’impossibilità di una mediazione tra liberalismo e borbonismo. Troya fu accusato di qualche simpatia liberale, ma ne uscì del tutto indenne. Anzi, annoverato nella cerchia dei fedelissimi di Ferdinando I, vantando idee rigidamente assolutiste e una devozione religiosa ai limiti del fanatismo, diventò presidente del tribunale di Teramo. Invece il fratello, impegnato nel dibattito e nelle istituzioni del Nonimestre all’interno dell’area liberale moderata, finì in esilio. Viaggiò per l’Italia e iniziò gli studi che ne fecero uno dei maggiori storici del Medioevo della sua epoca. Entrò in contatto con una parte importante della cultura liberale e romantica italiana da cui fu rispettato e riconosciuto, mostrando un’apertura intellettuale che era invece del tutto respinta dal fratello.
La carriera di Ferdinando fu un esempio opposto, espressione del consolidamento delle istituzioni borboniche. Se la nuova Restaurazione determinò l’esautoramento di militari e funzionari liberali, Troya e altri fedeli della dinastia diventarono un punto di riferimento per il settore assolutista della magistratura negli anni della reazione anticostituzionale. Nel 1827 diventò sostituto procuratore generale della Gran Corte civile di Catanzaro, con un riconoscimento speciale che due anni dopo fu rafforzato dalla nomina a consigliere della Suprema Corte di giustizia (che aveva sostituito la Corte di cassazione del Decennio francese). Si trattava di un organismo che si pronunciava sulla legittimità delle sentenze, spesso criticato da giuristi e avvocati.
Troya parlava spesso in dialetto, era attentissimo alle pratiche religiose, rifiutava qualsiasi compromesso con le idee e i progetti liberali e infine respinse con fermezza e derisione le prime idee filounitarie italiane. Era considerato un magistrato attento, conoscitore delle tradizioni giuridiche napoletane e capace di governare le istituzioni, qualità che, insieme al rapporto familiare con il nuovo re, Ferdinando II, lo portarono al vertice degli apparati delle Due Sicilie. Negli anni Trenta diventò consigliere della Gran Corte civile di Napoli, di cui divenne anche presidente alla fine del decennio. Ebbe alcune delle maggiori decorazioni del Regno, come quella di cavaliere di Francesco I e di membro dell’Ordine costantiniano di San Giorgio.
Negli anni successivi, le scelte del fratello tornato a Napoli, dove aveva fondato la Società storica, finirono per trasformare la loro vicenda in una sintesi esemplare della rottura interna alla società meridionale. Carlo simpatizzò per una soluzione liberale costituzionale alla questione napoletana e per un esito improntato all’idea di una «nazione federale» per la questione italiana. Nel 1848 la rivoluzione costrinse un riluttante e insofferente Ferdinando II a concedere la carta costituzionale. Ferdinando Troya si mantenne fermo sulle sue posizioni assolutiste anche quando, il 3 aprile, proprio il fratello Carlo assunse la guida del governo costituzionale e filoitaliano. L’esecutivo, che rappresentava la maggioranza espressa dal Parlamento eletto pochi giorni prima, tentò una mediazione tra la monarchia borbonica, il movimento costituzionale napoletano, la rivolta in Sicilia e il crescente entusiasmo per il progetto risorgimentale unitario. Un corpo militare fu inviato nella pianura Padana, mentre si cercò una soluzione equilibrata al rapporto tra monarchia e Parlamento. L’accordo fu impossibile. Il 15 maggio Napoli fu teatro di scontri sanguinosi tra i liberali più radicali e le forze di sicurezza borboniche.
Il re reagì e prese al volo l’occasione: liquidò il governo di Carlo Troya e formò un esecutivo conservatore di fedelissimi, incurante delle proteste della Camera. Ferdinando, in quel momento presidente della Gran Corte civile e sempre a fianco di Ferdinando II, cominciò a raffreddare il rapporto con il fratello, fino a quel momento sereno. I borbonici repressero la rivoluzione siciliana e la resistenza liberale nelle province. Nel marzo del 1849 il sovrano sciolse il Parlamento e affidò il governo a uno dei più decisi assolutisti napoletani, Giustino Fortunato. Troya ebbe l’incarico di ministro degli Affari ecclesiastici e della Istruzione pubblica. Nel Regno iniziò una violenta reazione che colpì senza differenza costituzionali moderati, liberali, repubblicani. Processi politici, rastrellamenti, incarcerazioni colpirono una parte fondamentale delle élites e dei gruppi d’opposizione. Il fratello, a differenza degli altri capi liberali, non fu coinvolto nelle indagini e negli arresti, forse proprio per il ruolo di Ferdinando. Carlo si confinò nei suoi studi, completamente isolato e abbandonato.
Fortunato mantenne qualche autonomia dal re, soprattutto nella politica amministrativa ed ecclesiastica. La freddezza di Ferdinando II verso questa pratica diventò aperta ostilità quando a Londra furono pubblicate nel 1851 le lettere dell’influente politico William Gladstone, allora leader dei peeliti. Questi, partendo dalle condizioni dei prigionieri politici nelle carceri napoletane, denunciò il regime borbonico come uno dei più brutali dell’intera Europa. Fortunato aveva probabilmente sottovalutato la portata dell’operazione e fu accusato di non aver cercato di impedirne la pubblicazione. Il re lo esautorò. Ferdinando II voleva un governo ausiliare, espressione diretta della sua volontà e di una politica reazionaria intransigente. Lo affidò proprio a Troya che, per motivi politici e caratteriali, era adatto al compito voluto dal sovrano. Nel gennaio del 1852 il re lo nominò segretario di Stato e presidente del Consiglio dei ministri. L’esecutivo raccolse il nucleo duro dell’assolutismo borbonico, composto da uomini come Salvatore Murena, Ludovico Bianchini, Francesco Scorza, Francesco Pinto di Ischitella, Giovanni Cassisi, Raffaele Carrascosa, Orazio Mazza.
Il governo presieduto da Ferdinando Troya rappresentò una politica esattamente opposta a quella condotta da suo fratello Carlo nel 1848. Eseguì senza esitazioni le indicazioni del sovrano, si appoggiò all’alto clero conservatore, all’esercito, agli apparati di polizia e amministrativi per respingere qualsiasi iniziativa liberale o filoitaliana. Le attività cospirative o rivoluzionarie furono combattute senza pietà, come testimonia il massacro della spedizione di Carlo Pisacane nel 1857.
Troya gestì con mano di ferro il governo per oltre sette anni. Se il suo contegno, rigido e conformista, ne fece uno dei simboli del regime borbonico, a causa di questa determinazione fu altrettanto odiato dai liberali. Questi con caricature, epigrammi, articoli lo dipinsero con lo stereotipo dell’assolutista bigotto e codino, spietato con i liberali e servile verso il sovrano. I suoi comportamenti offrirono una sponda a queste rappresentazioni. Nel luglio del 1858 non partecipò ai funerali del fratello, le cui esequie si tennero nel più assoluto silenzio per timore di manifestazioni liberali. Lo stesso anno Ferdinando II lo nominò membro dell’Ordine di San Gennaro, riconoscendogli la massima fiducia e amicizia.
Ferdinando II riuscì a bloccare qualsiasi tentativo liberale e rivoluzionario, ma l’epoca del governo Troya coincise con l’isolamento completo del Regno. Le Due Sicilie cercarono un equilibrio impossibile, non parteciparono alla guerra di Crimea e non seguirono gli Asburgo nella crisi della pianura Padana determinata da Cavour. Nello stesso tempo, i loro rapporti con Francia e Gran Bretagna furono profondamente logorati. Invece, l’opposizione napoletana e siciliana, liberale o repubblicana, si integrò definitivamente nel movimento nazionale italiano. La politica assolutista intransigente di Ferdinando II e del governo Troya aveva congelato la decennale frattura interna al Regno, facendo dell’antico conflitto civile la principale causa della prossima crisi.
Nel maggio del 1859 il re morì e la situazione nella penisola precipitò con la seconda guerra di indipendenza e la sconfitta degli austriaci da parte della coalizione franco-piemontese. Il giovane, inesperto e fragile erede dei Borbone, Francesco II, si appoggiò al vecchio e potente generale Carlo Filangieri, considerato più ragionevole e presentabile dei vecchi assolutisti. Troya restò nel governo, come ministro segretario e consigliere di Stato. In realtà, nei mesi successivi, il regime fu del tutto incapace di proporre una politica alternativa al trionfale successo del nazionalismo italiano. Il conte di Cavour aveva sconvolto l’equilibrio della penisola. Sconfitti gli Asburgo, i rivoluzionari napoletani e siciliani volevano liberarsi dei Borbone. Invece, il governo di Francesco II fu paralizzato dalla confusione e dalle tensioni interne tra i borbonici e nella stessa famiglia reale.
Nella primavera del 1860 la spedizione di Giuseppe Garibaldi sbarcò in Sicilia e mise in crisi il dispositivo borbonico. Il regime si divise. Il circuito di Filangieri e parte della famiglia reale si schierarono per una svolta costituzionale, mediata dalla Francia, con l’obiettivo di rompere l’isolamento del Regno. Troya e i vecchi assolutisti sostennero che qualsiasi concessione al liberalismo sarebbe stata la premessa alla vittoria della rivoluzione. Il collasso borbonico in Sicilia spinse però il re verso le posizioni di Filangieri. A giugno la decisione fu presa. Anche nell’ultimo Consiglio di Stato Troya e gli altri tentarono senza successo di impedire la svolta costituzionale. Il re cedette. Si formò un governo liberale, più timoroso dei vecchi borbonici che dell’avanzata garibaldina. Nel mese di luglio Troya e molti dirigenti dell’establishment borbonico furono costretti a fuggire a Gaeta e poi a Roma, in quello che restava dello Stato pontificio, difeso dai francesi.
La città del papa divennne il rifugio dei borbonici in fuga, l’ultima base politica e operativa della resistenza all’unificazione. Nel frattempo, la rivoluzione meridionale e l’avanzata garibaldina travolsero le istituzioni del Regno e con esso tutti i loro fedeli. Il re, dopo una disperata controffensiva sul Volturno si chiuse a Gaeta. L’arrivo dell’esercito piemontese e il plebiscito sancirono la sconfitta finale. Qualche mese dopo, arresasi la fortezza, Francesco II e molti dei suoi raggiunsero i fuoriusciti a Roma. I borbonici cercarono di riorganizzare la lotta contro lo Stato unitario. Troya, oramai stanco e malato, fu comunque a fianco dell’ex re come incrollabile partigiano dei Borbone e dell’assolutismo, convinto fino alla fine di lottare contro il liberalismo e l’unificazione. Nell’estate del 1861 fu consultato insieme ai vecchi ministri di Ferdinando II, mentre le forze irregolari e i briganti filoborbonici stavano tentando un’altra insurrezione generale. La rivolta era destinata alla sconfitta: il Regno delle Due Sicilie era finito per sempre.
Ferdinando Troya morì a Roma il 23 agosto 1861.
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