PERRONE, Ferdinando Maria Giuseppe Giuliano
PERRONE, Ferdinando Maria Giuseppe Giuliano. – Nacque a Torino l’8 gennaio 1847 da Luigi, garzone di camera di Ferdinando Maria Alberto di Savoia Carignano, duca di Genova, e da Marianna Charlettj, originaria della Savoia, morta pochi mesi dopo la nascita del figlio.
Della sua formazione iniziale sono rimaste poche tracce che compongono il quadro di un giovane dal profilo professionale non ben definito, alla ricerca di una collocazione sociale più elevata rispetto ai modesti natali.
La vita di Perrone, sposatosi nel 1867 con Maria Angela Albano, una cucitrice analfabeta nata a Torino nel 1848, conobbe un primo punto di svolta all’inizio degli anni Settanta, quando Ferdinando entrò in contatto con il marchese Alessandro Paulucci, di trent’anni più anziano, con il quale stabilì una forte relazione amicale.
Il nobiluomo lo prese sotto la sua protezione e ne favorì una formazione culturale di stampo politico-economico, dotandolo altresì di un adeguato patrimonio terriero, una tenuta di 102 ettari nell’Alessandrino, indispensabile atout per entrare a far parte delle élites del tempo. Perrone si mostrò capace di mettere a frutto questa preziosa amicizia, moltiplicando relazioni e contatti. Egli puntò a ritagliarsi uno spazio nell’ambito della pubblicistica economico-politica, riuscendo a entrare in relazione con Fedele Lampertico e soprattutto con Luigi Luzzatti; fu quest’ultimo a spingerlo sulla via delle ricerche, nel quadro dell’attività dell’Associazione per il progresso degli studi economici. Nel febbraio-marzo 1875 Perrone si distinse con un’inchiesta sulle cause economico-sociali dell’epidemia di tifo di Torre Pellice, importante polo tessile piemontese. Il lavoro gli valse l’apprezzamento di Luzzatti che, nell’agosto 1875, lo chiamò al suo fianco durante gli incontri per il rinnovo del trattato di commercio italo-francese del 1863. Risale proprio all’estate 1875 la morte della moglie per un’epidemia di tifo.
Perrone, però, vide declinare le sue speranze di rapida ascesa sociale a seguito della condanna per truffa e falso in atto pubblico dell’amico Vincenzo Bignami, questore di Torino. Risposatosi nel marzo 1876, con Cleonice Omati (24 ottobre 1858 - 8 giugno 1935), figlia di un funzionario di pubblica sicurezza, si trasferì in provincia di Alessandria, dove nacquero i suoi due figli: Pio il 31 ottobre 1876, e Mario il 1° gennaio 1878.
In quegli anni cercò di inserirsi con scarso successo all’interno del ceto politico locale (candidandosi ad Alessandria nelle elezioni comunali del 1878), mentre i legami con gli esponenti della Destra storica, proprio a causa della vicenda Bignami, si allentarono.
Nel 1879 Perrone ritenne priva di sbocchi la permanenza in Piemonte e si spostò a Leno, nel Bresciano, affittando una tenuta di circa 120 ettari. Come già ad Alessandria, pur partecipando a varie iniziative politiche locali, non riuscì a ritagliarsi uno spazio corrispondente alle sue ambizioni. L’opportunità per un nuovo inizio gli fu offerta dall’incontro, nel luglio 1884, con il bresciano Basilio Cittadini, esponente di punta della comunità italiana in Argentina, tornato in Italia per rappresentare il governo della provincia di Buenos Aires all’Esposizione generale di Torino e impegnato a incoraggiare l’emigrazione nel Paese sudamericano. Perrone sostenne l’attivismo di Cittadini e strinse con lui rapporti amichevoli, accreditandosi come pubblicista esperto di tematiche economiche. A contatto con Cittadini maturò la decisione di emigrare in Argentina, un Paese in rapida crescita economica, alla ricerca di nuove opportunità di arricchimento e di affermazione personale; il 18 dicembre 1884 Perrone e la famiglia si imbarcarono da Genova.
Sin dall’arrivo a Buenos Aires mise a frutto le sue competenze sull’industria enologica e le sue abilità nella costruzione di relazioni. Aiutato da Cittadini, si impegnò in ricerche sulla nascente industria vitivinicola di Mendoza, stabilendo contatti con produttori e commercianti e svolgendo un ruolo importante nell’organizzazione della seconda Esposizione italiana, tenutasi a Buenos Aires nel febbraio 1886. Contemporaneamente collaborò con La Prensa, uno dei più importanti giornali argentini dell’epoca, di cui fu il principale redattore economico; moltiplicò inoltre le relazioni con l’élite creola, sostenuto dal direttore dello stesso giornale Adolfo E. Davila, potente uomo politico che lo presentò, nel giugno 1886, al presidente Julio A. Roca.
In particolare, Perrone riuscì a valorizzare quel patrimonio di conoscenze nel campo dell’economia e della statistica accumulato negli anni precedenti, a contatto con i principali esponenti della scuola lombardo-veneta, un sapere molto richiesto in un Paese in rapida espansione economica, ma a corto di personale amministrativo esperto.
L’inserimento nella élite dirigente si realizzò in tempi assai rapidi; del resto, il contesto sociale argentino era molto più dinamico di quello italiano e a Perrone non mancavano risolutezza e determinazione, come quando – durante le drammatiche vicende dell’insurrezione armata antigovernativa dell’estate 1890 – riuscì a far schierare a favore del generale Roca gran parte della popolazione di origine italiana di Buenos Aires. Relazioni e conoscenze si rivelarono decisive anche sul versante patrimoniale, consentendogli di approfittare del favorevole ciclo economico attraverso la partecipazione a varie iniziative. Tra queste va ricordata la gestione di una concessione per la costruzione di un canale nel Tigre, da cui ricavò anche una proprietà di circa 200 ettari sulla quale fece erigere una residenza; o ancora la nomina a liquidatore di alcune banche, tra cui il Banco de Napoles y Río de la Plata, che gli permise di acquisire ulteriori contatti e approfondire le capacità di valutazione e gestione di patrimoni.
Intorno ai primi anni Novanta, Perrone aveva ormai decisamente migliorato il suo status socioeconomico, ed era ben inserito nei meccanismi di potere locali. Forte di queste basi, sfruttò l’occasione della vita, facendo compiere alla propria esistenza un’ulteriore svolta. Nel luglio 1894 l’ingegner Antonio Omati, suo cognato, dirigente della Gio. Ansaldo dal 1883, lo contattò per avere consigli su come aprire una linea d’affari in Argentina per conto dell’impresa genovese.
Dopo i primi stentati anni, la Giovanni Ansaldo & C., diventata di proprietà quasi esclusiva dei fratelli Giovanni e Carlo Marcello Bombrini (giacché gli altri membri della famiglia ebbero quote modeste), nel decennio 1883-92 beneficiò dei diversi provvedimenti governativi a favore della Marina mercantile e militare e si consolidò come grande impresa meccanica e cantieristica. La crisi dei primi anni Novanta, tuttavia, ridimensionò drasticamente la domanda interna e in ragione di ciò i Bombrini avviarono iniziative per cercare commesse sui mercati esteri.
Perrone colse al volo l’occasione e nelle settimane successive convinse i Bombrini a nominarlo rappresentante della società presso il governo argentino, mettendo a frutto, al contempo, le sue relazioni con l’appoggio del generale Roca, con l’obiettivo di ottenere commesse per i prodotti ansaldini. A causa della crescente tensione tra Argentina e Cile, il contesto fu favorevole e nel dicembre 1894 Perrone propose ai Bombrini di offrire al governo argentino l’incrociatore corazzato Garibaldi, in stato di avanzata costruzione per conto del governo italiano. In Italia i Bombrini riuscirono a convincere il governo, retto da Francesco Crispi, previa restituzione degli anticipi ricevuti; in Argentina, Perrone riuscì a superare numerosi ostacoli, sia per le sue conoscenze sia per le ampie disponibilità di denaro, messogli a disposizione dai Bombrini, per ‘convincere’ politici e militari. Il contratto di vendita, di oltre diciassette milioni di franchi oro, fu siglato nel luglio 1895 con grande risalto sulla stampa.
Ottenuta la nomina a rappresentante dell’Ansaldo per l’America del Sud e il Messico, Perrone decise di tornare in Italia nel dicembre 1895 per conoscere meglio l’impresa e stabilire relazioni più profonde con i proprietari dell’Ansaldo. In breve tempo riuscì a entrare nelle grazie dei Bombrini e, ottenutane la fiducia, si mosse con l’intento di rafforzare la posizione dell’impresa negli ambienti ministeriali romani, anche in modo spregiudicato, come nel caso delle relazioni con il presidente del Consiglio Crispi, avvicinato sin dal gennaio 1896 e finanziato per favorire la cessione di un nuovo incrociatore corazzato all’Argentina. Successivamente, Perrone riuscì a ricucire le relazioni con Luzzatti, si avvicinò a Giuseppe Zanardelli e, soprattutto, diventò amico di Urbano Rattazzi. Nel 1897, inoltre, consigliò i Bombrini di acquisire il controllo del giornale genovese Il Secolo XIX, del quale a fine anno divenne proprietario. Perrone esercitò un costante controllo sulla linea del giornale che negli anni successivi diventò un elemento importante della sua strategia imprenditoriale.
Il ‘ministerialismo’ di Perrone, più incisivo di quello dei Bombrini, suscitò l’ostilità degli Orlando, tradizionalmente ben inseriti negli ambienti governativi che, alleati di Attilio Odero, l’altro grande industriale navalmeccanico dell’epoca, furono i principali concorrenti dell’Ansaldo.
Tra il 1896 e il 1898 l’attivismo di Perrone, che confermò le sue notevoli abilità di venditore in un mercato dominato da colossi come Armstrong Withworth e Vickers, consentì la vendita all’estero di altri due incrociatori, il Cristobal Colon alla Spagna e il Pueyrredon all’Argentina, inizialmente ordinati, come il Garibaldi, dalla Marina italiana. Dopo aver fatto fortuna in Sudamerica, in quella fase di costruzione di un suo spazio importante anche in Italia, il coinvolgimento nei finanziamenti illeciti a Crispi, concretizzatosi in una perquisizione subita nella sua residenza genovese nel marzo 1897 e nel rinvio a giudizio, rischiò di compromettere la sua ascesa. Al termine del processo, tenuto a Bologna alla fine del 1898, Perrone fu scagionato dalle accuse, ma nel frattempo, anche per motivi di salute, era tornato in Argentina. Qui riprese i rapporti con Roca, del quale appoggiò – con frutto – la candidatura alla Presidenza della Repubblica mobilitando settori importanti della popolazione di origine italiana.
I successi ottenuti, grazie alla sua posizione di mediatore tra mondi differenti al massimo livello politico, lo spinsero a puntare ai vertici dell’Ansaldo. Se in un primo tempo i Bombrini, pur riconoscendone i meriti, non accolsero la sua richiesta di partecipazione al capitale della società, cambiarono idea di fronte ai nuovi contratti che Perrone procurò nel 1901 quando, nuovamente grazie all’amicizia di Roca, riuscì a vendere altri due incrociatori corazzati da 8000 t per diciannove milioni di franchi ciascuno all’Argentina. Nella primavera del 1902 Perrone tornò in Italia con l’intenzione di ridiscutere il suo ruolo all’interno della società; quando, in settembre, i Bombrini accolsero le sue richieste cedendogli 1/18 della proprietà dell’Ansaldo, divenne socio capitalista e direttore e rappresentante generale per l’estero, ma ben presto il rapporto con i Bombrini si fece problematico.
Perrone si mosse con la consueta energia all’estero, con la riorganizzazione delle attività nell’Impero ottomano, non mancando però di affrontare anche i principali punti di debolezza che impedivano la piena integrazione verticale per la realizzazione di grandi navi da guerra.
Ansaldo, infatti, dipendeva da fornitori esterni per l’approvvigionamento di corazze d’acciaio e di artiglierie di bordo e questo rappresentava uno svantaggio rispetto ai grandi gruppi internazionali. Individuato nella Armstrong Withworth & Co., che in Italia possedeva uno stabilimento a Pozzuoli, il partner con le competenze necessarie, condusse le complesse trattative con i britannici tenendo i Bombrini all’oscuro, determinato a costituire una nuova società di cui egli stesso fosse unico amministratore delegato. Nonostante l’opposizione di Giovanni, i Bombrini accettarono e nel dicembre 1903 fu fondata la società per azioni Ansaldo Armstrong & co.
Perrone, che nel frattempo aveva rafforzato il suo pacchetto azionario, ottenne la carica di amministratore delegato e inserì ad alto livello nell’organigramma della società anche i due figli Pio e Mario, senza che nessuno dei due possedesse specifiche competenze tecnologiche o produttive, poiché Pio aveva frequentato l’École des sciences politiques a Parigi, mentre Mario aveva appena concluso il servizio militare con il grado di sottotenente. I Bombrini gradualmente si defilarono, vendendo le restanti quote azionarie ai Perrone e alla Armstrong.
I primi passi di Perrone da amministratore delegato furono volti alla riorganizzazione dell’impresa, con l’introduzione di misure di razionalizzazione e di una più efficace definizione delle mansioni, e all’ammodernamento delle tecnologie produttive. L’alleanza con gli inglesi mostrò ben presto diversi limiti perché i vantaggi di costo nell’approvvigionamento di corazze e artiglierie si rivelarono non significativi e perché nel mercato estero Armstrong preferì allearsi con i connazionali della Vickers, piuttosto che sostenere gli interessi della Ansaldo-Armstrong. Perrone e i figli, allora, sondarono altre grandi imprese, tanto americane quanto europee, sino a ipotizzare una possibile intesa con lo storico nemico, il gruppo Odero-Terni-Orlando. La complessa trattativa però si bloccò all’inizio del 1908, per l’atteggiamento degli inglesi che alzarono il prezzo dello stabilimento di Pozzuoli, ma soprattutto per il peggioramento delle sue condizioni di salute.
Perrone, infatti, morì il 9 giugno 1908 a Genova.
I due figli Mario e Pio ne ereditarono sia le quote azionarie di controllo della società, sia le funzioni dirigenziali giacché Mario fu nominato amministratore delegato e Pio assunse la direzione e la rappresentanza generale, in un quadro segnato dal disimpegno della Armstrong e da diverse sconfitte nei grandi concorsi internazionali. I fratelli Perrone scelsero, allora, di percorrere autonomamente la via dell’integrazione verticale, con la costruzione di una grande acciaieria, per produrre le corazze, e con l’acquisizione del know-how dalla francese Schneider per realizzare artiglierie. Sposatisi con le due figlie del banchiere romano Saverio Parisi (Mario con Adele nel 1910 e Pio con Ines nel 1911), rafforzarono i network politico-militari costruiti dal padre, con significative entrature negli alti ambienti vaticani, accentuando l’orientamento nazionalista fino a sostenere L’idea nazionale di Enrico Corradini. Tutto ciò al fine di ottenere adeguate commesse militari dallo Stato, in linea con l’accresciuta capacità produttiva degli impianti dell’impresa che, a partire dal 1912, assunse la ragione sociale di Società anonima italiana Gio. Ansaldo & C.
Allo scoppio della Grande Guerra, i Perrone si attivarono per sostenere il fronte interventista in senso antitedesco, con tutte le risorse economiche e mediatiche a disposizione, finanziando anche l’impianto del Popolo d’Italia di Benito Mussolini e stringendo rapporti con Giovanni Preziosi. I rapporti con lo schieramento giolittiano si deteriorarono sempre più, così come quelli con la Banca commerciale italiana e con il gruppo Odero-Terni-Orlando. Particolarmente pesante fu l’attacco alla banca milanese, considerata un fondamentale presidio del capitalismo tedesco, condotto attraverso i giornali controllati (nel 1915 i Perrone rilevarono anche Il Messaggero e nel 1916 il Corriere mercantile) e le pressioni sulle alte cariche dello Stato, addirittura con la richiesta al presidente del Consiglio Antonio Salandra, nell’aprile del 1915, di allontanare Otto Joel e Giuseppe Toeplitz dalla guida della Banca commerciale. In ballo vi era il controllo su importanti segmenti del mondo bancario e finanziario, al fine di sostenere i programmi di espansione aziendale in vista dell’entrata nel conflitto.
Un tassello fondamentale della strategia dei due fratelli fu la partecipazione, alla fine del 1914, alla costituzione della Banca italiana di sconto – fondata anche con capitali francesi e appoggiata da esponenti politici del calibro di Francesco Saverio Nitti – che, durante il conflitto, finì con il diventare la banca dell’Ansaldo.
L’espansione dell’impresa tra il 1915 e il 1918 sotto la guida aggressiva dei fratelli Perrone fu impressionante: gli investimenti raggiunsero i 580 milioni di lire correnti e gli occupati passarono da 18.000 a oltre 40.000 alla fine del conflitto. Fu attuata un’ampia diversificazione che estese gli interessi di Ansaldo al settore minerario, alla navigazione, alla produzione automobilistica e aeronautica, spesso anticipando le commesse belliche, grazie ai diretti contatti con il Comando supremo che permisero loro di avere accesso a informazioni riservate.
Molti contemporanei giudicarono gli investimenti realizzati eccessivi e viziati dalla megalomania dei due fratelli; tuttavia, questi programmi si rivelarono molto utili dopo il disastro di Caporetto, quando si trattò di ricostituire buona parte dell’armamento e del munizionamento dell’esercito. I fratelli Perrone rivolsero anche grande attenzione alla costruzione di un’identità d’impresa che facesse coincidere i destini della grande Ansaldo con quelli della nazione e a questo scopo rafforzarono le relazioni con Gabriele D’Annunzio e Mussolini, i quali ne esaltarono il contributo alla mobilitazione industriale.
L’idea che gli interessi dell’Ansaldo si identificassero con quelli dell’Italia diventò anche l’elemento centrale del loro ‘programma nazionale’ con il quale affrontarono la difficile fase di riconversione postbellica. La riorganizzazione delle diversificate attività del gruppo, centrata sulla produzione di massa di mezzi trasporto, doveva essere sostenuta da una ‘unione bancaria’ dei più grandi istituti di credito, che avrebbe dovuto privilegiare Ansaldo rispetto agli altri grandi gruppi industriali, e doveva avere come interlocutore principale lo Stato con le sue commesse, all’interno di una politica economica rigidamente protezionistica.
I governi che si susseguirono nel travagliato dopoguerra non accolsero le pressioni insistenti dei Perrone, i quali cercarono di scalare la Banca commerciale per procurarsi la liquidità necessaria a sostenere i loro ambiziosi progetti, senza però riuscirvi, e dissipando in questa impresa importanti risorse. La sconfitta fu fatale ai Perrone, che pagarono a caro prezzo il loro isolamento all’interno del mondo imprenditoriale italiano. Di fronte alla prospettiva del crollo della Banca italiana di sconto e di Ansaldo, con prevedibili conseguenze negative sull’intero sistema economico, intervennero lo Stato, attraverso il Consorzio sovvenzioni su valori industriali, e la Banca d’Italia, nella figura del suo governatore Bonaldo Stringher, il quale coordinò le varie fasi del salvataggio.
Alla fine del 1921, i figli di Ferdinando Maria Perrone furono estromessi dalla guida del gruppo, ma riuscirono a conservare il patrimonio familiare. Non si rassegnarono alla perdita di Ansaldo e, facendo leva anche sulle alte gerarchie ecclesiastiche, provarono a rientrare in gioco quando lo Stato avviò la privatizzazione del gruppo. Questo tentativo, nonostante gli appelli a Mussolini, non sortì alcun effetto e portò con sé diversi procedimenti giudiziari che giunsero a conclusione nel dicembre 1926, con l’accettazione dell’irreversibile perdita dell’Ansaldo. Dopo queste vicende, i Perrone focalizzarono i loro interessi nella gestione del patrimonio immobiliare e delle partecipazioni nell’industria editoriale, avviando anche iniziative nel campo edilizio e nell’allevamento di cavalli con la Società allevamento razza latina.
Pio Perrone morì a Roma il 16 gennaio 1952, mentre Mario scomparve a Genova il 29 novembre 1968.
Fonti e Bibl.: Le principali fonti archivistiche sulla famiglia Perrone sono conservate presso l’Archivio storico della Fondazione Ansaldo di Genova, nel Fondo Perrone (cfr. Archivio Perrone, 1871-1945. Guida all`inventario, Genova 2011). Numerosi elementi sull’uscita dei Perrone dall’Ansaldo si trovano a Roma, Archivio storico della Banca d’Italia, Banca d’Italia, Direttorio - Stringher, Pratiche, 12, fasc. 3: Crisi della Banca italiana di sconto e della Soc. Ansaldo (1921-26) e Consorzio Sovvenzioni su Valori Industriali, Sede principale, Copialettere, n. 204.0 (1922-27) e Sede principale, Pratiche, 449, f. 1: Corrispondenza particolare (1922-24).
Il testo di riferimento è P. Rugafiori, F.M. P. da casa Savoia all’Ansaldo, Torino 1992. Sui Perrone e l’Ansaldo si vedano: E. Gazzo, I cento anni dell’Ansaldo. 1853-1953, Genova 1953; M. Doria, Ansaldo. L’impresa e lo Stato, Milano 1990; T. Row, Nazionalismo economico nell’Italia liberale, 1903-1921, Bologna 1997 e Storia dell’Ansaldo, II-V, Roma-Bari 1995-98, in partic. i saggi in III, Dai Bombrini ai Perrone, a cura di P. Hertner (L. Segreto, Partner e rivali nell’industria degli armamenti, pp. 111-141; A.M. Falchero, La costruzione di un gruppo industriale integrato, pp. 143-176; F. Conti, I Perrone fra impresa e politica, pp. 225-256), in IV, L’Ansaldo e la Grande Guerra 1915-1918, a cura di V. Castronovo (A.M. Falchero, L’Ansaldo e la Banca italiana di sconto, pp. 17-35; L. Tomassini, L’Ansaldo e la mobilitazione industriale, pp. 37-68; L. Segreto, L’Ansaldo e le guerre economiche parallele, pp. 191-216; F. Fasce, Il mito dell’“italianissima Ansaldo”, pp. 217-233), in V, Dal crollo alla ricostruzione 1919-1929, a cura di G. De Rosa (A.M. Falchero, L’estromissione dei Perrone, pp. 23-40; L. Segreto, La nuova Ansaldo tra pubblico e privato, pp. 41-71). Per gli interessi in campo editoriale: O. Freschi, Il Secolo XIX. Un giornale e una città: 1886-2004, Roma 2005 e G. Talamo, Il Messaggero e la sua città. Cento anni di storia, I-III, Firenze 1979-91. In relazione all’estromissione dall’Ansaldo, Pio e Mario Perrone scrissero anche diversi opuscoli, tra questi: La distruzione della società Gio. Ansaldo & C. a beneficio dei suoi concorrenti, la crisi della Banca italiana di sconto provocata per salvare i finanziamenti industriali delle altre banche, dicembre 1922, Roma 1922 e L’Ansaldo, la guerra e il problema nazionale delle miniere di Cogne, Genova 1932.