fenomenologia
Nella storia della filosofia il termine è presente, con diverse accezioni, in Lambert, in Kant e in Hegel, ma il significato che ha prevalso su tutti gli altri fino ai giorni nostri è quello che assunse nella filosofia di lingua tedesca del tardo Ottocento e del primo Novecento, allorché venne a designare un modo del tutto nuovo di rapportarsi al «fenomeno». In partic., in Husserl, padre fondatore della scuola fenomenologica, «fenomeno» non designa semplicemente il modo di apparire delle cose al soggetto, ma anche le cose stesse in quanto si danno nei fenomeni; e perciò per Husserl la f., in quanto «ritorno» ai fenomeni, è, secondo la notissima formula, «ritorno alle cose stesse». Husserl così la definisce: «La f. della conoscenza è scienza dei fenomeni di conoscenza nel doppio senso, da una parte delle conoscenze come apparenze, rappresentazioni, atti di coscienza, in cui si presentano queste o quelle oggettualità e se ne diviene consapevoli (passivamente o attivamente); e dall’altra parte è scienza di queste oggettualità stesse in quanto in tali forme si presentano. La parola fenomeno ha un doppio senso per via dell’ essenziale correlazione fra l’apparire e ciò che appare» (L’idea della fenomenologia).
La f. husserliana affonda le sue radici nella riflessione filosofica tedesca e mitteleuropea del secondo Ottocento, e in particolare in due movimenti che caratterizzano tale cultura: quello che, con Brentano, ma anche con Dilthey, mette capo alla psicologia descrittiva, e quel realismo o ontologismo logico che, secondo prospettive differenti, si fa strada con Bolzano, Frege e Alexius Meinong. Dal primo movimento Husserl trae, con sostanziali modifiche, il concetto fondamentale della f., l’intenzionalità, e con esso l’esigenza di una fedeltà ai fenomeni, della riscoperta di un’esperienza originale e liberata da tuttte le incrostazioni che l’intellettualismo e i pregiudizi culturali in generale hanno depositato in essa; dal secondo, l’istanza della riconduzione della filosofia a una scienza rigorosa, basata sull’intuizione di essenze che sono al di là del meramente fattuale, dello psicologico in senso meramente empirico. Da questa duplice ispirazione, che congiunge direzioni di pensiero difficilmente conciliabili, Husserl trae, già a partire dalla sua prima opera propriamente fenomenologica, le Ricerche logiche, un edificio teorico di rilevantissima originalità, che, pur con difficoltà interne, in gran parte legate a quella discrasia originaria, ha contribuito in modo decisivo al rinnovamento della filosofia contemporanea. Pietra basilare della f. è il concetto di intenzionalità (➔): esso permette di rompere con tutta l’impostazione della filosofia moderna che ha separato dualisticamente soggetto e oggetto, uomo e mondo, aprendo così il baratro dello scetticismo. La f. permette invece di superare tale difficoltà, poiché è in grado di riscoprire quel rapporto di inerenza reciproca di io e mondo che dissolve definitivamente quei falsi problemi. L’intenzionalità è il primo gradino per raggiungere la consapevolezza che ci muoviamo naturalmente all’interno del mondo e non ne siamo tragicamente separati, poiché mette a fuoco quell’aspetto per cui ogni atto conoscitivo soggettivo è costitutivamente rapporto con un oggetto, individua cioè una relazione di apertura originaria del soggetto al mondo. Essa viene così definita da Husserl: «Noi intendemmo per intenzionalità la proprietà dei vissuti di essere ‘coscienza di qualche cosa’. In questa mirabile proprietà, a cui devono essere ricondotti tutti gli enigmi della teoria della ragione e della metafisica, ci imbattemmo dapprima analizzando il cogito esplicito» (Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica). La «mirabile proprietà» non vale solo per la percezione, ma si estende a tutti gli aspetti della vita spirituale: il giudizio, i valori, i desideri, che tutti «mirano a» qualcosa: «un percepire è percepire di qualcosa, poniamo di una cosa spaziale; un giudicare è giudicare di uno stato di cose; un valutare è valutare di uno stato di valore; un desiderare è desiderare di uno stato di desiderio, ecc.» (Idee per une fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica). L’ulteriore approfondimento della prospettiva fenomenologica, che nel primo Husserl (quello delle Ricerche logiche) pare ancora legata a una prospettiva di ontologismo logico, è la chiarificazione del livello trascendentale a cui essa deve muoversi, che avviene nelle Idee. Husserl non usa il termine trascendentale in senso kantiano, ma per indicare il raggiungimento di un fondamento assolutamente certo della conoscenza che è interamente dispiegato di fronte a un puro sguardo: si tratta, insomma, di un livello in cui l’esperienza non si dimostra, ma si mostra nella sua purezza e datità assolute. Fondamentale è, in questo senso, il concetto di «intuizione eidetica», di una visione pura e diretta delle «essenze». Per raggiungere il livello trascendentale che permette tale tipo di visione, è necessario effettuare la «riduzione fenomenologica», una sospensione o epoché assoluta di tutto il sapere costituito, che Husserl così delinea nelle Idee: «[con l’epoché] mettiamo tra parentesi l’intero mondo naturale, che è costantemente ‘qui per noi’, ‘alla mano’, e che continuerà a permanere come ‘realtà’ per la coscienza, anche se noi decidiamo di metterlo tra parentesi. Facendo questo, io non assumo il mondo che mi è costantemente già dato in quanto essente, come faccio, direttamente, nella vita pratico-naturale ma anche nelle scienze positive, come un mondo preliminarmente essente e, in definitiva, non lo assumo come il terreno universale d’essere per una conoscenza che procede attraverso l’esperienza e il pensiero. Io non attuo più una esperienza del reale in un senso ingenuo e diretto». Ed è altresì ovvio che questa neutralizzazione per Husserl investe non solo le scienze della natura, ma anche le scienze dello spirito, che costruiscono il loro edificio pur sempre con il presupposto dell’«atteggiamento naturale»: quindi anche lo Stato, il costume, il diritto, la religione vengono messi «in sospeso». Si deve sottolineare come nella riduzione trovi espressione uno dei temi più importanti, e che più ha influito sulla cultura complessiva, di tutta la f.: quello della «conversione dello sguardo», di un passaggio dalla visione quotidiana e ordinaria, che è tutta immersa nelle cose, a una visione «di secondo grado», che è insieme coscienza di sé e coscienza dell’oggetto e che, mettendo tra parentesi tutta l’esperienza costituita, con un apparente introversione soggettiva, permette invece di cogliere l’autentica «realtà» delle cose, il «fenomeno». In questo modo, Husserl reinterpretava, nei suoi termini, il dubbio cartesiano (e ne sono documento principe le lezioni tenute alla Sorbona nel 1929, poi pubblicate come Meditazioni cartesiane). Una volta raggiunto il livello di certezza assoluta garantito dalla riduzione fenomenologica, il programma di Husserl proseguiva verso la costituzione trascendentale della varie ontologie regionali (spirito, corpo, scienze naturali): in sostanza, si trattava di ricondurre agli atti costitutivi dell’Io puro la totalità del sapere, secondo una direzione che, sotto questo aspetto, avvicinava il programma husserliano a quello di Kant e che non fu seguito da tutti i discepoli: in particolare la scuola di Gottinga (fra cui spicca il nome di Koyré) rimase fedele ed anzi accentuò l’ontologismo e il realismo dello Husserl precedente alle Idee. Altro importante sviluppo del pensiero husserliano è quello che si verifica nella V Meditazione cartesiana, con l’approfondimento del problema dell’intersoggettività: alla costruzione apparentemente solipsistica di tutto l’edificio del sapere sulla certezza di un Ego puro, ma singolare, succedeva la consapevolezza che costitutivo dell’Io è il suo rapporto con l’altro, che soggettività e intersoggettività sono indissolubilmente unite. La riflessione dell’ultimo Husserl appare fortemente condizionata, per un lato, dal dissidio con Heidegger, che, già suo allievo, con la pubblicazione di Essere e tempo conferisce alla f. un significato profondamente diverso, dall’altro dall’avvento del nazismo, che portò alla sua esclusione dall’università in quanto ebreo, e dall’imminenza di una nuova guerra mondiale. L’ultima grande opera di Husserl, che uscirà postuma, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, proprio in rapporto a questi drammatici eventi storici ed esistenziali, pone il problema dell’oscurarsi, in gran parte inevitabile, del senso della scienza e del rapporto essenziale che esiste fra senso, storia e scientificità (di importanza grandissima, per tutta la riflessione filosofica successiva, è l’Appendice III dell’opera, dal titolo L’origine della geometria); con una netta svolta antintellettualistica rispetto alle Idee, Husserl pone al centro dell’attenzione il rapporto con il mondo della vita (Lebenswelt), visto come fondamento preintellettuale di ogni costruzione di senso, prospettando l’esigenza che il mondo della cultura sappia sempre «riattivare», cioè mantenere vivo il rapporto con esso, restituendo alle scienze quel fondamento che, da Galileo in poi, è caduto nell’oblio. In questo modo Husserl apriva una riflessione – sul ruolo delle scienze sulla storia, come campo in cui non si dispiega solo la razionalità, ma anche il non senso – che avrebbe alimentato gran parte del dibattito filosofico successivo alla seconda guerra mondiale e che è tuttora viva in varie forme.
Il contributo di Scheler alla f. è originale dal punto di vista sia del metodo che dei contenuti. Sul piano del metodo fenomenologico, egli, pur accettando il programma husserliano fondamentale del «ritorno alle cose stesse», se ne distanzia per il rifiuto di ogni programma costitutivo-trascendentale e colloca la f. su un piano nettamente ontologico. Sul piano dei contenuti, la distanza dal logicismo e trascendentalismo dello Husserl delle Idee si traduce in un interesse prevalente per il mondo dei valori: etica, religione, sociologia e antropologia sono le discipline a cui Scheler si è soprattutto dedicato, con contributi di rilevante originalità e con particolare attenzione alla sfera delle emozioni. Ne è documento Essenza e forme della simpatia, opera che ha avuto largo influsso nella cultura filosofica e sociologica internazionale, per il nuovo modo con cui Scheler vi ha delineato il problema del rapporto io-altro. Riprendendo esplicitamente il programma pascaliano di una «logique du coeur», Scheler imposta l’analisi delle «autonome leggi di senso dei cosiddetti atti e funzioni emozionali ‘superiori’», sottolineandone «la natura intenzionale e cognitiva» (Essenza e forme della simpatia). La simpatia (Mitgefühl), definita da Scheler come una condivisione immediata di un affetto altrui, «con-godere ‘della’ sua gioia e con-patire ‘il’ suo dolore», viene attentamente distinta da altri stati emotivi, come il contagio emotivo o l’‘unipatia’, che comportano la fusione fra l’io e l’altro: la simpatia implica che io provi una passione altrui restando tuttavia integralmente me stesso, conservando la mia identità rispetto all’altro. Scheler vede nella simpatia la base per la filantropia, la quale a sua volta fonda «l’amore acosmico delle persone e di Dio». La simpatia non ha tuttavia titolo, come aveva invece creduto la scuola anglo-scozzese, a fondare il livello morale, poiché non pone attivamente valori, ma, dice Scheler sulle tracce di Nietzsche, ha carattere meramente reattivo. Ma è nella parte finale del libro, intitolata «L’Io altrui», che Scheler trae le conseguenze più importanti delle sue analisi: la messa in chiaro dei rapporti emotivi che legano gli esseri umani è destinata a rinnovare discipline come la psicologia, la sociologia e l’antropologia, che trovano nell’analisi fenomenologica il loro presupposto fondante; tutto il peso che studi come quelli di Troeltsch e Weber hanno attribuito ai sistemi metafisici e alle religioni nello studio delle società rimanda alla chiarificazione di «quale specie di concatenazione ultima può esistere fra uomo e uomo». Particolarmente importante è la considerazione nuova che l’impostazione di Scheler comporta per il classico problema della percezione dell’altro: non si tratta più di porre un io solipsistico originariamente separato dagli altri, ma di prender atto, sulla base del fenomeno della simpatia, che «noi possiamo pensare le ‘nostre’ idee come le ‘idee’ degli altri e possiamo sentire i nostri sentimenti come i sentimenti degli altri» e lo stesso vale per la conoscenza del nostro corpo, che è sempre allacciata alla conoscenza dei corpi altrui. Sulla base di queste analisi, Scheler avrebbe poi dato vita a un importante progetto antropologico, fondamentale per tutta l’antropologia filosofica ( ➔) successiva, nell’opera La posizione dell’uomo nel cosmo.
Benché sia stato assistente di Husserl e ne sia stato profondamente influenzato, Heidegger imprime ben presto una svolta al pensiero fenomenologico, riprendendone le istanze ontologiche e anzi accentuandole, ma conferendo loro un senso tutto nuovo. Documento essenziale di ciò è il § 7 di Essere e Tempo, intitolato precisamente Il metodo fenomenologico della ricerca, nel quale fin dall’inizio il problema della f. viene legato essenzialmente a quello dell’ontologia. Dopo aver distinto i vari e discordanti significati che hanno assunto nella discussione filosofica i termini «fenomeno» e «logos», e dopo aver definito il primo come «ciò che si manifesta in sé stesso, il manifesto» e il secondo come «puro lasciar vedere qualcosa, lasciar percepire l’ente», Heidegger propone le seguenti definizioni di f.: «lasciar vedere da sé stesso ciò che si manifesta, così come si manifesta da sé stesso», che ha buon gioco a ritenere un’altra espressione della massima fenomenologica del ritorno «verso le cose stesse». Di per sé, dunque, il metodo fenomenologico consiste nel puro procedimento di mostrare e non è legato ad alcun oggetto in particolare. Qual è dunque il vero obiettivo di un metodo che si impegna innanzitutto ed essenzialmente nel mostrare? Evidentemente esso è indirizzato a far sì che si mostri «un qualcosa che innanzitutto e per lo più non si manifesta» e cioè quell’essere dell’ente che la ricerca di Heidegger ha già fatto vedere come necessariamente destinato a cadere nell’oblio. Heidegger può dunque concludere: «La f. è il modo di raggiungere e di determinare dimostrativamente ciò che deve costituire il tema dell’ontologia. L’ontologia non è possibile che come f.». Era questo evidentemente un congedo da tutta la tematica trascendental-costitutiva su cui Husserl si affaticava dal tempo delle Idee; la lontananza fra il discepolo e il maestro si sarebbe ancora accresciuta quando, a partire dagli anni Trenta, con la cosiddetta Kehre (svolta), Heidegger avrebbe messo a fuoco il suo concetto di verità o aletheia come necessaria correlazione di velamento e svelamento, che comportava una radicale messa in discussione di un metodo fenomenologico indirizzato al mero «mostrare» e modellato sull’evidenza intuitiva.
La f. ha avuto, già vivente Husserl e, successivamente, in seguito al lavoro dei suoi allievi diretti e alla pubblicazione di un enorme lascito manoscritto, uno sviluppo e una diffusione internazionali molto vasti, che sono andati molto al di là di quanto essa ha prodotto in Germania: nell’Italia della Liberazione, soprattutto per opera di Enzo Paci e Enzo Melandri, in Cecoslovacchia, con l’opera di J. Patoçka, negli Stati Uniti, dove ha influito molto sulla psicoanalisi e sulle scienze sociali, in America Latina. Ma il paese dove ha avuto il maggior numero di seguaci e dove ha conosciuto gli sviluppi più originali è sicuramente la Francia. La caratteristica più specifica della f. francese è il fatto che non si può segnare alcun limite netto fra l’influenza dei vari esponenti della corrente fenomenologica, e in particolare fra quella di Husserl e quella di Heidegger, entrambi ritenuti, sebbene con diverse interpretazioni e in diversa misura, dei fenomenologi a pieno titolo. Perciò la storia della f. francese si confonde almeno in parte con quella dell’esistenzialismo. Sartre, che si recò in Germania per ascoltare sia Husserl che Heidegger, fu fra i primi a introdurre il metodo fenomenologico in Francia nei suoi scritti degli anni Trenta. Di particolare rilievo, per l’originalità dei risultati e l’influenza sul pensiero succcessivo, è Immagine e coscienza, dedicato a mettere a fuoco, seguendo il metodo di Husserl, la peculiarità dell’immagine rispetto ad altre strutture della coscienza. Se nella percezione l’oggetto ci è dato solo attraverso vedute parziali e successive, e noi dobbiamo sempre «fare il giro degli oggetti», quando invece immaginiamo qualcosa nulla ci sfugge di ciò che immaginiamo: noi esteriorizziamo quel che di un oggetto già sappiamo. Immaginare è dunque qualcosa di attivo, ma, in compenso, l’immagine è caratterizzata da una «povertà essenziale»: non solo non possiamo mai trovare in essa più di quel che vi abbiamo messo, ma essa «pone il suo oggetto come un nulla». Pietro è «percepito» solo in quanto è pensato come presente, egli è «immaginato» solo in quanto, in una forma o in un’altra, tale sua presenza è negata. Attraverso una serie di approfondite analisi, di particolare rilievo dal punto di vista estetico, Sartre giunge alla conclusione che l’immaginazione non solo è una struttura autonoma della coscienza, ma, in quanto potere di nullificare, è l’espressione della sua caratteristica più essenziale: la libertà. Sartre torna a soffermarsi sul metodo fenomenologico nei primi paragrafi di L’essere e il nulla. Merito di tale metodo, per cui egli si rifà sia a Husserl che a Heidegger, è di aver congedato definitivamente il dualismo di esteriore e interiore (la forza non è che l’insieme delle sue manifestazioni: non c’è nessuna realtà ontologica nascosta dietro di essa), così come quello di essere e apparire: «l’apparenza non nasconde l’essenza, la rivela: è l’essenza». Ma per fondare l’effettiva trascendenza del fenomeno, la sua oggettività, bisogna ricorrere a un nuovo dualismo, quello del finito e dell’infinito: «l’apparizione che è finita indica se stessa nella sua finitezza, ma esige, nel medesimo tempo, per essere accolta come appparizione-di ciò-che-appare, d’essere superata verso l’infinito». Al dualismo kantiano di fenomeno e noumeno si sostituisce così quello di fenomeno ed essere del fenomeno o dell’apparire. Proseguendo nella sua ricerca, Sartre confuta l’identificazione di questi due concetti proposta da Berkeley con il suo esse est percipi: da un lato abbiamo l’essere della coscienza, che è innanzitutto coscienza irriflessa di qualcosa e solo successivamente conoscenza riflessa di sé, cogito cartesiano; dall’altro lato, abbiamo una realtà del percepito che è irriducibile alla conoscenza che ne ha la coscienza (e qui Sartre polemizza con il modo in cui Husserl ha concepito l’intenzionalità, accusandolo di idealismo berkeleyano): si arriva quindi alla conclusione che «la coscienza nasce rivolta a un essere che non è essa», che Sartre definisce come una vera e propria «prova ontologica». In questo modo, si apre la strada che condurrà ben presto dal dualismo di essere in sé dei fenomeni e coscienza a quello di essere e nulla. Merleau-Ponty, nella Fenomenologia della percezione, che è la sua opera più vicina alla f., ne dà un’interpretazione assai originale, che è chiaramente delineata nell’Introduzione. Egli concentra il fuoco dell’attenzione sul tema della riduzione e osserva che si tratta di un tema che ha tormentato Husserl per tutto il corso della sua riflessione. Ciò è dovuto essenzialmente al fatto che il filosofo tedesco non era soddisfatto dell’idea di riduzione come possibilità di isolare un Io puro e trascendentale, a partire dal quale la nostra esperienza diventa quella di un mondo unico, indiviso e abitato da soggetti identici e trasparenti. L’esperienza reale che noi abbiamo dell’altro e quella del mondo contraddicono questa visione idealista: il rapporto con l’altro è per me originario, l’altro ha una densità e un’opacità irriducibili e né io né lui siamo riducibili a degli «Ego puri». Ciò può anche esprimersi dicendo che entrambi siamo «in situazione», «gettati» nella «fatticità», nel qui e nell’ora, immersi in corpi che fanno parte di una natura. Merlau-Ponty, che, come si vede, collega Husserl e Heidegger interpretandoli assai liberamente, può dunque concludere: «Il più grande insegnamento della riduzione è l’impossibilità di una riduzione completa»; essa non mette capo, infatti, alle certezze assolute di un soggetto puro, ma alla «meraviglia» (étonnement) di fronte al fatto immotivato e paradossale che il soggetto si trova immerso in un mondo, tema che il filosofo francese riprende da Fink, essenziale figura di collegamento fra Husserl e Heidegger fin dagli anni Trenta. L’esperienza che l’uomo ha del mondo è dunque sempre parziale, nuova e da ricominciare; c’è un mondo della vita e della storia che è impossibile portare alla trasparenza dell’idea. Di conseguenza Merlau-Ponty dà del tema husserliano dell’intenzionalità una lettura molto personale, anche se non priva di agganci nei testi del maestro: all’intenzionalità «d’atto», che caratterizza i nostri giudizi coscienti, e che è quella con cui ha lavorato anche Kant, egli contrappone l’intenzionalità «operante» (fungierende Intentionalität), che è quella che si attua nella nostra vita preintelletttuale, in tutta quella dimesione «prelogica» della nostra esistenza che non riguarda tanto i giudizi logici e coscienti, ma che «costituisce l’unità naturale e antepredicativa del mondo e della nostra vita, che appare nei nostri desideri, nelle nostre valutazioni, nel nostro paesaggio». Di conseguenza, il programma della f., che è per definizione infinito e incompiuto e ha un «andamento incoativo», diventa la riscoperta di quella falda di senso, di vita irriflessa che è alla radice sia della vita individuale che della storia collettiva. Il programma del ritorno «alle cose stesse» diviene così, nell’interpretazione di Merleau-Ponty, per un lato, quello di analizzare il ruolo del corpo come vera matrice di tutte le conoscenze, per l’altro la riscoperta di quell’elemento «genetico», irriducibilmente dinamico dell’«essere al mondo» la cui «ripresa» non è mai un passivo ritrovamento, ma una sempre nuova creazione.