FELLONIA (dal basso latino fello, fellonis, di origine incerta, usata per la prima volta nel senso di "traditore", "ribelle" in un capitolare di Carlo il Calvo (sec. IX); più tardi appare la forma francese fel, felon)
Il termine sta a significare tradimento della fede giurata, mancamento alla fedeltà promessa, e raramente si usa nel comune linguaggio, riconnettendosi, per le sue origini, specialmente alle istituzioni feudali. Nell'antico diritto germanico il delitto di stato è concepito sotto l'aspetto d'infedeltà alla comunanza degli individui: più tardi, concentrandosi nel re ogni potere, il delitto di stato si rappresenta come infedeltà al re. Con la legislazione dei Franchi, si stringono maggiormente i vincoli di sudditanza fra i cittadini e il sovrano e si rende, di conseguenza, più ampia la sovranità del re; i delitti di stato divengono pertanto più numerosi, e più spiccato appare il carattere di violazione della fede giurata. Di qui deriva il delitto di fellonia, che consisteva nel mancare alla fede promessa, e che comportava la rottura del contratto feudale e la conseguente perdita del feudo. Poiché tal fede, originandosi da questo contratto, creava vincoli reciproci di fedeltà tra il vassallo e il signore con la costituzione del rapporto di vassallaggio, e tra il signore e il sovrano, di cui il primo era, a sua volta, feudatario, il delitto di fellonia poteva essere commesso: a) dal vassallo verso il signore; b) dal signore verso il vassallo; c) dal signore verso il sovrano.
a) La prima forma di fellonia comprendeva diverse ipotesi criminose, di cui le più importanti erano: attentare alla vita e all'integrità del signore e recare offese ad esso, o a un membro della sua famiglia; tradirne i segreti; non adoperarsi a liberarlo dalla prigionia, non soccorrerlo nella miseria o in altri pericoli; non prestare il giuramento di fedeltà nel tempo stabilito, o prima ancora, se invitato per tre volte a farlo; rifiutargli l'omaggio dovuto; accusarlo in giudizio o testimoniare contro di lui; rifiutarsi di giurare per lui, disconoscerne o ricusarne il giudizio feudale; non avvertirlo del pericolo minacciato, e, potendo, non liberarlo; non punire i colpevoli di cospirazione contro di lui; tenere intelligenze con i nemici; mancare al servizio dovuto, essendone stato richiesto; prendere o deteriorare il feudo, usurpare la proprietà del signore; tentare o avere relazioni carnali con la moglie, la figlia, la madre, la sorella, la nuora, la nipote, la fidanzata del medesimo. Il concetto di fellonia informava naturalmente anche tutte le violazioni dei doveri di disciplina e di servizio militare, cui era tenuto il vassallo verso il signore, come da inferiore a superiore. La perdita del feudo si verificava anche quando l'offesa proveniva dai figli o dai servi del vassallo o da un suo sub-vassallo, e il vassallo, ammonito in proposito dal signore, non aveva cercato di condurre i responsabili a fare ammenda delle loro colpe. La perdita del feudo era quasi sempre congiunta a una pena di carattere personale, come la morte, il bando, l'ammenda, secondo la gravità dei casi; quando il vassallo era cavaliere perdeva tale qualità a seguito di pubblica e solenne degradazione. La perdita del feudo e la pena che l'accompagnava non potevano essere pronunciate che in seguito a un giudizio dei pari del vassallo (laudavientum parium suorum). Il signore, però, poteva sempre perdonare il colpevole di fellonia, e, in tal caso, neppure i suoi eredi potevano intentare una qualsiasi azione contro il vassallo. La fellonia, peraltro, non si verificava quando il vassallo si poneva a disposizione e in difesa del sovrano, al quale il suo signore si fosse ribellato. Accanto ai delitti di vera e propria fellonia si comprendevano, sotto la denominazione di quasi fellonia, i delitti commessi dal vassallo contro persone estranee al signore. Anche in tal caso si verificava la perdita del feudo, che, però, non tornava, come per la fellonia, al signore, fino a che durava la discendenza del vassallo, ma si devolveva, invece, ai collaterali del medesimo.
b) La seconda forma di fellonia era quella del signore verso il vassallo, poiché il giuramento di fedeltà, prestato da quest'ultimo, comportava vincoli reciproci, e, quindi, anche certi obblighi per il signore. Questi poteva essere dichiarato fellone per le stesse colpe che importavano la responsabilità del vassallo, ad eccezione di quei casi di carattere speciale che avevano particolare riguardo alla personalità del signore e che non potevano ammettere alcuna reciprocità in favore del vassallo. Così, si verificava specialmente la fellonia del signore, nei casi d'oltraggio o violenze verso la persona del vassallo o verso i suoi; nel caso di abbandono, tradimento, ecc. Tale fellonia doveva essere dichiarata dalla corte del sovrano, quando fosse stata provata con cinque testimonî notabili e incensurati, e portava, di conseguenza, la perdita dei diritti nascenti dal feudo, i quali passavano direttamente al sovrano del signore.
c) La terza forma di fellonia si verificava quando il signore tradiva la fede giurata al sovrano: in Germania era più spiccato il carattere di tale reato nei riguardi del supremo signore feudale che era l'imperatore.
Nell'odierno diritto italiano la voce fellonia è caduta in disuso; essa, però, è tuttora in vigore nella legislazione inglese e americana.
Difatti il concetto di reciproca fedeltà, tra il signore e il vassallo, fu adottato in Inghilterra per indicare i rapporti tra re e popolo, dovendo il primo prestare il giuramento della corona alla presenza del popolo, il quale, a sua volta, gli doveva obbedienza e fedeltà. La violazione di questa specie di contratto tra re e popolo fu detta fellonia; locuzione che poi si estese ad ogni specie di delitto punito con la confisca dei beni. Nel moderno diritto inglese la fellonia comprende ogni delitto che importi la perdita totale della proprietà fondiaria o mobile: così anche nel diritto americano.
Bibl.: P. Vico, in Digesto italiano, XI, i, Torino 1895, p. 757 segg.; E. Pessina, Enciclopedia del Diritto penale italiano, VI, Milano 1909, p. 35 segg.; G. Salvioli, Storia del Diritto italiano, Torino 1921, pp. 365, 704.