MOMIGLIANO, Felice
– Nacque a Mondovì (Cuneo), il 27 maggio 1866 da Salomone, commerciante, e Diamantina Levi.
Membro di una nota famiglia ebraica, che dopo la conquista dell’emancipazione abbracciò con entusiasmo la strada dell’integrazione civile e si identificò con la nascente tradizione dello Stato unitario, il M. fu cugino dell’antichista Arnaldo e nipote del rabbino maggiore di Bologna Marco Momigliano. Persa la madre quando era bambino, trascorse l’infanzia con la nonna materna e il padre, che dopo pochi anni dalla morte della moglie si risposò.
Sin da giovane il M. mostrò la volontà di prendere le distanze dall’educazione religiosa che aveva ricevuto e di coniugare lo studio dell’ebraismo con quello della letteratura, della storia e della filosofia. Conseguita la maturità presso il liceo classico C. Beccaria di Mondovì, nel 1885 si iscrisse alla facoltà di lettere dell’Università di Torino. Nel 1887 sostenne il concorso per diventare allievo della Scuola Normale di Pisa, dove però restò solo un anno. Due anni dopo si laureò in lettere a Torino e nel 1891 in filosofia. Da allora cominciò a insegnare nei licei.
La biografia intellettuale del M. si articola intorno a tre grandi temi che hanno caratterizzato la storia del Novecento: il socialismo, il nazionalismo e la religione. In effetti, «la purificazione dell’ebraismo, il rinnovamento spirituale d’Italia e lo stabilimento della giustizia sociale in Europa, erano nella sua mente tre aspetti di un problema solo». (A. Momigliano, p. 844).
Nel 1893 il M. fondò il primo circolo operaio di Mondovì e nel gennaio 1894 entrò nel comitato direttivo della locale sezione del Partito socialista italiano (PSI). Sempre nel 1894, in conseguenza delle misure repressive varate dal governo crispino, gli venne inflitto un mese di confino a Sanremo perché ritenuto un pericoloso sovversivo. Assiduamente controllato dalla polizia per la sua militanza politica, nel 1895 il M. fu condannato al trasferimento obbligatorio in Sardegna, a Tempio Pausania, dove però non esercitò l'insegnamento perché chiese e ottenne l’aspettativa. Collaboratore assiduo di Critica sociale, della Revue socialiste e de La Stampa, in quegli anni diede forma al suo pensiero politico e, a differenza di molti suoi compagni di partito, si fece sostenitore di un socialismo spiritualistico, avverso alle interpretazioni materialistiche della storia e quindi del conflitto di classe, ispirato a un’etica universalistica e attento alla dimensione nazionale della storia dei popoli. In effetti, come è evidente in Migliorismo o pessimismo ebraico? (Milano 1897), la sua adesione al socialismo era maturata attraverso una profonda riflessione sulla dottrina ebraica. Tra il socialismo di K. Marx e di F. Lassalle e il profetismo religioso, egli aveva infatti individuato alcuni elementi di assonanza nella comune aspirazione alla trasformazione interiore per l’avvento di una nuova società.
All’interno di questo orizzonte di pensiero nel quale non mancavano contraddizioni e ingenuità, nell’agosto del 1898 il M. venne inviato al secondo congresso sionista a Basilea come corrispondente dell’Avanti!. Nei quattro articoli che pubblicò sul quotidiano socialista, illustrò le condizioni in cui viveva la popolazione ebraica dell’Europa orientale e spiegò che occorreva sfrondare «tutta la sovrastruttura religiosa e nazionale» e mettere in luce la forza originale del sionismo che, a suo avviso, era «eminentemente, prevalentemente, per non dire esclusivamente economica» (Ebraismo, sionismo e antisemitismo). Si trattava di un’interpretazione assai diffusa fra i socialisti di fine secolo che consideravano il sionismo, all’epoca del tutto sconosciuto in Italia, un movimento nato nell’ambito della Seconda Internazionale per l’emancipazione del proletariato ebraico perseguitato dall’antisemitismo e dallo sfruttamento e certo non ritenevano che costituisse un pericolo o un ostacolo alla costruzione dell’identità nazionale degli ebrei assimilati.
Dopo esser stato riammesso in servizio nel 1895, il M. dovette cambiare sede quasi ogni anno: fra il 1895 e il 1897 insegnò nei licei di Casalmaggiore (Cremona), Ivrea, Chiari (Brescia); nel 1898 fu a Gubbio, l’anno successivo a Voghera, poi a Vigevano e infine nel 1900 a Udine, dove nel 1902, oltre a lavorare come insegnante di filosofia, fu nominato direttore pro tempore della biblioteca comunale e sovrintendente dell’archivio. Nella città friulana collaborò con diversi giornali socialisti e democratici e tenne conferenze sui protagonisti del Risorgimento. Fu allora che accentuò gli elementi repubblicani già presenti nella sua concezione del socialismo e divenne uno studioso e un seguace di G. Mazzini.
Convinto che il socialismo avrebbe potuto esprimere il suo potere rivoluzionario solo determinando una trasformazione spirituale, nel 1903, in una lettera all'amico A. Ghisleri, repubblicano, spiegando la sua interpretazione di Mazzini, scrisse: «Sono arrabbiato coi socialisti microcefali che fanno del Dio di Mazzini un Dio carabiniere e della sua dottrina un catechismo domenicano. [...]. Se Mazzini non avesse accettato l’idealismo nuovo, la sua influenza sarebbe stata nulla. Questa è la mia convinzione. Coi Gioia, coi Romagnosi, coi Cattaneo logici ma non passionali non si faceva l’Italia» (Cavaglion, 1988, p. 95).
Due anni dopo, articolò la sua riflessione pubblicando il volume che l’avrebbe reso noto, Mazzini e le idealità moderne (Milano 1905) e poi raccolse alcuni contributi nel libro La pace e la questione sociale: saggi di etica sociale (ibid. 1908), in cui ribadì la necessità di liberare il socialismo dal materialismo e dal positivismo per farne il presupposto di una nuova etica sociale.
Ovviamente il M. non si limitava a ricostruire il programma politico di Mazzini e a sottolineare la propria adesione ai principi del socialismo. Egli si dichiarava un seguace di Mazzini perché ne apprezzava l’opera di rinnovamento della politica, pensata attraverso quella riforma morale degli Italiani che gli sembrava l’unico possibile presupposto per la costruzione di una nuova realtà sociale. Si trattava di una riflessione cui il M. era giunto dopo i suoi studi sul profetismo ebraico, attraverso il socialismo spiritualistico al qaule sentiva di aderire, e infine grazie all’incontro con B. Croce e G. Gentile. Tra fine e principio di secolo, infatti, il M. era entrato in contatto con i due filosofi, di cui aveva apprezzato gli studi, ma anche l’opera al servizio della trasformazione morale della cultura italiana. Da quel momento aveva dato forma compiuta alla ricerca di una nuova religiosità che avrebbe coniugato lo spirito nazionale, la giustizia sociale e l’afflato religioso. In questo senso, indipendentemente dal giudizio critico che i due filosofi italiani avevano formulato su Mazzini, il M. vide nel neoidealismo la possibilità di approfondire quella ricerca di spiritualità e di riforma morale che, a suo avviso, aveva avuto in Mazzini l’interprete più autorevole e che rappresentava un’alternativa alla cultura positivistica di fine secolo.
Con questo obiettivo negli anni successivi collaborò a Coenobium, la rivista fondata a Lugano nel 1906 da Ghisleri e da E. Bignami, dove si incontrarono studiosi di filosofia e di storia delle religioni, esperti di cultura evangelica e modernistica, decisi a combattere l’anticlericalismo di fine secolo e a promuovere una rinascita della politica ispirata a principi etici. Per tali ragioni, quell’esperienza rafforzò nel M. il desiderio di approfondire un tema che l’aveva accompagnato lungo tutto l’arco della vita e decise quindi di dedicarsi allo studio del rapporto fra ebraismo e cultura moderna. Proprio in quel periodo, infatti, divenne uno fra i rappresentanti del modernismo ebraico, che all’epoca era del tutto assente in Italia, dove invece aveva trovato ampia diffusione una mentalità isolazionistica che aveva allontanato il giudaismo dalle forze democratiche e laiche, a differenza di quanto accadeva in Germania, nel resto d’Europa e in America. Studiando C. Montefiore, il principale esponente dell’ebraismo liberale inglese, di cui nel 1913 tradusse Gesù di Nazareth nel pensiero ebraico contemporaneo per l’editore A.F. Formiggini, il M. divenne un importante conoscitore del pensiero di Gesù, un sostenitore del dialogo interreligioso e un fautore della necessità di inaugurare una nuova riflessione sull’ebraismo. Alla prova dei fatti, però, questo suo impegno non incontrò molto successo. Nel 1912 i suoi interventi su Vessillo israelitico per modificare il libro delle preghiere quotidiane non vennero accolti dal rabbino maggiore di Parma D. Camerini, incaricato di redigere il nuovo testo. Il M. avrebbe voluto introdurre nella liturgia un’universalistica benevolenza morale ed eliminare le componenti più chiaramente etnocentriche della preghiera ebraica. Camerini, invece, affermò la validità del filone combattivo dell’ebraismo e invocò l’importanza degli esempi biblici, le piaghe dell’Egitto o i nemici di Israele, come monito al popolo ebraico a non abbandonare la lotta per la propria sopravvivenza.
Coerentemente con questo suo approccio modernista, sempre nel 1912, il M. intervenne in una vicenda che ebbe una notevole eco all’interno del mondo ebraico dell’Italia liberale. Il rabbino maggiore di Livorno S. Colombo aveva rifiutato di celebrare il matrimonio di Adriana Funaro, una ragazza discendente da figli illegittimi, perché secondo la legge ebraica i figli di figli illegittimi, fino alla decima generazione, avrebbero potuto sposare soltanto discendenti di illegittimi. Siccome il promesso sposo non aveva avi illegittimi, il rabbino aveva impedito le nozze. La ragazza aveva portato il caso davanti al tribunale di Livorno che, tuttavia, aveva dato ragione a Colombo sostenendo che nel vietare il matrimonio, il rabbino aveva esercitato un suo diritto perché aveva applicato la legge. Ragionando sul conflitto fra diritto ebraico e spirito dei tempi, il M. si schierò in favore della volontà degli sposi e criticò apertamente gli ortodossi che difendevano la scelta del rabbino Colombo (Cavaglion, 2002, p. 113).
In quegli anni il M. collaborava, inoltre, a La Voce di G. Prezzolini, continuava a lavorare come insegnante di filosofia ed era vicino all’idealismo di Gentile. In effetti il rapporto che ebbe con Gentile fu certamente più importante di quello con Croce, che non travalicò i confini della stima cordiale: in Gentile il M. trovò un punto di riferimento. Fu il filosofo siciliano a spingerlo a occuparsi di filosofia medievale e a pubblicare la monografia Paolo Veneto e le correnti del pensiero religioso e filosofico del suo tempo: contributo alla storia della filosofia del secolo XV (Torino 1907), recensendole poi su La Critica nel 1908, e fu sempre Gentile ad aiutarlo nella carriera universitaria. Grazie ai suoi interventi, dopo aver continuato a lavorare in diversi licei italiani (era stato trasferito a Prato nel 1908, da cui era passato a Genova nel gennaio 1910 e a Torino nell'ottobre del medesimo anno) e aver ottenuto la libera docenza in filosofia all’Università di Torino, il M. nel 1914 iniziò a insegnare nel Magistero di Roma psicologia, logica e morale. Non fu un’esperienza positiva perché, a suo avviso, il Magistero non funzionava né come scuola formativa per le future maestre né come alternativa ai corsi universitari. In ogni caso il rapporto del M. con Gentile si basò su una sincera vicinanza e, nel 1912, partecipando al numero unico della Voce dedicato alla filosofia italiana, il M. mostrò la propria adesione alle teorie pedagogiche e filosofiche di Gentile.
Nel 1913 si candidò alle elezioni politiche, le prime con il suffragio universale maschile, anche se ormai i suoi rapporti con il Partito socialista si erano fatti molto tesi. Si interruppero del tutto quando il M. sposò la causa interventista, cui dedicò tutte le sue energie intellettuali, non potendo partecipare al conflitto per ragioni di salute. All’editore Formiggini, nell’agosto del 1914, scrisse: «Io auguro una sola cosa: che gli ebrei combattano valorosamente per la difesa delle rispettive nazionalità! Non c’è altro mezzo per tagliare le ali all’uccellaccio dell’antisemitismo» (Cavaglion, 1988, p. 173). Da quel momento, e proprio in nome della causa interventista e del giudizio più generale sulla prima guerra mondiale, in cui vedeva una prosecuzione delle battaglie risorgimentali, ruppe definitivamente le relazioni con i suoi compagni di partito.
Nel giugno del 1915 sulla Voce scrisse una nota molto polemica contro la socialdemocrazia tedesca e contro l’internazionalismo. Ricordando gli scritti di Marx e di Fr. Engels, il M. sostenne che le lotte dei socialisti erano nate nel 1848 come lotte nazionali per l’affermazione dei diritti e delle necessità dei popoli e fu perciò assolutamente contrario alla scelta neutralista operata dal Partito socialista italiano. Ricordando le motivazioni ideali che stavano dietro al suo interventismo, scrisse nel 1918 all'amico Ghisleri: «Io amo l’Italia follemente: l’amo più di quello che l’amerei se fossi cristiano, perché ho sempre sofferto intimamente e profondamente la mia tragedia di ebreo, e ci tenevo moltissimo che mio padre fosse un veterano della guerra ’48-’49» (ibid., p. 181).
Nel dopoguerra il M., come molti esponenti dell'interventismo democratico, guardò con indulgenza al nascente fascismo e coltivò per qualche tempo la speranza che Mussolini potesse diventare un valido difensore degli interessi nazionali. Fu un’illusione destinata a durare poco. Nel giugno del 1923, quando era segretario della Lega italo-britannica per la causa sionista, su Critica politica scrisse un articolo molto severo contro Gentile e contro il fascismo, accusando il filosofo di giustificare un regime autoritario e violento e di aver elaborato un’interpretazione della storia d’Italia del tutto scorretta. Riferendosi alla tesi gentiliana secondo cui il fascismo avrebbe proseguito l’opera iniziata con il Risorgimento, il M. negò risolutamente che nel movimento fondato e diretto da Mussolini potessero rintracciarsi analogie con il pensiero e l’opera di Mazzini.
Il 7 apr. 1924 il M. morì suicida a Roma gettandosi da una finestra di casa e lasciando la moglie Augusta Torre, che aveva sposato nel 1919.
Ancora oggi stupisce il commento di chi, come A. Gemelli, commentando la tragica morte del M., scrisse: «Un ebreo, professore di scuole medie, gran filosofo, grande socialista, F. M. è morto suicida [...]. Ma se insieme col Positivismo, il Socialismo, il Libero Pensiero e con il M. morissero tutti i giudei che continuano l’opera dei giudei che hanno crocifisso Nostro Signore, non è vero che al mondo si starebbe meglio?» (p. 506).
Opere: una bibliografia accurata degli scritti del M. è in A. Cavaglion, F. M. (1866-1924). Una biografia, Bologna 1988. Fra le sue opere principali, oltre a quelle già citate: Giacomo Leopardi e l'anima moderna, Bergamo 1898; Giuseppe Mazzini e Carlo Cattaneo, Milano 1901; Il pensiero sociale di Carlo Cattaneo, Bologna 1902; Leone Tolstoi, Modena 1911; Giuseppe Mazzini e le guerre europee, Milano 1916; Carlo Cattaneo e gli Stati uniti d'Europa, ibid. 1919; Vita dello spirito ed eroi dello spirito, Firenze 1921.
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione generale Pubblica sicurezza, Casellario politico centrale, ad nomen; D. Lattes, F. M.: il suo pensiero religioso ed ebraico, Firenze 1924; A. Gemelli, Il suicidio di F. M., in Vita e pensiero, X (1924), agosto, p. 506; Nel venticinquesimo anniversario della morte di F. M., Mondovì 1949; A. Momigliano, Terzo contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1966, pp. 843 s.; Lettere di F. M. a Benedetto Croce (1893-1926), a cura di A. Cavaglion, 1985, n. 2156, pp. 209-226; A. Cavaglion, F. M. (1866-1924). Una biografia, cit.; M. Molinari, Ebrei in Italia. Un problema di identità, (1870-1938), Firenze 1991, p. 62; A. Cavaglion, Ebrei senza saperlo, Napoli 2002, pp. 112 s.; M. Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia. Dal 1848 alla guerra dei sei giorni, Milano 2003, pp. 39, 50-52, 56 s., 80, 117, 129-133; L. Demofonti, La riforma nell’Italia del primo Novecento. Gruppi e riviste di ispirazione evangelica, Roma 2003, ad ind.; Ebraismo, sionismo e antisemitismo nella stampa socialista italiana. Dalla fine dell’Ottocento agli anni Sessanta, a cura di M. Toscano, Venezia 2007, ad ind.; I. Monti Ottolenghi, M. F., in F. Andreucci - T. Detti, Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico. 1853-1943, III, Roma 1977, pp. 516 s.