MERLO, Felice
– Nacque il 17 sett. 1792 nella frazione San Vittore di Fossano, vicino Cuneo, da Gabriele e Giovanna Armittano, in una famiglia contadina di condizioni economiche modeste ma di fama onorata: battezzato il 17 settembre come Giustino Felice Francesco, fu usualmente noto con il nome di Felice.
Compiuti in periodo francese gli studi secondari nel collegio di Fossano grazie al sostegno di parenti paterni, ottenne la stima di uno fra i migliori letterati dell’ambiente fossanese, C.M. Arnaud, per conto del quale compose, in occasione di un matrimonio di notabili locali, un sonetto e un idillio poi editi in un volume dal titolo Applausi poetici… curato dallo stesso Arnaud (Cuneo 1813). In questi anni entrò come collaboratore in uno studio notarile, esperienza che lo spinse, probabilmente nel 1814-15, a iscriversi alla facoltà di «leggi» dell’ateneo torinese dove si laureò il 14 ag. 1818 sotto la guida del canonista G. Marenco, che poco dopo lo assunse come praticante nel suo studio professionale.
Nel frattempo aveva continuato a coltivare gli iniziali interessi letterari, tanto da essere chiamato a far parte (22 ott. 1817) della Reale Accademia di Fossano, nella classe di belle lettere, per conto della quale nel 1821 collaborò con un sonetto alla raccolta di Versi della Regia Accademia di Fossano pel solenne ingresso nella città di Fossano di mons. Luigi Fransoni (ibid. 1821).
A Torino il M. svolse con profitto la professione forense e il 15 giugno 1821 ottenne dal Senato di Piemonte di patrocinare anche davanti ai tribunali supremi. A partire dal 1821-22 fu nominato tra i ripetitori privati della facoltà di leggi: essi erano ammessi dall’ordinamento universitario ad aiutare gli studenti per la preparazione degli esami, in aggiunta alle lezioni frontali dettate dai professori ufficiali. Il 28 maggio 1823 fu cooptato dietro esame nel Collegio dei dottori aggregati alla facoltà e il 31 luglio 1827 fu nominato reggente (cioè incaricato) di istituzioni civili. In questo periodo (1828) si unì in matrimonio con la torinese Giacinta Crosa, da cui non ebbe figli e che gli premorì.
Nel gennaio del 1830 divenne professore di ruolo ordinario di istituzioni civili, materia fondamentale del primo anno di giurisprudenza, e tenne tale insegnamento ininterrottamente sino al 1845.
Nella tradizione universitaria locale persisteva ancora la dettatura da parte dei docenti del testo di studio: anche il M. si adeguò all’usanza predisponendo ogni anno il programma del corso, dettando le sue lezioni e mettendo poi i fascicoli manoscritti delle Institutiones iuris civilis a disposizione degli allievi. Solo dal 1839 ne uscì una prima redazione a stampa, nel rispetto del nuovo obbligo imposto a ogni docente dall’ateneo torinese di pubblicare un testo scritto delle proprie lezioni. L’insegnamento del M. in questi anni era, naturalmente, ancora basato sul secolare sistema del diritto comune, imperniato al 1° anno di corso sulle Istituzioni giustinianee, cui si sovrapponeva la disciplina sabauda incardinata sulle Regie Costituzioni del 1770 e sulla legislazione edittale ottocentesca, che peraltro non trattava molto di diritto privato. La situazione delle fonti del diritto da illustrare agli studenti del primo anno cambiò invece notevolmente con l’a.a. 1837-38, in seguito all’emanazione del codice civile albertino (editto del 20 giugno 1837), che, in materia civilistica, intendeva sostituirsi alle fonti giuridiche precedenti.
Il M. si rivelò in proposito molto blando nel cambiamento, convinto com’era che, per un insegnamento istituzionale teso a far percepire agli studenti di 1° anno i concetti basilari del diritto, le Istituzioni giustinianee non dovessero lasciare tout court il campo all’esposizione basata sul codice civile. Da quel liberale moderato che era, legato da stima e amicizia con numerosi giuristi e intellettuali torinesi (e in specie con l’esiliato V. Gioberti), non poteva – nella visione anche ideologica del Piemonte dell’epoca – non essere favorevole ai codici rispetto all’antiquato sistema del diritto comune. Ma dalla prospettiva del suo insegnamento di 1° anno reputava che, sul piano della presentazione concettuale, le secolari Institutiones giustinianee non dovessero essere buttate, a vantaggio di un codice civile la cui disciplina poteva essere invece esaminata con maggior profitto negli anni successivi (in specie nei corsi di diritto civile). Quando, con l’a.a. 1839-40 ai docenti fu imposto di diffondere a stampa i testi dei loro corsi, le Iuris civilis institutiones apparvero in latino e furono ispirate dai concetti esposti negli anni passati dall’autore più che dal recente impianto codicologico.
Due anni dopo la situazione era ormai matura per un ulteriore cambiamento: il r. biglietto 26 giugno 1841 richiedeva l’insegnamento dei codici «patrii» in volgare: per l’a.a. 1841-42 il M. dovette dunque aggiornare il suo insegnamento e pubblicò, perciò, a dispense in italiano le Istituzioni di diritto civile (Torino 1841, ma con le ultime parti apparse solo nel 1844), da mettere a disposizione degli studenti di 1° anno di leggi della facoltà di Torino e delle sedi decentrate (Novara, Nizza, Chambéry). Il libro, ristampato con poche varianti nel 1844 e nel 1846 (e in formato ridotto nel 1848), dimostra un maggior interesse per la disciplina del codice, ma non lascia trasparire quell’entusiasmo che ci si potrebbe attendere. Per esempio, fra le «fonti del diritto positivo» include l’utilizzazione di quel diritto romano che espressamente l’art. 2415 del codice albertino voleva cancellare. E spesso l’esposizione dei concetti essenziali richiama anche i ben più risalenti passi del diritto romano, «perché una gran parte della civile sapienza romana può veramente chiamarsi la ragione scritta» (p. 44). Inoltre, il rilievo riconosciuto dal libro allo studio dei precedenti giurisprudenziali indica una presa di posizione ideale poco in armonia con i presupposti teorici antigiurisprudenziali della codificazione e con gli stessi principî ispiratori degli artt. 14-17 del codice albertino. Il M. illustrava quindi il codice, ma con un rispetto – e un po’ di rimpianto – per quelle fonti romane e giurisprudenziali che i più accesi fautori della codificazione volevano far dimenticare.
L’attività didattica del M. fu comunque sempre molto apprezzata dal magistrato della Riforma, tanto che egli nel 1844 ottenne un particolare riconoscimento per l’anzianità di ruolo (r. biglietto 29 agosto) e nel 1845 ricevette un aumento di stipendio di 400 lire annuali. Infine nel 1845 passò alla cattedra di diritto civile della facoltà giuridica con uno stipendio annuale globale di 2500 lire: era nel complesso la cattedra più prestigiosa – e meglio retribuita – della facoltà.
Tale insegnamento durò però solo un anno, a causa della «riforma Alfieri», voluta dal conte Cesare Alfieri di Sostegno, titolare del neocostituito ministero della Pubblica Istruzione, sulla base di un progetto elaborato da una commissione presieduta da F. Sclopis e della quale aveva fatto parte lo stesso M.: al corso ordinario quinquennale obbligatorio per la laurea in giurisprudenza la riforma aggiungeva un biennio «completivo» per i laureati che aspiravano all’aggregazione al Collegio dei dottori della facoltà e a un’eventuale futura carriera di docente universitario. In seguito a questa riforma il M., a partire dall’a.a. 1846-47, passò – con la stessa retribuzione precedente – alla cattedra di principî razionali del diritto (terzo anno del corso ordinario) ed ebbe anche l’incarico della nuova materia di diritto pubblico e internazionale impartita nel biennio, ma questo insegnamento durò solo un anno. L’innovazione sembra risultasse gradita al M., interessato più all’esposizione dei principî generali e alla filosofia del diritto che a un corso di diritto civile, in specie se d’impostazione esegetica. L’insegnamento fu però tenuto per due soli anni: rivelatosi concettualmente piuttosto difficile, il r. editto 31 maggio 1848 lo sostituì al terzo anno con quello di diritto commerciale e lo spostò al solo corso completivo riservato ai laureati, fors’anche in considerazione dell’impegno nel frattempo assunto dal M. di presiedere di fatto la Camera dei deputati dal maggio 1848. Nell’a.a. 1848-49 egli lo terrà saltuariamente, per gli impegni politici prima, poi per la malattia, sino alla morte.
Il nuovo clima costituzionale modificò però profondamente anche la vita sino ad allora tranquilla del M. che, liberale moderato e molto amico di Gioberti, si candidò per la Camera dei deputati nel collegio di Fossano, ove aveva conservato forti legami e vasta stima, e riuscì eletto in modo quasi plebiscitario (con 322 voti su 350 votanti). Non solo sedette quindi sin dall’inizio (8 maggio 1848) nella Camera subalpina, ma addirittura fu chiamato quale vicepresidente vicario a dirigerne i lavori dal 19 maggio al 25 luglio al posto di Gioberti, il quale non la presiedette mai in questi mesi.
La mitezza di carattere del M. favorì l’avvio di una presidenza equilibrata ma debole, in un sistema parlamentare quale il subalpino che, ispirandosi alla tradizione inglese, presumeva al Senato una presidenza super partes, ma alla Camera ne ammetteva una di maggiore influenza politica. Nei due mesi della sua presidenza il M., legato pure personalmente a numerosi parlamentari giobertiani, si rivelò troppo permissivo di fronte all’irruenza di parecchi interventi, alle turbolenze delle tribune o al divampare di alcune polemiche; fu bene attento, tuttavia, nel clima sovreccitato dei moti del Quarantotto e della successiva guerra d’indipendenza, a non intralciare la piena libertà di espressione dei deputati.
Di fronte ai rovesci militari, la Camera votò a fine luglio 1848, con la delega dei pieni poteri al re, un indirizzo «di devozione e di fiducia» allo stesso «nella gravità degli eventi che commuovono tutti gli animi», incaricando una delegazione di quattro parlamentari capeggiata dal M. di portarlo personalmente al campo a Carlo Alberto. Ma, ai primi di agosto, dopo la concessione dei pieni poteri dal Parlamento al re, nel timore di un armistizio il presidente del Consiglio Gabrio Casati, accompagnato da Gioberti, si recò da Carlo Alberto al campo di Vigevano: di fronte alla contrarietà di Carlo Alberto a proseguire la guerra e a incaricare Gioberti di capeggiare un nuovo governo, Casati diede le dimissioni, sue e di tutto il Consiglio (8 agosto). Poche ore prima a Torino il luogotenente principe Eugenio Emanuele di Savoia aveva incaricato l’ex ministro O. Thaon di Revel e il M. di recarsi dal re, per esprimere la disponibilità di una certa parte dell’élite piemontese ad accettare l’ineluttabilità dell’armistizio. Nel pomeriggio dello stesso giorno il re accolse con un certo sollievo questa seconda delegazione, nella quale il M. rivestiva senza dubbio un ruolo di rilievo istituzionale; il giorno successivo fu firmato l’armistizio di Salasco (9 agosto). Nel nuovo governo Alfieri di Sostegno, costituito pochi giorni dopo, il M. fu nominato ministro della Giustizia (19 agosto) con l’interim dell’Istruzione (sino al 27 agosto). Era stato lo stesso re che da Vigevano aveva espresso per iscritto l’auspicio che nella nuova compagine governativa entrasse Gioberti e che in caso di rifiuto di quest’ultimo (cosa che avvenne) si scegliesse il M., ritenuto di area giobertiana.
Sdegnato per il precedente rifiuto del re dell’8 agosto, Gioberti fu altrettanto sdegnato della disponibilità del M., sia riguardo all’armistizio sia a entrare nel governo: attaccato da lui con violenza, il M. si difese in Parlamento e sulla stampa (in specie nel cavouriano Il Risorgimento dell’11 sett. 1848), sottolineando l’ineluttabilità della sconfitta militare e la necessità di salvare il Regno. Fu quindi rieletto a Fossano, ma soprattutto il 7 nov. 1848 nelle prime elezioni per la designazione del Consiglio comunale di Torino riscosse un vivo successo, risultando il nono eletto e precedendo lo stesso Gioberti, C. Balbo e il conte C. di Cavour.
Il M. restò ministro della Giustizia sino al 4 dic. 1848, quando il governo cadde perché in minoranza alla Camera. In poco più di tre mesi, in una situazione personale difficile per i continui attacchi di Gioberti e della stampa da lui ispirata, portò comunque a termine come ministro qualche iniziativa di un certo rilievo, anche politico, ad attestare in concreto il nuovo clima liberale maturato nel Regno.
Tali appaiono la modificazione in senso liberale del codice penale (26 settembre), l’istituzione di un tribunale di polizia a Torino (7 ottobre), la modifica del codice penale militare con alcune garanzie costituzionali (10 ottobre), l’estensione alla Sardegna del codice di procedura penale del 1847 (3 ottobre) e di quello penale militare (12 ottobre), l’estinzione delle sentenze di contenuto politico emesse tra il 1821 e la proclamazione dello Statuto (14 ottobre).
In qualità di ministro controfirmò, inoltre, la cacciata dei gesuiti dallo Stato (25 agosto), anche se non si sa con quanto entusiasmo.
In seguito allo scioglimento della Camera dei deputati decisa dal re su richiesta del nuovo presidente del Consiglio Gioberti nel dicembre 1848, si tornò a votare il 22 genn. 1849. Il M. ripropose la propria candidatura con un messaggio Agli elettori del collegio di Fossano, Centallo e Villafalletto, appassionata difesa delle istituzioni, della linea liberal-moderata e della sua stessa persona: ottenne un significativo ulteriore successo, anche se l’andamento generale delle elezioni rafforzò le posizioni giobertiane. Ciò non facilitò la ripresa della sua attività di parlamentare, anche perché le sue condizioni di salute, già precarie negli inverni precedenti, si aggravarono. All’indomani della sconfitta di Novara le sue condizioni peggiorarono ancora, tanto da fargli chiedere, il 27 marzo 1849, un congedo dai lavori parlamentari.
Il M. morì a Torino il 30 marzo 1849.
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G.S. Pene Vidari