MASTRANGELO, Felice
– Nacque il 6 apr. 1773 a Monte Albano (oggi Montalbano Jonico), terra feudale della provincia di Basilicata, da Maurizio, medico, appartenente a una casata che aveva dato molti membri agli organi di governo comunitari e alla locale chiesa ricettizia, e da Vincenza Izzo, appartenente a una famiglia napoletana che si era stabilita a Monte Albano verso la metà del Seicento e si era distinta nell’esercizio del notariato e dell’avvocatura.
Il M. compì i primi studi nel paese natale, sotto la guida dell’abate N.M. Troyli, cultore di antiquaria, in passato corrispondente di A.S. Mazzocchi e del cardinale G.V.A. Ganganelli (dal 1769 papa Clemente XIV). Negli stessi anni, Troyli si occupò anche della formazione di Francesco Lomonaco, nato anch’egli a Monte Albano nel 1772. Trasferitosi a Napoli, il M. frequentò i corsi di medicina all’Università e si laureò il 2 giugno 1792.
A seguito della leva forzosa bandita il 2 sett. 1798, fu arruolato nell’esercito napoletano e, sul finire di quell’anno, partecipò alle disastrose operazioni belliche con cui i Borbone si proponevano, per un verso, di mettere in atto i loro progetti di guerra antifrancesi, per un altro, di ingrandire territorialmente il Regno a danno dello Stato della Chiesa: propositi, questi, che avevano ispirato palesemente la politica estera del Regno anche dopo la conclusione della pace di Parigi del 1796.
Il 22 genn. 1799, allorché i giacobini napoletani si impossessarono di Castel Sant’Elmo, il M. aveva già fatto ritorno nella capitale. Fu tra i giovani ufficiali sui quali già al momento dell’arruolamento avevano fatto breccia le idee rivoluzionarie e alle prime avvisaglie di sconfitta disertarono.
Questi giovani, avendo vissuto l’esperienza reazionaria dei processi del 1794 e del 1795, vedevano nella disfatta napoletana – e quindi dell’armata di cui facevano parte – l’inizio di un processo di rigenerazione politica e sociale che avrebbe condotto anche a Napoli all’affermazione delle nuove idee costituzionali e di uguaglianza giuridica. Perciò guardavano con simpatia ai battaglioni francesi che contrastavano l’iniziale avanzata borbonica in territorio pontificio e nelle cui file militavano loro vecchi compagni di logge massoniche e di club giacobini.
All’indomani del 2 febbr. 1799, giorno in cui anche a Monte Albano fu innalzato l’albero della libertà e furono abbattute le insegne della monarchia, il M. tornò nel paese natale, dove nella casa della gentildonna Rachele Cassano tenne pubbliche orazioni a favore dell’ordine repubblicano. La Cassano, affrettatasi a far ritorno da Napoli, dove aveva fissato la sua residenza, trasformò il palazzo di famiglia in una vera e propria sala patriottica, aperta ai più accesi sostenitori del nuovo regime politico.
A sostegno del governo rivoluzionario si schierarono anche il padre e un cugino del M., suo omonimo. Il primo, con il ritorno dei Borbone, subì il sequestro dell’intero patrimonio: l’accusa che pendeva a suo carico, secondo il Notamento dei rei di Stato, riguardava l’avere scritto, alla notizia dell’invasione dei francesi, una lettera al figlio ufficiale esortandolo a mantenersi fedele alla Repubblica partenopea. Diversa sorte riguardò il cugino Felice, che secondo la medesima fonte riuscì a scampare alla pena del capestro, ma non all’esilio: il 1° agosto 1799.
Il M. rimase a Monte Albano fino al 15 marzo 1799, allorché fu nominato generale del Dipartimento del Bradano e inviato, su comando del governo provvisorio, a Matera. Qui trovò come nuovo governatore il sacerdote Nicola Palomba, il fervente giacobino che in occasione dell’innalzamento dell’albero della libertà a Napoli aveva tenuto il discorso ufficiale. Da quel momento il destino del M. fu indissolubilmente legato a quello dell’ecclesiastico: i due condivisero le medesime scelte di campo e la stessa visione politica, e furono uno al fianco dell’altro anche al momento della morte.
Al M. fu affidata la sovrintendenza delle diverse guardie civiche costituitesi spontaneamente su un territorio assai vasto e quanto mai disomogeneo: il Dipartimento assegnatogli comprendeva i Cantoni di Altamura, Molfetta, Bisceglie, Trani, Barletta, Montepeloso, Potenza, Marsiconuovo, Montemurro, Stigliano e Pisticci, aree caratterizzate da diversa conformazione naturale e da situazioni sociali ed economiche molto differenti. Dopo il ritorno di Matera all’obbedienza borbonica i due commissari furono costretti a ripiegare su Altamura, dove il governo locale era ancora di fede repubblicana. In quella città si misero subito in netta opposizione sia con gli indirizzi assunti dalla Municipalità sia con quanto sostenuto dal prelato Gioacchino De Gemmis. Entrambi sostennero in seno al governo rivoluzionario una linea intransigente, per niente incline al dialogo con la fazione realista. Ad Altamura, invece, dall’8 febbraio, giorno in cui presso il castello federiciano era stato piantato l’albero della libertà, i nuovi amministratori avevano sempre evitato lo scontro diretto con la parte borbonica e avevano tentato di coinvolgere la fazione avversa nel nuovo sistema politico, anche mediante la cooptazione nelle file della nascente guardia civica. Al contrario, l’arrivo di Palomba e del M. segnò l’inizio di una nuova stagione, caratterizzata da processi e minacce di pubbliche esecuzioni, che ebbero come effetto immediato quello di generare una profonda lacerazione e un crescente clima di diffidenza reciproca tra i membri della Municipalità e i due commissari dipartimentali. Momenti di forte tensione si innescarono, per esempio, in occasione degli arresti e dei processi istituiti ai danni di tre frati domenicani del locale convento, tutti accusati di cospirazione con i realisti.
Nel clima segnato da ripetuti proclami e minacce inviati dagli amministratori di Matera a quelli di Altamura, quando Matera era ormai una vera e propria roccaforte sanfedista (il 4 maggio vi giunse il cardinale Fabrizio Ruffo con numeroso esercito e artiglieria), lo scontro fra le due città divenne inevitabile. Nelle giornate dell’8 e 9 maggio, poco più di 1000 altamurani, male armati e con pochi cannoni, tentarono di fronteggiare gli assalti di circa 20.000 uomini, per lo più «soldati di scorreria», giunti dalla Calabria allettati dalla possibilità di lauti saccheggi. Dopo aver rifiutato ogni proposta di resa, ma essendo consapevoli di non poter resistere a lungo, il M. e Palomba decisero di abbandonare Altamura e battere in ritirata in direzione di Napoli. Prima di fuggire non mancarono di passare per le armi tutti i prigionieri detenuti nel convento di S. Francesco – per lo più uomini catturati durante le continue scaramucce con la realista Matera –, provvedendo alla sommaria sepoltura dei loro corpi all’interno delle tombe dei religiosi. I due commissari diedero la possibilità di abbandonare l’abitato anche a tutti i cittadini che lo desiderassero: impartirono l’ordine di aprire le due porte delle mura nel versante opposto a quello dove si svolgevano le operazioni belliche, così da consentire, a chi lo volesse, di poter tentare la via della salvezza. Il 10 maggio i Calabresi di Ruffo entrarono in una Altamura semideserta, abbandonandosi a un cruento saccheggio, che costituisce uno degli episodi più drammatici e spietati del sanfedismo.
Il M., sfuggito all’eccidio, non si salvò dalla repressione che seguì al ritorno di Ferdinando IV di Borbone. Il 14 ott. 1799 fu impiccato nella piazza del Mercato a Napoli. Sul patibolo insieme con lui salì Palomba. Il corpo fu tumulato nella chiesa di S. Alessio al Lavinaio.
La linea dell’intransigenza seguita dal M. e da Palomba nelle scelte politiche compiute in qualità di commissari dipartimentali e la decisione di abbandonare la difesa di Altamura sono state lette dalla storiografia in termini decisamente negativi, senza che fosse approfondito il contesto in cui le loro decisioni maturarono, che era quello di una vera e propria guerra civile.
Fonti e Bibl.: O. Serena, Altamura nel 1799, Altamura 1899, passim; V. Bisceglia, Memorie storiche, a cura di G. Ceci, Trani 1900, passim; R. Sarra, La rivoluzione repubblicana del 1799 in Basilicata…, Matera 1901, p. 23; P. Rondinelli, Montalbano Jonico ed i suoi dintorni, Taranto 1913, pp. 135 s.; T. Pedio, Diz. dei patrioti lucani, III, Bari 1979, pp. 280 s.; A. Lucarelli, La Puglia nella Rivoluzione napoletana del 1799, a cura di M. Proto, Manduria 1998, pp. 419-462 passim; G. Pupillo, Altamura nel 1799, in Patrioti e insorgenti in provincia: il 1799 in Terra di Bari e Basilicata. Atti del Convegno, Altamura-Matera… 1999, a cura di A. Massafra, Bari 2002, pp. 342-344, 437, 481, 484 n.