FORESTI, Felice Eleuterio
Nacque a San Biagio, frazione d'Argenta (nell'odierna provincia di Ferrara), il 20 febbr. 1789, da Bonafede, possidente, e da Angelica Zucchini. Compiuti privatamente i primi studi, fu iscritto al liceo di Ferrara, dove maturò un gusto per le lettere che nemmeno l'ingresso (1805) nella facoltà di giurisprudenza dell'ateneo bolognese e poi la professione di avvocato e l'entrata in magistratura avrebbero cancellato. Intanto, a 16 anni, si era arruolato come volontario per combattere coi Francesi del maresciallo A. Massena la campagna che si sarebbe chiusa con la presa di Venezia; e si sarebbe raffermato se il padre, che al tempo della Cisalpina si era schierato con gli Austriaci, non avesse insistito per riportarlo a casa.
In un'epoca di grande fermento per la fine dell'odiato potere temporale non tutti, a Ferrara, vedevano nella presenza dei Francesi un'occasione di sviluppo civile oltre che economico; c'era anzi chi (e il F. tra questi), attestato su posizioni ultrademocratiche, considerava il regime napoleonico come una forma qualunque di dominazione straniera e sentiva nascere in sé gli embrioni di una coscienza nazionale che le vicende positive del Regno Italico potevano tacitare solo provvisoriamente. Nel F., come documenta una sua Autobiografia manoscritta che si conserva nella Biblioteca apostolica Vaticana (Mss. Patetta, n. 1879). certi sentimenti antifrancesi erano cominciati a serpeggiare già al tempo della repressione armata delle insorgenze del 1809 allorché, appena laureato e aspirante all'avvocatura, era stato incaricato della difesa d'ufficio di alcuni "banditi". L'ingresso in magistratura, avvenuto in forza di un decreto con cui il viceré d'Italia lo nominava giudice di pace a Crespino, presso Rovigo, non modificò il suo atteggiamento di avversione per lo straniero, austriaco o francese che fosse. Perciò la fine dell'epoca napoleonica non destò in lui particolare rimpianto, e il ritorno degli Austriaci fu percepito come esiziale, ma non al punto da provocare nostalgie per il potere papale: "I giovani - dirà poi - preferivano il governo civile austriaco al teocratico, mostruoso pontificio. lo era con essi. Dei due mali l'austriaco era il minore" (ibid.): donde la scelta di restare a Crespino, cioè in territorio austriaco, scelta compensata nel 1817 con la promozione a pretore.
Sin dall'inizio il fatto di rivestire una carica pubblica così delicata non parve al F. incompatibile con l'adesione a una delle organizzazioni settarie che subito dopo la Restaurazione avevano cominciato a coprire d'una fitta trama la penisola, proponendosi come espressione del disagio della borghesia medio-alta di fronte alle forme vessatorie assunte dalla dominazione austriaca e qualificandosi come struttura portante per un disegno di conquista della libertà e dell'indipendenza. Forse non ponderò bene le conseguenze dei suoi atti quando, nel 1817, accettò di portare la cospirazione nei domini austriaci; certo è che, appena affiliato alla carboneria, esplicò con tale entusiasmo il compito affidatogli che in poco tempo la sua zona si coprì di "vendite" (a Rovigo quella centrale, a Fratta, Polesella e Crespino quelle minori) e la pratiche carbonare proliferarono.
Va tenuto inoltre presente, sulla base delle confessioni successivamente rese dallo stesso F. e dei suoi ricordi autobiografici, che pochi mesi dopo il suo esordio in cospirazione si procedette a una riforma della carboneria attraverso la stesura di un testo programmatico, la cosiddetta Costituzione latina, che chiariva bene la natura eversiva della setta e affidava a una seconda struttura, la Guelfia, compiti di direzione teorica tali da confinare la carboneria vera e propria in una ruolo puramente esecutivo. Alla Guelfia, da lui raffigurata più tardi come "l'anima, la parte pensante della cospirazione" (ibid.), il F. attribuiva - ma senza mai uscire dal vago - propositi di tipo ultrademocratico e repubblicano che sembra lo trovassero d'accordo e che, riscuotendo larghi consensi, gli diedero la certezza che la riuscita non fosse lontana.
Messe in guardia dalla scoperta della rete maceratese (1817) e dal conseguente processo romano, le autorità austriache passarono subito alla repressione arrestando il 16 dic. 1818 A. Villa, capo della vendita di Fratta Polesine. Da questi ottennero con le prime ammissioni anche alcune chiamate di correo tra cui quella del F., incarcerato il 7 genn. 1819 insieme con personaggi quali A.F. Oroboni e C. Munari.
Fino ad allora il F. si era sentito abbastanza al sicuro, anche per l'alibi che si era precostituito facendosi assegnare un'inchiesta sui carbonari dello Stato pontificio e che gli aveva consentito libertà di movimenti e di contatti. Come magistrato, poi, conosceva bene le scappatoie che il codice austriaco lasciava all'imputato che non fosse reo confesso: perciò, una volta in carcere, attuò vari espedienti per porsi al riparo da indagini che, acquisendo giorno dopo giorno nuovi elementi di accusa, divenivano sempre più stringenti. Nella sua posizione rischiava una condanna per alto tradimento, e ciò gli imponeva di mantenere il sangue freddo e di respingere, anche nel regime di isolamento cui fu sottoposto a Venezia durante la detenzione nel convento di S. Michele, ogni addebito. In tale condizione è vero che, forse dietro dettatura, il F. scrisse una lettera in cui si diceva pronto a collaborare in cambio di un alleggerimento delle proprie responsabilità: in essa alcuni storici come il Luzio e il Sandonà avrebbero visto non lo stratagemma di un disperato ma la prova di una grande abiezione morale. Tuttavia di delazioni vere e proprie del F. non resta traccia consistente, e solo si riscontra nelle sue deposizioni una certa propensione a soddisfare la curiosità più spiccata degli inquirenti - quella sui legami internazionali della carboneria - chiamando in causa personaggi e governi (Carlo Alberto e la Francia in primo luogo) che nessun danno immediato avrebbero potuto ricevere dalle sue confessioni. U poche chiamate di correo compiute dal F. riguardavano cospiratori come A. Solera e il Villa, che con i loro costituiti erano stati all'origine delle sue disavventure.
Per sfuggire all'imputazione di alto tradimento, fatta balenare prima dalla polizia poi dalla Commissione speciale appositamente istituita da Vienna, il F. arrivò a concordare con i compagni detenuti una versione degli avvenimenti che, rinnegando le confessioni rese, attribuiva alla carboneria del Polesine i caratteri di un'organizzazione filantropica sciolta per giunta già all'inizio del 1817, quando cioè il F. non era ancora stato fatto pretore. La Commissione speciale, di cui era magnapars il giudice A. Salvotti, capì che dietro le ritrattazioni c'era una linea difensiva, ma fu in grado di smontarla solo dopo che il rinvenimento di una copia della Costituzione latina, dal F. firmata col nome di Sallustio, provò la natura eversiva della carboneria. Vanificati così tutti i propri sforzi, e malgrado altre tardive offerte di pentimento, sulla base della relazione Salvotti il F. si trovò nel settembre del 1820 condannato a morte per alto tradimento, pena poi confermata dal Senato lombardo-veneto il 18 maggio 1821. Commutata dall'imperatore Francesco I in venti anni di carcere duro da scontare allo Spielberg, la decisione, assunta il 29 ott. 1821, fu notificata al F. solo quaranta giorni più tardi, quando, provato dall'attesa, aveva gia tentato il suicidio colpendosi al petto con un coltellino e ingoiando i frammenti di una bottiglia.
Dal carcere della Moravia, dove i condannati furono rinchiusi nel gennaio del 1822, poche voci trapelarono sulle condizioni di vita dei detenuti, quelle condizioni che più tardi avrebbero illustrato memorialisti come S. Pellico, A.-Ph. Andryane e G. Pallavicino. Il F. dal canto suo, malgrado "l'aria di robustezza e di energia" che gli si volle attribuire (Andryane, III, p. 108), visse un'esperienza durissima e acquistò proprio in questi anni, con un comportamento molto dignitoso, gran parte del prestigio di cui avrebbe goduto in seguito. Tuttavia, stando almeno ad alcuni rapporti di funzionari austriaci, sembra che nel 1832 nessun compagno di pena volesse "più saperne di lui pel suo temperamento aggressivo, pel suo fare petulante e provocatorio" (Sandonà, p. 327) e che, di lì a poco, egli riferisse ai sorveglianti il tenore di alcune conversazioni fra detenuti; ma la cosa mal si concilia con la stima che dallo Spielberg in poi avvolse la sua figura, cui si possono addebitare con certezza solo le periodiche suppliche di grazia rivolte all'imperatore, prassi comunissima tra i condannati e irrilevante di fronte ai 18 anni passati in carcere.
La liberazione venne, con un modesto anticipo sulla scadenza prevista, dopo la morte di Francesco I, quando cioè il 4 marzo 1835 il neo imperatore Ferdinando annunziò il proposito di offrire ai condannati del '21 la possibilità di sostituire alla pena da espiare la deportazione negli Stati Uniti d'America. Un anno e sette mesi dopo il F. e molti dei suoi compagni sbarcavano a New York, accolti fraternamente da una comunità italiana nella quale spiccava P. Maroncelli, che, avendoli preceduti di un paio di anni, li aiutò come potè nella ricerca di una prima sistemazione. Grazie a lui, ad esempio, il F. trovò qualche allievo per le sue lezioni di italiano, e cio, costringendolo a rispolverare la propria formazione umanistica, lo preparò anche al lavoro di docente che gli avrebbe assicurato un buon tenore di vita nei vent'anni che sarebbe durato il suo soggiorno americano. Morto, infatti, nel 1838 Lorenzo Da Ponte, all'inizio del 1839 il F. fece domanda di sostituirlo come professore di lingua e letteratura italiana nel Columbia College di New York, incarico al quale nel 1842 avrebbe affiancato l'altro conferitogli dalla New York City University.
Non erano grandi impegni, visto l'esiguo numero di frequentanti, ma al F. servivano per mantenere vivo il ricordo della patria lontana e per celebrarne la vitalità in campo culturale, rendendo al contempo più credibili le sue aspirazioni all'indipendenza. La Grammatica e la Crestomazia italiana che pubblicò nel 1846 erano, perciò, strumenti di studio ma anche veicoli di propaganda che, agitando il motivo anticlericale, suscitavano le simpatie di un pubblico, quello degli intellettuali, cui pareva inconcepibile che parte dell'Italia fosse ancora sotto il governo del papa.
Sospinto quasi naturalmente verso il mazzinianesimo, nel 1841 il F. fondò con G. Albinola, altro reduce dello Spielberg, la Congrega newyorkese della Giovine Italia e avviò una capillare opera di penetrazione nell'emigrazione italiana su un'area che comprendeva anche Cuba, il Messico e le Indie Occidentali.
Anche se non aveva compiuto del tutto il distacco ideale dalla carboneria - ancora nel 1845 ne rivendicava i meriti storici, ne giustificava i metodi e ne sottolineava la diffusione in seno alla società italiana della Restaurazione - pure la sua dedizione alla causa e la solerzia condita di un efficientismo tutto americano piacquero molto al Mazzini, che tra i reduci dello Spielberg vedeva in lui "l'unico che non abbia mutato di volontà ed energia" (lett. del 28 marzo 1842 a G. B. Cuneo, in Ediz. naz. degli scritti, XXIII, p. 90). Più tardi, conosciutolo di persona in occasione del primo viaggio del F. in Europa (estate 1843), avrebbe capito che l'antico capo carbonaro non si sarebbe accontentato di essere usato come semplice percettore di sottoscrizioni: "E uomo di forme un po' ... eccellente, ma vecchio, ed ama, come chi ha sofferto, d'essere un po' lodato", avrebbe scritto a un collaboratore (lett. del 23 luglio 1843, ibid., XXIV, p. 193), non immaginando che proprio dal F. sarebbero venute, col pretesto di qualche appunto alle carenze organizzative della Giovine Italia, le critiche più aspre al suo "dispotismo" e la richiesta di una gestione meno verticistica del movimento rivoluzionario.
Gli sviluppi del 1846-49 misero temporancamente a tacere questo dissenso (espresso dal F. in una sua lettera a P. Giannone del 9 maggio 1845, in Museo centr. del Risorgimento, b. 547/60) e anzi indussero il F. a raddoppiare gli sforzi per legare alla causa italiana tanto l'opinione colta americana quanto la sparsa emigrazione politica italiana. Manifestazioni pubbliche, collette, diffusione della stampa di partito, tutto gli serviva per raccogliere consensi in una febbre d'azione e di concretismo che lo spingeva a guardare ora al Garibaldi, reso popolare dalle imprese sudamericane, ora al Pio IX del nuovo corso riformatore. Finalmente, nel giugno del '48, sentì giunto il momento di tornare in Europa. Il nuovo viaggio, cominciato tra tante speranze e proseguito con una sosta a Parigi, dove protestò insieme con l'Associazione nazionale italiana contro il mancato aiuto della Francia al Piemonte, si concludeva nella delusione dell'intervento francese contro la Repubblica Romana. Di nuovo nell'America settentrionale, i suoi ripensamenti sul dopo '48 si intrecciarono con gli sfoghi antimazziniani di Garibaldi, con il quale aveva stretto solida amicizia dopo che nel luglio del 1850 gli aveva organizzato festose accoglienze per l'arrivo a New York. Ma non era ancora giunta l'ora della rottura definitiva con Mazzini al quale il F. continuava a guardare con deferenza vedendo in lui soprattutto la vittima della brutalità di Luigi Napoleone. Perciò riprese a collaborare attivamente con lui come fiduciario per l'America del Comitato nazionale italiano; mutato però il clima, gli risultava molto più difficile che in passato ottenere, oltre alle simpatie, anche qualche finanziamento. D'altra parte la stanchezza per una strategia insurrezionale che trovava velleitaria e improduttiva lo induceva a pensare che la rigidità del radicalismo mazziniano aveva fatto il suo tempo, e che bisognava tentare il possibile per recuperare alla democrazia Garibaldi, parendogli assurdo che si rinunziasse alla sua capacità di raccogliere volontari e portarli a combattere. Si sforzò allora di mediare con Mazzini per un superamento del dissidio: il fatto che il suo appello restasse inascoltato gli fece capire che non c'era più spazio per l'ottimismo. Quanto a Mazzini, "tu te lo immagini perfetto, io no", confidava l'11 apr. 1854 ad A. Lemmi (Roma, Museo centr. del Risorgimento, b. 397/75), spiegando di non nutrire più per il vecchio repubblicano "l'amore esaltato" di un tempo, tanto più che circa un anno prima, nominato console statunitense a Genova, il F. si era visto negare il gradimento del governo sardo proprio a causa della sua risaputa militanza repubblicana. Oltre ad amareggiarlo moltissimo, questa vicenda, che aveva provocato una piccola crisi nelle relazioni sardo-statunitensi, fu anche all'origine della sua decisione di tornare definitivamente in Italia (giugno 1856).
Pensava probabilmente che, stabilendosi negli Stati sardi, sarebbe riuscito a curare meglio i propri interessi, e qualche speranza in proposito dovette venirgli da L. Valerio, autorevole esponente della Sinistra subalpina col quale era entrato in contatto tramite Garibaldi. Contemporaneamente sentiva approssimarsi un momento importante per le sorti della penisola e voleva mettersi a disposizione di chi fosse effettivamente in grado di capeggiare quella lotta per l'indipendenza che lo assillava da quarant'anni. Trovò un'intesa concorde con G. Pallavicino, l'antico compagno dello Spielberg impegnato ora a mettere in piedi con il Partito nazionale un organismo che convogliasse verso una monarchia sabauda rinnovata, e cioè aperta alle esigenze di una politica unitaria, le simpatie della parte meno ideologizzata della democrazia italiana. Il F. divenne l'ambasciatore di questo progetto negli ambienti repubblicani di Genova e svolse il suo compito con il piglio manageriale e un po' cinico di chi, deluso dal mazzinianesimo, non coglieva più la dimensione etica di quella predicazione e vedeva nell'Unità non il punto d'anivo della lotta d'un popolo finalmente cosciente della sua missione storica, ma il risultato di una prova di forza, soprattutto militare, che avesse nell'Austria il primo dei due contendenti: quale dovesse essere il secondo, se il Piemonte sabaudo o l'insurrezione popolare di stampo mazziniano, per il F. non parve mai contare molto, dato che la perdita della fede repubblicana non era stata in lui così forte da spingerlo verso la monarchia: quella sabauda aveva per lui solo il merito di disporre di un forte esercito. Allo stesso modo la pensavano molti dei genovesi che, infatti, opposero un muro di diffidenza e un atteggiamento attendista ai suoi inviti ad aderire al Partito nazionale. Si rivelò infine decisiva la sua intuizione dell'importanza trascinatrice di Garibaldi, che ai suoi occhi era in grado di costruire la sola iniziativa insurrezionale che avrebbe portato alla guerra contro l'Austria il Piemonte. Secondo il F. anche Mazzini avrebbe fatto bene ad accodarsi a tale prospettiva, che comunque poteva prescindere dal suo consenso, e che prese a realizzarsi il giorno in cui, il 13 ag. 1856, Cavour ebbe con Garibaldi un colloquio (ve lo aveva accompagnato lo stesso F.) che gettò le basi per la collaborazione di due anni più tardi.
Mentre si compiva questo lento e delicato lavorio diplomatico, veniva meno l'ostracismo di Torino per una eventuale nomina del F. a console statunitense a Genova. Al F. la cosa premeva moltissimo non solo per una questione d'orgoglio o per la promozione sociale che ne avrebbe ricavato ma soprattutto perchè lo lusingava enormemente l'idea di rappresentare nella sua patria d'origine gli Stati Uniti, il paese che aveva scoperto d'amare proprio dopo il ritorno in Italia, quando si era detto imprevedibilmente "tormentato dalla nostalgia per la patria adottiva ... per le sue istituzioni, pel suo popolo" (lett. a G. Gajani del 4 ag. 1856, in Museo centr. del Risorgimento, b. 65/28/7). Da Genova prese allora a tempestare i suoi amici americani perché lo raccomandassero al nuovo presidente J. Buchanan. Finalmente, nella primavera del 1858, la sospirata nomina arrivava, appena in tempo per coronare un'esistenza che si concludeva tre mesi più tardi, il 14 sett. 1858, a Genova, in seguito a una breve malattia. Ai suoi funerali assistettero gli ufficiali di una fregata americana ancorata nel porto che accompagnarono fino al cimitero di Staglieno la bara avvolta in una bandiera a stelle e strisce.
Fonti e Bibl.: A Roma, nel Museo centr. del Risorgimento, si conserva (b. 547/61/2) la copia dattiloscritta di un appunto dei F. da cui risulta che ai primi del 1852 egli aveva dato alle fiamme tutta la corrispondenza ricevuta dal 1836 al 1851 salvando solo le lettere dei personaggi più illustri. Talune di queste lettere sono poi state pubblicate privilegiando in genere quelle degli anni della maturità: così è per M. Menghini, Lettere di G. Garibaldi, Q. Filopanti ed A. Lemmi a F. E e lettere di E F. a G. Lamberti e a G. Mazzini, Imola 1909, come per G. Maioli, F. fondatore della Soc. nazionale (lettere autografe di G. Pallavicino a F. E 1856-1858), in Rass. stor. del Risorgimento, XV (1928), 1, pp. 1-42, che integra il materiale pubblicato a suo tempo da B.E. Maineri, D. Manin e G. Pallavicino. Epist. politico (1855-1857), Milano 1878, pp. 91, 97, 117, 126, 128, 133, 146 s., 161, 163 s., 166, 172, 185, 196, 200, 214, 217, 221, 224, 226, 234, 239, 242, 247, 285, 295, 300, 351-376, 529, e dalle Memorie di G. Pallavicino..., Torino 1895, pp. 247 s., 256 s., 263, 265 s., 288 ss., 295 s., 336, 352, 384 ss., 409 ss., 449, 496 s.; quanto a Mazzini, per le sue lettere si rinvia all'Ediz. naz. degli scritti (per la consultazione cfr. gli Indici, a cura di G. Macchia, II, Imola 1972, ad nomen) con il supporto del Protocollo della Giovine Italia, I-VI, Imola 1916-22, ad Indices, mentre di Garibaldi si veda l'Epistolario, I e III, Roma 1973-1981, ad Indices. Lettere del F. si leggono invece, oltre che in appendice a B.E. Maineri, op. cit., pp. 351-376, in: P. Antolini - C. Antolini, Lettere di F. F., Argenta 1903; in R.U. Montini, Sei lettere ined. dei carbonari polesani..., in Rass. stor. del Risorgimento, XIII (1955), pp. 384 s.; e in S. Candido, L'azione mazziniana nelle Americhe e la Congrega di New York della "Giovine Italia" (1842-1852), in Boll. della Domus mazziniana, XVIII (1972), pp. 139-175 (si tratta delle lettere a G.B. Cuneo); di notevole interesse risultano quelle, solo in parte edite, conservate a Roma nel Museo centr. dei Risorgimento, bb. 547/60 (a P. Giannone), 65/28 (a G. Gajani, alcune delle quali pubbl. da A. Varni, Alle origini del "paruto" risorgimentale. Il "caso" di F. F. tra carboneria, mazzinianesimo e adesione alla Soc. naz., in Il Risorgimento, XXXV [1983], pp. 236-258), 397/54 (ad A. Lemmi), 138/72 e 722/22 (a G. Mazzini). Numerosi e controversi i profili a partire dalla commemorazione di P. Giannone, Alla memoria di F. F., Genova 1858, cui tennero dietro, oltre al breve schizzo di A. Vannucci, I martiri della libertà ital., II, Milano 1878, pp. 129-136 (importante in appendice il testo dei Ricordi del F., ibid., pp. 321-365), le ricerche americane di H.R. Marraro, autore della voce E. F. F., per il Dictionary of American Biography, VI, New York 1931, pp. 522 s., e dell'articolo E.F. F., in Columbia University Quarterly, XXV (1933), marzo, pp. 34-64 (una sintesi in italiano nel vol. Testimonianze americane sul Risorgimento, a cura di E. Mann Borgese, Milano 1961, pp. 101-116), i lavori di V. Gulinati, Una figura enigmatica del Risorgimento: F. F., in Nuovi Problemi di polit., storia ed economia, II (1931), pp. 555-566, e di L. Garrotti, F. F. Cenni biografici, Faenza 1951; S. Ferro, E.F. Foresti..., Roma 1991. Tra le testimonianze coeve: A. Andryane, Memorie d'un prigioniero di Stato nello Spielberg, III, Milano 1861, pp. 85, 108; C.M. Sedgwick, in M.E. Dewey, Lifie and letters of Catharine M. Sedgwick, New York 1871, pp. 223, 308 s.; G. Asproni, Diario politico 1855-1876, I, a cura di B. Josto Anedda, Milano 1974, ad Indicem. Quanto agli studi su singoli momenti della vita del F. si rinvia, per il periodo carbonaro, a C. Cantù, IlConciliatore e i carbonari, Milano 1878, pp. 116 ss.; A. Luzio, A. Salvotti e i processi del Ventuno, Roma 1901, pp. 18, 26; Id., Ilprocesso Pellico-Maroncelli secondo gli atti officiali segreti, Milano 1903, pp. 15-50, 261 ss.; C. Antolini, F. F. nel rapporto di A. Mazzetti, Argenta 1904; A. Pierantoni, I carbonari dello Stato pontificio ricercati dalle inquisizioni austriache nel Regno lombardo-veneto 1817-1825, Roma 1910, pp. 96 ss., 109 ss., 119 ss., 129 ss., 138 ss., 147-151, 155-167, 174-178, 182, 188-235, 244, 301-305, 361, 371; A. Sandonà, Contrib. alla storia dei processi del Ventuno e dello Spielberg, Torino 1911, ad Indicem; I processi polit. del Senato lombardo-veneto 1815-1851, a cura di A. Grandi, Roma 1976, ad Indicem. Per il periodo americano: H.R. Marraro, American opinion of the Unification of Italy, New York 1932, ad Indicem; Id., Da Ponte and E: the introduction of Italian at Columbia, in Columbia Univ. Quarterly, XXIX (1937), pp. 23-32; Id., Relazioni tra l'Italia e gli Stati Uniti, Roma 1954, ad Indicem; J. Rossi, The image of America in Mazzini's writings, Madison, WI, 1954, ad Indicem; A.H. Lograsso, P. Maroncelli, Roma 1958, ad Indicem; H.R. Marraro, L'Unificaz. ital. vista dai diplomatici statunitensi, III, Roma 1967, ad Indicem. Per i rapporti col Mazzini e coi Garibaldi: H. Nelson Gay, Ilsecondo esilio di Garibaldi (1849-1854), in Nuova Antologia, 16 giugno 1910, pp. 646-659; J. Ridley, Garibaldi, Milano 1975, ad Indicem. Per la collaborazione col Pallavicino cfr. R. Grew, A sterner plan for Italian Unity. The Italian National Society in the Risorgimento, Princeton 1963, ad Indicem.