DAGNINO, Felice
Nacque a Genova l'11 luglio 1834 da Giovanni e da Paola Graziano (sulla esatta data di nascita cfr. L. Carcereri, Quattordici lettere..., in Rass. st. del Risorg., VI [1919], p. 315). Di umili origini (il padre era falegname), cominciò a lavorare giovanissimo come garzone di caffetteria, ma presto, mettendo a frutto le proprie doti di intraprendenza, sarebbe diventato proprietario di alcuni locali e, più tardi, precursore nel campo turistico-alberghiero con iniziative peraltro non sempre fortunate. La sua maturazione politica avvenne in una Genova ove erano sempre vive le tradizioni repubblicane e in anni in cui l'avversione per il Piemonte era stata rinfocolata dalla dura repressione del moto scoppiato dopo il fallimento della guerra del '49. Ancora in tarda età il D. ricordava il peso che quelle barricate e quei tumulti avevano avuto sulla sua determinazione di aderire al mazzinianesimo.
La fedeltà personale a Mazzini, prima e dopo la sua morte, è il segno distintivo di tutta l'esistenza del D., una fedeltà che si espresse in una completa identificazione con quelle teorie alle quali, non potendo dare il contributo delle proprie capacità culturali, offrì il solo sostegno che gli fosse consentaneo, quello finanziario-organizzativo. Forse proprio per questo Mazzini lo amò e lo stimò "assai", come si apprende da una delle prime citazioni a lui relative che si leggono nell'Epistolario mazziniano (lett. del 21 marzo 1861 a F. Casaccia, LXXI, p. 52), e intavolò con lui una fitta corrispondenza che in poco più di undici anni - dal 1861 al 1872 -, e volendosi limitare a quanto è pervenuto a noi, assommò a circa centocinquanta lettere.
Il primo atto pubblico del D. di cui si abbia notizia è la partecipazione alla sottoscrizione lanciata dal giornale repubblicano Italiae Popolo nell'agosto 1856 per donare 10.000 fucili a quella parte d'Italia che prima fosse insorta contro lo straniero. La tappa successiva fu rappresentata dall'ingresso nelle organizzazioni operaie genovesi con compiti inerenti la raccolta di fondi per le attività repubblicane, sia quelle, tollerate, nell'ambito della propaganda dei principi, sia quelle, occulte, in preparazione di progetti insurrezionali. Dall'aprile del '61 Mazzini non gli fece mancare le istruzioni, tanto più pressanti per quella particolare funzione che nel suo programma era assegnata a Genova: della fiducia che nutriva nel D. e nel suo repubblicanesimo, così esclusivo da impedirgli quei contatti con il movimento garibaldino mantenuti invece da uomini come F. B. Savi e A. Mosto, è una riprova l'incarico. che gli affidò nel '62, di organizzare e dirigere, con altri provati elementi, la Falange sacra, una struttura segreta ordinata quasi militarmente e con finalità insurrezionali. Nonostante però le energie e l'impegno anche finanziario profusi dal D., la Falange risentì della debolezza generale della strategia mazziniana, non riuscì ad ampliarsi in direzione di Torino e Roma, fallì nel tentativo di preparare un moto nel Friuli - dove il D. si recò nel '63, "a proprie spese e con grave rischio della persona" (A. Saffi, Ricordi e scritti..., VII, p. 58) - e subì come contraccolpo una grave crisi da cui non valse a sollevarla l'istituzione di una direzione centrale con sede a Genova e avente a capi il D. e M. Quadrio.
Afflitta da una cronica mancanza di mezzi, in perenne difficoltà per mantenere in vita i propri organi di stampa, l'organizzazione mazziniana non era in grado di penetrare capillarmente nella popolazione e non sapeva acquistare i caratteri della setta. Quando nel '66 Mazzini diede vita all'Alleanza repubblicana universale come diretta prosecuzione della Falange sacra ma con una più spiccata tendenza a diffondersi all'interno di articolazioni particolari della società quali l'esercito e la massoneria, il D. entrò a farne parte assumendo con pochi altri il delicato compito di favorirne la propaganda a mezzo di bollettini e contatti nascosti, in ciò facilitato dall'ambiente che gravitava intorno ai suoi locali - mazziniani anche nella loro ragione sociale, come il caffè del Genio, il caffè Roma e quello della Costanza -, ma non poté o non seppe accontentare Mazzini in ciò che gli premeva di più: l'insurrezione iniziatrice di Genova. Come avrebbe scritto molti anni dopo, "noi temevamo non ci succedesse quello che già ci era successo nel 49, dopo il tradimento di Novara quando, ad onta delle promesse, le altre città non ci sostennero, e non volevamo essere più iniziatori" (lettera a J. White Mario, [ottobre 1885], a Roma, Museo centrale del Risorgimento, busta 430/17). Perciò i ripetuti appelli di Mazzini all'azione caddero nel vuoto: scrupoloso esecutore delle istruzioni ricevute, il D. non aveva la tempra dell'uomo capace di coordinare posizioni politiche diverse e portarle all'azione; e dopo la morte di Savi (1865) sperò invano di trovare un accordo operativo coi garibaldini dai quali lo separava come un abisso quel suo tipo di educazione mazziniana più propenso a mettere l'accento sulla religione, sul dovere, sui valori morali che non sugli interessi materiali immediati.
Al ritorno di Mazzini in Italia questa situazione si concretizzò nella passività con cui Genova e Milano assistettero ai disperati tentativi del marzo 1870 che portarono alla fucilazione di P. Barsanti: il D. e Mazzini in quei giorni in viaggio per Milano, furono i primi ad essere colti di sorpresa. Tornarono precipitosamente a Genova donde, dopo essersi celato per alcune settimane in casa del D., Mazzini partì per la Sicilia, che sperava preparata ad insorgere contro la monarchia. Si era alla vigilia della presa di Roma: arrestato a Palermo, Mazzini fu condotto nel carcere di Gaeta e vi rimase sino all'amnistia, rifiutando di prendere in considerazione i piani di evasione preparati dal D. e a suo dire molto avanzati.
Scomparso Mazzini, il D. fu con Quadrio, che in lui trovò un interlocutore paziente, il più tenace assertore della validità e dell'immutabilità delle sue dottrine. L'attività cospirativa apparteneva ormai al passato: i tempi richiedevano invece la difesa dell'intransigenza repubblicana dagli attacchi di forze emergenti che ne mettevano in dubbio l'efficacia come strumento di emancipazione delle classi più umili. A chi, come F. Campanella, auspicava l'abbandono dei principi religiosi per trovare un terreno d'incontro con garibaldini e internazionalisti, il D. contrapponeva un integralismo che, se era apprezzabile sotto il profilo della coerenza, minacciava tuttavia di fare del repubblicanesimo una ideologia avulsa dai problemi della società. E questa apppunto era la posizione che il D. andò a difendere a villa Ruffi, vicino Rimini, in un convegno con esponenti di tutte le frazioni della Sinistra che doveva servire a cercare una strategia comune: i lavori, appena iniziati, furono però interrotti dall'irruzione dei carabinieri che arrestarono tutti i convenuti (2 ag. 1874). Il D. restò in carcere a Spoleto fino al 24 ottobre, quando il tribunale di Forlì ne ordinò la scarcerazione per insufficienza d'indizi. Quattro anni dopo il suo contatto con l'internazionalismo fu ancora più burrascoso: accusato in due riprese da A. Bizzoni di essere una spia del ministero degli Interni e di aver tradito Mazzini consegnando alla polizia le sue lettere, il D. vide la sua onorabilità difesa da una generale levata di scudi della Sinistra rivoluzionaria: i compagni di fede giunsero fino a fondare un giornale, lo Squillo, allo scopo di tutelarne il nome, fino a che un giurì d'onore non gli diede piena soddisfazione dichiarandolo immune da ogni colpa.
Dopo la morte di Quadrio (1876), al D. toccò il duro compito di rappresentare a Genova il mazzinianesimo più intransigente su posizioni già sperimentate negli anni in cui, a partire dal 1861, aveva partecipato, come delegato della Consociazione operala genovese, ai congressi delle società operaie italiane. Sulla scorta del pensiero sociale di Mazzini, il D. aveva cercato di favorire lo sviluppo in tutta la Liguria dell'organizzazione operaia puntando sul rovesciamento del regime monarchico ma mantenendosi fermo nel rifiuto della lotta di classe: il testo a cui far riferimento era il Patto di fratellanza che Mazzini aveva scritto nel 1871 nella villa genovese che in suo onore il D. aveva chiamata "villa Giuseppina"; ed ai principi in esso contenuti il D. si ispirò sempre, a cominciare dalla sua attività di imprenditore.
Esemplare, in tal senso, la vicenda della Banca popolare di credito, sorta su basi cooperativistiche nel 1868 e presieduta dal Mosto. Per il D., che ne era consigliere delegato, la Banca doveva svolgere una funzione di soccorso alle classi meno abbienti, differenziandosi da quelle istituzioni borghesi consimili che ai suoi occhi non producevano che affarismo e corruzione. Quando tra il '72 e il '73 emersero irregolarità amministrative a carico del presidente, il D. non esitò a porre "la questione "o dimissione di Mosto o la sua"", (Quadrio a E. Nathan, 13 sett. 1873, in R. Ugolini, Nove lettere inedite dalla corrispondenza di M. Quadrio nell'archivio Nathan.... in Atti del Secondo Convegno su Mazzini e i mazziniani dedicato a M. Quadrio, Pisa 1978, p. 371). Mosto si dimise e la Banca sopravvisse tra gravi difficoltà: nel 1893 il D. sperò di rialzarne le sorti con un progetto che, approfittando della crisi degli istituti di credito dopo lo scandalo della Banca romana, fondesse in un solo organismo tutte le banche popolari d'Italia; ma il progetto fallì, la Banca fu posta in liquidazione e il D., che già in passato aveva dovuto esporsi personalmente, perse circa 300.000 lire (1903): un disastro che l'anno dopo sarebbe stato seguito da gravi dispiaceri familiari e da nuovi insuccessi nella conduzione degli affari.
In qualche modo anche la sua ortodossia mazziniana aveva risentito del mutare dei tempi e del graduale distacco dall'impegno politico diretto: il rifiuto dello sciopero come mezzo di lotta (1874), il rigido astensionismo opposto a chi lo designava candidato nelle elezioni amministrative (1890), l'avversione ad ogni rapporto coi socialisti culminata nella presentazione di un ordine del giorno contro la proposta di assistere al congresso di fondazione del Partito socialista (1894), all'inizio del secolo avevano lasciato posto a visioni più concilianti, certo più per stanchezza che per un intimo convincimento. Come ripiegato sul passato, coltivava i ricordi del suo legame con Mazzini che era orgoglioso di illustrare ai primi biografi: fu così che Jessie White Mario e Henry Bolton King trovarono in lui una testimonianza vivente e il depositario di una consistente documentazione sull'ultima parte della vita di Mazzini. La sua figura era sempre più spesso associata al momento celebrativo e designata a rivestire funzioni onorifiche, come quando, nel 1903, fu eletto presidente del congresso, del Partito mazziniano italiano. Ma per quello che era stato Genova lo amava molto e lo dimostrò piangendo con sincero dolore la sua scomparsa, avvenuta il 5 genn. 1909.
Fonti e Bibl.: Le lettere di Mazzini al D., donate al Municipio di Genova dal D. stesso e dai suoi eredi (cfr. A. Neri. Museo del Risorg., Catalogo, Milano 1915, I, pp. VII, 21-42) sono pubblicate nell'Ediz. nazionale degli scritti di G. Mazzini, Imola 1906-1943 (per la consultazione si vedano gli Indici, II, 1, Imola 1973, ad nomen). In A. Neri, Museo ..., cit., Milano s. d., II, pp. 207-249, è descritto il materiale compreso nell'ArchivioDagnino (importanti soprattutto le lettere di M. Quadrio). Circa sessanta lettere scritte dal D. a L. Minuti tra il 1877 e il 1905 sono conservate nel Museo centrale dei Risorgimento di Roma, busta 596/10-11-12; ivi anche le lettere a J. White Mario, buste 430/17 e 436/61. Per le biografie cfr. Dizionario del Risorgimento nazionale, Milano 1930, II, e B. Montale, Un mazziniano dimenticato: F. D., in Genova, XXXV (1959), 1, pp. 46 ss.; la più recente, ma con molte imprecisioni, è quella di O. Benvegni, in Diz. biogr. del movimento oper. italiano ..., a cura di F. Andreucci e T. Detti, II, Roma 1976, ad nomen (utile la bibliografia). Per le fonti edite: A. Saffi, Ricordi e scritti ..., VII, Firenze 1901, pp. 57 s.; 122, 124; IX, ibid. 1902, pp. 193, 196 s.; 199, 211, 214; XI, ibid. 1903, pp. 114 s.; 119; L'Italia radicale. Carteggi di F. Cavallotti ..., a cura di L. Dalle Nogare - S. Merli, pp. 43 s.; 48 (lettere di A. Bizzoni). Sulla partecipazione del D. alla Falange sacra cfr. N. Sevi, Intorno all'organizzaz. della "Falange sacra", in Rass. st. del Ris.; LIX (1972), pp. 369 s.; 377, 380 s.; 386, 388. Sulla sua presenza nelle società operaie genovesi: N. Rosselli, Mazzini e Bakunin, Torino 1926, ad Indicem; B. Montale, La Confederaz. operaia genovese e il movim. mazziniano in Genova dal 1864 al 1892, Pisa 1960, ad Indicem; Id., Antonio Mosto ..., Pisa 1966, ad Indicem. Sui rapporti con Quadrio: Id., L'ultimo Quadrio(1872-1876), in Atti del Secondo Conv. su Mazzini e i mazzin. dedicato a M. Quadrio, Pisa 1978, pp. 294 s.; 299, 304 ss.; 308 s. Sulla vertenza con Bizzoni: L. Balestreri, Giornali mazzin. a Genova nel periodo tra il 1876 e il 1879, in Mazzini e i repubblicani ital. Studi in onore di T. Grandi .... Torino 1916, pp. 429 s.; 433 ss. Sulla vicenda di villa Ruffi: A. Bersellini, Gli arresti di Villa Ruffi. Contr. alla storia del mazzinianesimo, Milano 1956, pp. 53, 59, 94, 96, 98 s.; 108, 117, 137, 157. Sull'avversione per il socialismo e sulle sue ultime apparizioni politiche: L. Minuti, Il Comune artigiano di Firenze della Fratellanza artigiana d'Italia, Firenze 1911, p. 432; e A. Lodolini, L'organizzaz. del Partito mazziniano it. in Italia ed all'estero agli inizi del sec. XX, in Rass. st. del Ris.; XLI (1954), p. 399.