BRANCACCI, Felice
Figlio di Michele di Piuvichese, di famiglia, fiorentina originaria di Brozzi, nacque nel 1382, come si deduce da una registrazione catastale del 1427. Tipico esponente della classe al potere, svolse numerosi incarichi pubblici: nel 1412 era dei Sedici gonfalonieri di compagnia, nel 1418 dei Dodici Buonomini; lo stesso anno, con Guidaccio Pecori, fu ambasciatore in Lunigiana per salvaguardare gli interessi di Firenze minacciati da un colpo di mano del marchese Leonardo Malaspina, ma fallita, la missione il B. ritornò alla testa di più di mille fanti e cavalieri e occupò le terre usurpate; nel 1420 capitanò la gente d'arme di Anghiari inviata alla protezione di Città di Castello. In tali aspetti la sua biografia non si diversificherebbe da quella di molti suoi concittadini con i quali si alternò nei maggiori uffici, se nel 1422 la Signoria non lo avesse destinato ambasciatore in Egitto, insieme con Carlo Federighi. Accanto a costui, che le fonti qualificano "dottore in decreti" e "filosofo", il B. "setaiuolo" (anche nel 1427 è titolare di una ditta che traffica nell'arte della seta) doveva essere stato scelto soprattutto come esperto in materia commerciale.
Le istruzioni, del 14 giugno, affidavano loro il compito d'ottenere dal sultano la libertà di traffico, con le garanzie, le franchigie, le immunità della nazione più favorita - che era come dire dei Veneziani e dei Genovesi -, il diritto di tenere consoli ad Alessandria e a Beirut e inoltre fondaco, chiesa e bagno. Ma la raccomandazione principale, in questa fase di grande fioridezza dell'economia fiorentina, era il riconoscimento del fiorino sullo stesso piano del ducato. La specie aurea fiorentina, infatti, che per tutto il Trecento era stata la grande moneta internazionale dell'Occidente, aveva poi perduto terreno di fronte alla veneziana, la quale dominava incontrastata soprattutto nei mercati levantini. Ad ogni buon conto, il 7 maggio, il peso del fiorino era stato aumentato in modo che non fosse inferiore al ducato ed era così nato il "fiorino largo di galea".
Le aspirazioni marittime di Firenze poggiavano sull'eredità pisana, e il recente acquisto di Livorno ne aveva consolidato la base territoriale. Modeste le disponibilità di naviglio mercantile, la Signoria s'era orientata verso un sistema di linee di Stato sul modello veneziano e aveva fatto mettere in cantiere, a Pisa, due galere sottili e due da mercato. Le prime formarono il convoglio per Alessandria, che aprì la serie dei viaggi fiorentini dai quali la Repubblica si riprometteva molto "honore et utile". Con un carico di panni per quattromila fiorini di valore, oltre a 56 mila ducati per acquisto di spezie, salparono da Pisa il 12 luglio 1422.A bordo, insieme con molti mercanti fiorentini, avevano il B. e il Federighi.
Toccando Livorno, dove furono passate in rassegna da uno dei consoli del Mare, Piombino, la foce del Tevere, Scalea, Cetraro, Tropea e Messina, le galere "S. Giovanni Battista" e "S. Antonio", capitanate da Giuliano di Turpia e da Bindo dalle Brache, arrivarono il 27 luglio a Capo Spartivento; una tempesta le dirottò poi a Corfù, donde proseguirono la navigazione per Cefalonia, Zante, Modone. Il 5 agosto erano a Candia, il 9 a Rodi; qui i due ambasciatori visitarono il gran maestro dell'Ordine e assunsero come esperto Antonio Minerbetti, che era stato console rodiota ad Alessandria per quattro anni. A Rodi il convoglio sostò fino al, 17, per i venti contrari e per il raddobbo di una galera che i Veneziani, nonostante la buona accoglienza, non avevano permesso a Candia, e arrivò ad Alessandria il 19 agosto.
Della missione in Egitto ci sono restati un sommario rapporto alla Signoria steso il 17 febbr. 1423 dal notaio Iacopo da Poggibonsi e un "quadernuccio" tenuto dal B., con le note del viaggio - dalla partenza al ritorno in patria - e un'appendice che reca il lungo elenco dei "doni fatti e delle spese occorse", incluso il salario giornaliero dovuto ai due ambasciatori. Nel racconto del diarista il contatto col mondo orientale si rivela aspro, anche per la situazione determinatasi in conseguenza di un'azione di pirateria dei Catalani, con la chiusura agli occidentali, senza discriminazioni, dei mercati e dei luoghi santi. E un minaccioso assembramento viene fomentato contro il B. e il suo compagno da un santone del Cairo, sdegnatosi per lo spettacolo, in terra del profeta, di "cani Franchi" a cavallo in mezzo a musulmani a piedi. Così quel paese favoloso svela loro poche delle sue meraviglie: l'esperienza molesta che impone sono centinaia di postulanti che li assalgono in casa e fuori, sollecitando donativi per servizi resi o immaginari, senza dar tregua e senza lesinare minacce e pressioni, con interminabili discussioni sull'entità del dono e sulla sua convenienza all'onore del destinatario. Da cadì e ammiragli a gente d'ogni risma e condizione, "grandi e piccoli ogniuno s'ingegnava a mangiarci le ossa", annota sbigottito il B.; le richieste assumono il carattere d'una persecuzione e la loro petulanza e sfrontatezza appaiono tali che i due Fiorentini ne restano sgomenti e sono più volte tentati di prendere la via del ritorno.
Solo il 29 agosto poterono imbarcarsi su di una germa inviata loro dal sultano, per raggiungere il Cairo risalendo la corrente del Nilo. Il giorno prima, vuote, avevano preso la rotta del ritorno le due galere; essi s'erano risolti a licenziarle per non "dar troppa spesa al Comune", probabilmente anche per la difficoltà di trattenerle contro il volere dei comandanti impauriti. Il sultano - che era Malik al-Ashraf Barsbay, lo stesso che tre anni dopo conierà, sul tallone del ducato veneziano, quella moneta d'oro che dal nome di lui nelle fonti occidentali viene definita sarafo - li ricevette il 7 settembre nello splendore del suo palazzo, animato da una folla di dignitari, di suonatori, di cantori. Gli ambasciatori ottennero tutto quello che avevano richiesto, in particolare il corso ufficiale del fiorino, e poterono vantarsi di non aver accordato nessun corrispettivo. Il complesso lavoro di redazione del testo dei capitoli nelle due lingue richiese diversi giorni, con le "mangerie e infamie" d'obbligo da parte di chi vi attendeva; quando il 28 essi poterono finalmente ripartire per Alessandria, la navigazione sul Nilo fu così travagliata dalle incalzanti pretensioni della ciurma che da Fūwa essi preferirono proseguire via terra. Ad Alessandria - naturalmente tra "suoni assai e chieditori di denaro" - discussero a lungo con le autorità locali la scelta del fondaco, perché essi reclamavano quello antico dei Pisani mentre il cadì offriva quello dei Turcomanni, ma in questi accordi il B. non ebbe una parte attiva, perché, colpito l'11 ottobre da febbri terzana e continua (s'ammalarono anche molti altri Fiorentini, tra i quali il primo console in Egitto, Ugolino Rondinelli, che morì), fu trasportato in barella sulle galere da mercato di un secondo convoglio che, partito da Pisa sotto il comando di Piero Guicciardini, era arrivato il 18 ottobre.
L'inclemenza del tempo rese difficile il viaggio di ritorno, sulla rotta di Rodi, Capo Malea, Modone, Sapienza, Zante, Corfù, Messina: lasciata Alessandria il 15 novembre, il 4 gennaio ripararono nel porto di Vulcano, rimanendo a lungo bloccati da "acqua e vento e neve". Il B. ebbe così la possibilità di visitarne la Fossa, della quale dà nel diario una particolareggiata descrizione. Poterono infine raggiungere Palermo, dove sostarono dal 22 al 31 gennaio; il 4 febbraio erano a Gaeta, l'11 a Porto Pisano. A Firenze arrivarono il 15 febbraio a conclusione d'una missione che fu certamente proficua, come è testimoniato anche dall'elenco delle merci caricate ad Alessandria, a Rodi e in Sicilia, e trasportate in Sicilia, a Gaeta, a Porto Pisano, che comprendeva alcune centinaia di colli di spezie e di altri prodotti orientali e circa trecento barili di tonnina. Perciò si festeggiò il loro ritorno con la chiusura di tutte le botteghe, con processioni e una messa solenne in duomo.
Il diario del B., del tutto privo d'impegno letterario e praticamente limitato alla cronaca della missione diplomatica, riesce di rado ad offrire qualche cosa di più di un minuzioso ed arido elenco di fatti. Pure se l'aderenza alla realtà ne costituisce un pregio indubitabile, le sue pagine rivelano un uomo di mentalità alquanto ristretta, chiuso ad ogni interesse che non fosse quello pratico che lo aveva spinto in un paese che allora per la prima volta s'inseriva nell'ottica politica fiorentina. Egli ripudia le usanze diverse da quelle del proprio mondo e in particolare non ha nessuna capacità di cogliere il valore dell'istituzione del dono in una società quale quella egiziana (eppure, insieme con il suo compagno, riceveva dal sultano la giornaliera gamikuyyah):ne fa esclusivamente il segno di una dilagante corruzione, che resta l'elemento dominante del quadro che egli traccia dell'Egitto. Il racconto si ravviva nelle udienze concesse dal sultano e nella visita all'antica Babilonia d'Egitto e alle chiese cristiane nei dintorni del Cairo. Molto suggestiva è la descrizione del luogo dove cresce il balsamo ed eccezionalmente colorita quella dell'elefante, che è tra le più belle che ci abbia lasciato il Medioevo.
L'edizione che del diario ha curato il Catellacci risente molto delle imperfezioni della copia secentesca di Carlo Strozzi dalla quale è tratta. Inoltre un errore sull'identificazione di Setteri, che non è Ceuta, in Tunisia, bensì Sitia, nell'isola di Creta, può trarre in inganno sulla rotta del viaggio d'andata.
Compiuta la missione in Egitto, il B. continuò a dedicare molta della sua attività agli affari pubblici. Il 1º sett. 1423 venne eletto priore, nel 1425 fu ambasciatore a Siena e dall'8 settembre nuovamente dei Sedici gonfalonieri di compagnia. Nel 1426 fu commissario fiorentino presso le truppe che conducevano l'assedio di Brescia e nel 1430 - commissario al campo contro Lucca, con Alessandro degli Alessandri e Neri Capponi - partecipò allo sfortunato scontro col Piccinino, riuscendo a malapena ad evitare la cattura; nel dicembre dello stesso anno fu eletto dei Dieci di Balia. Lo troviamo a Castelsampiero nel 1431, con Niccolò Valori, e ancora una volta dei Dodici Buonomini nel 1432. L'anno seguente andò ambasciatore ad Eugenio IV per offrirgli la protezione della Repubblica e rifugio in territorio fiorentino; sempre nel 1433 fece parte, per il quartiere di Santo Spirito, della balia dei Duecento che bandì Cosimo de' Medici e l'anno seguente di quella che lo richiamò in patria.
Legato a Palla Strozzi, di cui nel 1433 aveva sposato la figlia Lena, il B. lo accompagnò nell'esilio di Padova. A Fiumalbo ebbe contatti con Antonio d'Arezzo e con Giovanni Gallina, che cospiravano con l'appoggio del duca di Milano per rovesciare il regime mediceo e portare al potere i fuorusciti. Francesco Guadagni riferì la trama alla Signoria, ma, per amicizia verso Branca di Buonfigliolo Brancacci, tacque la parte che vi aveva il B. e inoltre s'espresse in pubblico in favore della congiura; denunciato a sua volta da Niccolò Peruzzi, egli stava per essere decapitato insieme con gli altri complici, ma Cosimo, ostentando un gesto generoso, volle risparmiarli. I principali responsabili furono condannati a dieci anni di prigione e ad essere registrati come ghibellini e traditori. Il B., contumace, fu destinato alla Prigione Vecchia. Il 28 marzo 1435 il capitano della Balia lo confinò a Capodistria per dieci anni, con l'ingiunzione di raggiungere quel luogo entro un mese e di mandare ogni due mesi le "representazioni"; poiché non obbedì, l'8 luglio 1435 fu dichiarato ribelle. È difficile seguirlo nel suo esilio. Nel 1437 egli scriveva a Cosimo de' Medici da Gubbio, e in un anno imprecisato da Urbino. In un documento del 1449 figura già morto.
Assai facoltoso, possedeva molti terreni nella zona di Campi in S. Cresci, con "casa da signore", terre e poderi a Scandicci, a San Miniato e altrove, oltre a "diversi luoghi" del debito pubblico. È a lui che deve ricollegarsi (e non, secondo la notizia data dal Vasari, ad Antonio Brancacci, peraltro morto prima del 1391) la cappella Brancacci in S. Maria del Carmine a Firenze, decorata da Masolino e da Masaccio. L'appartenenza al B., che dopo le ricerche del Milanesi trova concorde la critica moderna, si fonda sul suo testamento del 26 giugno 1422, dove dispone dei diritti (iuspatroneria seu preheminentia seu titulum)che ha su di essa. Il Salmi, lo Steinbart, il Meller suppongono che egli sia da riconoscersi nella figura dell'apostolo all'estrema destra del gruppo del Tributo (forse troppo giovane per un uomo di quarantacinque anni qual'era il B. nel 1427, e infatti molti vi vedono, col Vasari, l'autoritratto dell'artista) ed altri studiosi mettono alcune delle "storie" affrescate in relazione con la sua personalità. Talune di queste interpretazioni sono persuasive, benché sorprenda che sia del tutto assente l'esperienza egiziana (a meno che il S. Pietro risanante gli infermi non voglia riferirsi alla sua guarigione ad Alessandria), un'esperienza eccezionale e allora freschissima, quando al contrario si vorrebbe individuare nel Tributo un riferimento al catasto recentemente istituito (Procacci, Meiss, Berti) che proprio nell'antimediceo B. dovette avere un irriducibile oppositore. Sempre nel Tributo, Pietro che cava la moneta dal ventre del pesce simboleggerebbe l'apertura dei traffici marittimi di Firenze (Steinbart); anche il Brockhaus e l'Antal attribuiscono al ciclo un significato commerciale-marittimo. Nella Resurrezione del figlio di Teofilo e s. Pietro in cattedra il Meller trova un'allusione alla lotta tra Firenze e Milano, e quindi un legame con l'episodio di Brescia vissuto dal B. nel 1426; secondo il Brockhaus questo affresco avrebbe contenuto le figure del B. e di suoi amici, poi eliminate dopo il suo esilio. L'allontanamento da Firenze del B. costituisce un elemento molto importante per la cronologia della decorazione della cappella, la quale fu ripresa quasi mezzo secolo dopo, non sappiamo se per iniziativa dei frati del Carmine oppure degli eredi di lui, per quanto si debba tener conto che la famiglia s'era ridotta in cattive condizioni economiche.
Ebbe un figlio, Michele, natogli fra il 1414 e il 1415 dalla prima moglie, Ginevra, che aveva portato una dote di 1500 fiorini d'oro.
Fonti eBibl.: Il "quadernuccio" del viaggio in Egitto è stato pubblicato da D. Catenacci, Diario di F. B. ambasciatore con Carlo Federighi al Cairo per il Comune di Firenze (1422), in Archivio storico ital., s. 4, VIII (1881), pp. 157-188, 326-334. Archivio di Stato di Firenze, Not. Filippo di Cristofano, test. 1422, 26 giugno; Ibid., Otto di Guardia e Balia,Riforme e sentenze, n. 224, c. 68; Ibid., Archivio Mediceo avanti il Principato, ff. XII, nn. 409, 443; LXVI, n. 26; C, n. 5; Ibid., Manoscritti, n. 267, c. 64; n. 360, vol. MM, c. 63; Ibid., Catasto, 67, Campione dell'anno 1427 del quart. di S. Spirito, Gonfalone Drago, cc. 46 ss.; Ibid., Priorista Mariani, vol. II, c. 475; Ibid., Carte Sebregondi, famiglia Brancacci;S. Ammirato, Istorie fiorentine, parte 1, II, Firenze 1647, pp. 979, 989, 997, 999, 1067-1070, 1091-1092, parte 2, Firenze 1641, p. 2; G. W. Leibnitz, Mantissa codicis juris gentium, Guelferbyti 1747, II, n. XXXIII, pp. 163-166; G. F. Pagnini, Della decima e delle altre gravezze imposte dal Comune di Firenze, Lisbona-Lucca 1765, II, pp. 59, 187-204; IV, pp. 70-73; G. Cavalcanti, Istorie fiorentine, Milano 1944, pp. 273, 313, 326-327; M. Amari, I diplomi arabi nel R. Arch. fiorent., I, Firenze 1863, pp. LIX, 165-168, 331-340, 344-346; G. O. Corazzini, Diario fiorent. di Bartolomeo Michele del Corazza, in Arch. stor. ital., s. 5, XIV (1894), p. 277; I libri commem. della Repubblica di Venezia. Regesti, a cura di R. Predelli, IV, Venezia 1896, p. 46; Le opere di G. Vasari, a cura di G. Milanesi, II, Firenze 1906, pp. 295-296, 305 ss.; F. P. Luiso, Da un libro di memorie della prima metà del Quattrocento Firenze 1907, pp. 29-33, 36-38, 40-44; G. Heyd, Storia del commercio del Levante nel Medio Evo, Torino 1913, pp. 1044-1046; H. Brockhaus, Die Brancacci-Kapelle in Florenz, in Mitteil. des Kunsthistorisch. Institutes in Florenz, III (1930), pp. 160 ss.; R. Longhi, Fatti di Masolino e di Masaccio, in Critica d'arte, V (1940), p. 175; G. Vedovato, L'ordinamento capitolare in Oriente nei privilegi toscani dei secoli XII-XV, Firenze 1946, pp. 153-154; K. Steinbart, Masaccio, Wien 1948, pp. 43 ss., 84-87; M. Salmi, Masaccio. La cappella Brancacci a Firenze, I, Milano s.d., p. 12; U. Procacci, Tutta la pittura di Masaccio, Milano 1951, pp. 30-34; Id., Sulla cronologia delle opere di Masaccio e di Masolino tra il 1425 e il 1428, in Rivista d'arte, XXVIII (1953), pp. 16-31; A. Sapori, I primi viaggi di Levante e di Ponente delle galee fiorentine, in Arch. storico ital., CXIV (1956), pp. 69-91; F. Antal, La pittura fiorentina e il suo ambiente sociale nel Trecento e nel primo Quattrocento, Torino 1960, pp. 424, 435 ss., 489; P. Meller, La cappella Brancacci, in Acropoli, 1960-61, fasc. 3, pp. 186-277; M. Meiss, Masaccio and the early Renaissance: the circular plan, in Acts of the 20th Intern. Congress of the History of Art, Princeton 1963, II, pp. 123-145; U. Procacci, Masaccio: la cappella Brancacci, Firenze 1965; M. E. Mallett, The Florentine galleys in the fifteenth century, Oxford 1967, pp. 36-38, 153; L'opera completa di Masaccio, a cura di L. Berti, Milano 1968, pp. 92-97.