Fedra
Il labirinto delle passioni
Personaggio mitologico della letteratura greca, Fedra è divenuta nei secoli il simbolo della passione amorosa femminile: il suo destino tragico ha colpito la fantasia di grandi scrittori che di volta in volta hanno conferito un sempre maggiore carattere di modernità a questa antichissima eroina
Tutte le versioni del mito concordano nell'affermare che Fedra, moglie di Teseo, s'innamorò perdutamente del figliastro Ippolito: secondo alcune, a causa dell'intervento di Afrodite (la Venere latina), gelosa della devozione di Ippolito alla sola dea Artemide (Diana) che lo portava a dedicarsi esclusivamente alla caccia. Durante un'assenza di Teseo, Fedra dichiara il suo amore, direttamente o con l'aiuto della nutrice. Ippolito rifiuta sdegnosamente e Fedra, al ritorno di Teseo, per vendicarsi rovescia la verità e accusa Ippolito di averle usato violenza.
Nell'Eneide Virgilio colloca Fedra tra le anime dei lussuriosi periti di morte violenta, che Enea incontra quando scende agli inferi. In questi racconti Fedra sembra muovere da un labirinto ‒ quello costruito dal padre Minosse per rinchiudervi il Minotauro, ucciso poi da Teseo ‒ per giungere a un altro; qui accecata dalla passione, si smarrisce. Si tratta, in modo sfumato e simbolico, di un secondo labirinto, quello dei sensi e dell'amore, che la donna chiede senza riuscire a ottenere; è questo a renderla personaggio moderno in senso pieno.
Nelle due tragedie classiche conservate intere, l'Ippolito di Euripide e la Fedra del filosofo e scrittore latino Seneca, troviamo uno svolgimento dei fatti molto diverso. In Euripide Fedra si uccide e lascia la sua denuncia in uno scritto; segue un drammatico confronto fra Teseo e Ippolito, nel quale il giovane non riesce a discolparsi in quanto legato al giuramento di non rivelare nulla, fatto alla nutrice di Fedra; Teseo lo maledice e Ippolito muore giacché ‒ quale conseguenza della maledizione del padre ‒ il dio Poseidone (Nettuno) provoca l'apparizione di un animale mostruoso e l'imbizzarrimento dei cavalli che disarcionano il ragazzo trascinandolo su un terreno accidentato. Seneca, invece, immagina che sia Fedra in persona a incolpare Ippolito presso Teseo, provocandone la morte proprio come in Euripide; tuttavia, all'annuncio della fine del giovane, Fedra rivela la verità, scagiona Ippolito e si toglie la vita con la spada, mentre in Euripide la verità era ristabilita attraverso l'intervento provvidenziale della dea Artemide.
Fedra appare dunque come una donna vittima della passione d'amore. Negli scrittori antichi la capacità d'introspezione psicologica è però limitata e i contrasti non avvengono tanto nell'interiorità dell'individuo, ma nella contrapposizione dei personaggi, dominati, in genere, da un unico scopo nell'agire. Più che in Euripide, in Seneca è assente la tendenza ad attribuire agli dei la responsabilità delle azioni e delle colpe umane. Gli avvenimenti messi in scena sono presentati come la conseguenza del cedimento dell'uomo alla passione e dell'incapacità di seguire la buona coscienza che lo indirizzerebbe verso il bene.
Fedra rappresenta e assume su di sé le ferite di un mondo al femminile che, privato delle sue potenzialità, non può esprimersi liberamente: tanto la poetessa russa Marina Cvetaeva, con una tragedia in versi (che risale al 1928), quanto la scrittrice francese Marguerite Yourcenar, nel racconto Fedra, o la disperazione (1986), offrono una reinterpretazione contemporanea del mito, ponendo al centro un personaggio circondato dall'incomprensione e dalla solitudine.
Precedentemente il mito di Fedra era stato ripreso, in modo particolarmente felice, in una tragedia del francese Jean Racine (Fedra, 1677), che aveva introdotto una radicale innovazione, attribuendo la causa del rifiuto di Ippolito al suo amore per la giovane Aricia. Successivamente il tema venne affrontato nel poemetto drammatico Fedra del poeta inglese Algernon Charles Swinburne (in Poesie e ballate, 1866) e, sulla medesima falsariga ‒ di una Fedra ubriaca d'amore e di lussuria ‒ da Gabriele D'Annunzio (1909), nonché, in chiave psicologica e più introspettiva, dallo spagnolo Miguel de Unamuno (1910).