Fedra
Figlia di Minosse e di Pasifae, dopo l'uccisione del Minotauro fuggì da Creta con Teseo e la sorella maggiore Arianna; durante il viaggio l'eroe s'invaghì di lei e, reso certo del suo consenso, abbandonò nell'isola di Nasso Arianna (che fu quindi consolata da Bacco).
Divenuta sposa di Teseo (cui diede due figli, Demofonte e Antiloco) e regina di Atene, F. fu presa da un'insana e violenta passione per il figliastro Ippolito, cui rivelò i propri sentimenti approfittando dell'assenza di Teseo, impegnato con Piritoo nel tentativo di rapire Proserpina. Ippolito, inorridito, respinse le sue profferte; e F., sia per il timore che egli rivelasse la cosa al padre sia per lo sdegno della ripulsa, non appena Teseo fece ritorno ad Atene, accusò il figliastro di aver attentato alla sua virtù; e Teseo, prestandole ciecamente fiducia, maledisse Ippolito, che dovette fuggire in esilio (v. Ippolito). F., ormai succuba del proprio furore, confessò a Teseo la propria scelleratezza, ponendo quindi fine ai suoi giorni con la spada appartenuta a Ippolito (secondo Servio, si sarebbe invece impiccata). Esempio della follia amorosa che spinge alle peggiori scelleratezze e al suicidio, la storia di F. è stata ripetutamente narrata nella letteratura greco-latina, e vari tragediografi, anche tra i maggiori, ne fecero l'oggetto di una loro opera.
Tra gli autori noti a D. sono da citare - più che Seneca, poiché non si hanno prove sicure della conoscenza della Phaedra da parte del poeta fiorentino (cfr. tuttavia l'opposto parere del Parodi, in " Bull. " XXI [1914] 241-252) - Virgilio, il quale pone la regina tra le anime dei lussuriosi morti violentemente (Aen. VI 445) e narra brevemente la storia dell'innocente costretto all'esilio " arte novercae " (Aen. VII 761-780), e soprattutto Ovidio, che alla storia di Ippolito dedica un ampio passo (Met. XV 492-546). D. nomina una sola volta F.: per bollare non l'insana passione ma l'infame calunnia della spietata e perfida noverca (Pd XVII 47; cfr. Met. XV 498 " sceleratae fraude novercae "): alla quale D. paragona indirettamente i suoi falsi e perfidi accusatori fiorentini, che, novello Ippolito, lo costrinsero, benché innocente, all'esilio.