PERSICO, Federico
PERSICO, Federico. – Nacque a Napoli il 6 aprile 1829 da Pasquale, negoziante, e da donna Maria Antonia Vacca, nella casa di famiglia del quartiere S. Giuseppe. Allievo di Antonio Scialoja e di Roberto Savarese, studiò in S. Agnello a Caponapoli alla scuola di quest’ultimo e nell’Ateneo napoletano, dove si laureò nel 1851.
Sposò Maria Barbara Cavalcanti di Verbicaro, sorella di Caterina moglie di Enrico Cenni. Nel 1898, una delle figlie di Persico, Maria Antonia, sposò Francesco Saverio Nitti.
Nel ricordo autoironico delle ‘sue prigioni’, in una sera «nera, lunga e uggiosa» del gennaio 1851, la polizia irrompeva nella casa dell’amico Federico Quercia, arrestando Persico per cospirazione e possesso di libri proibiti, insieme con altri «fratelli liberali» intenti a giocare a scopone davanti a una bottiglia di rosolio: Angelo Buongiovanni, poi giudice, Eduardo Castellano, poeta, e Liborio Menichini, allievo di Francesco De Sanctis e futuro avvocato (Trentacinque giorni di carcere, 1918, p. 4).
I gendarmi sequestrarono una poesia di Castellano intitolata Il disertore, alcune lettere di De Sanctis, all’epoca incarcerato a Castel dell’Ovo, un variegato album di ritratti di Antonio Gioberti, Pio IX, Carlo Alberto e Ferdinando II. Durante la sua detenzione, fra ‘camorristi’ e spie del governo e l’incontro con Carlo Poerio, a giudizio per il cosiddetto processo alla setta dell’Unità Italiana, i familiari distrussero alcuni suoi scritti di diritto costituzionale, tre coccarde dai nastri tricolore, di cui una della Costituzione del 1812, un corso di economia politica di Scialoja, gli appunti delle lezioni di Savarese. Liberato dopo trentacinque giorni per intercessione del «borbonico» Raffaele Sava presso il direttore di Polizia, nell’estate del 1856 fu cancellato dagli ‘attendibili’, l’elenco dei sospetti, «per la bontà di Lodovico Bianchini» allora ministro di Polizia (pp. 16-19).
Nominato da Giuseppe Garibaldi componente del Corpo della Città l’8 settembre 1860, fu incaricato di diritto amministrativo all’Università di Napoli nel 1861, sulla cattedra di Giovanni Manna, chiamato al dicastero delle Finanze e, nella stessa materia, fu straordinario nel 1862 e ordinario dal marzo 1868 fino al collocamento a riposo, nel 1899. Fondò nel 1866, con Giuseppe Polignani, L. Froio ed Enrico Pessina, Il Filangieri. Nel 1882 fu preside della facoltà giuridica e nel 1887 divenne incaricato di scienza delle finanze.
Nel marzo del 1864, sollecitato dal francescano Ludovico da Casoria, in un discorso sulla Enciclopedia cattolica, rileggeva alla luce dell’ortodossia gli ultimi tre secoli della filosofia europea, dominati dallo «scisma funesto» di Martino Lutero. Quelle «verità semipiene» e ribelli, dal «cogito ergo sum» di Cartesio fino alla logica ‘sferica’ di Hegel, un cerchio di natura e spirito che «non ha entrata né uscita», si sarebbero incrinate soltanto con l’«infuturarsi» della conoscenza nella metafisica, cioè nell’«amore delle cose non possedute e invisibili», e la conversione della Storia nella Provvidenza (Della Enciclopedia cattolica, Napoli 1864, pp. 7, 10).
Dal tramonto del progetto neoguelfo, centrato sul Primato di Vincesso Gioberti, Persico salvava l’idea del patto necessario fra monarchia e papato, il «centro morale d’Italia» (Italia e Roma: riflessioni, Napoli 1865, p.17), scienza e religione, tradizioni autonomistiche e unità nazionale, mettendo a valore quel paradigma eclettico che ispirò la cultura moderata e cattolica del secondo Ottocento in nome del governare senza rivoluzione, in un’architettura che riconciliava libertà e autorità, proprietà e ordine.
Nel 1867, l’anno della candidatura al Parlamento per i conservatori e della sconfitta per mano dell’amico Enrico Pessina, che si presentava per il Centro Sinistro, Persico esortava: «diventate la nazione […] dite ai cattolici e al clero, noi vogliamo la religione […] dite agli autonomisti, noi non mutileremo in grazia dell’unificazione le membra d’Italia […] dite ai conservatori, alle moltitudini, ai possidenti, noi vogliamo l’ordine […] dite perfino ai rossi […] noi manterremo la libertà» (Governo o Rivoluzione?, 1867, p. 12).
Assessore all’Istruzione a Napoli, nel 1872 e nel 1875, nelle amministrazioni Spinelli e Winspeare, Persico invocava, dopo l’avvento della Sinistra, un nuovo partito conservatore su iniziativa dei cattolici moderati e liberali, nei laboratori politici di casa Campello a Roma e più tardi del conte Carlo del Pezzo a Napoli, collaborando con la Rassegna nazionale, cattolica e italiana.
I due volumi dei Principii di diritto amministrativo (Napoli, 1866-1874) escludevano una ricostruzione solo giuridica della statualità, riconducendo il problema amministrativo alle sue «origini e ragioni», con Pellegrino Rossi alle istituzioni politiche e costituzionali della nazione. I ‘principii‘, ovvero le «ragioni interne» dei fatti sociali inclusi nel diritto e i dispositivi «regolatori dei poteri pubblici» (pp. VII-XII), anticipavano lessico e dilemmi degli anni successivi tra la rivendicazione di un’autonoma scienza dell’amministrazione alla Ferraris e il primato di un diritto pubblico alla maniera di Orlando.
Attraverso squarci filosofici, storici e comparativi e uno stile ricchissimo di citazioni – i classici dell’economia politica, dell’antropologia dello Stato (Smith, Bodin e Hobbes) e della giuspubblicistica francese e inglese, la scienza tedesca di Stein e Roesler, il Tocqueville della continuità delle «istituzioni anteriori» alla rivoluzione, infine i teorici, fra cui Manna e Cenni, dei nessi tra costituzione e amministrazione – il libro si presentava come una «fisiologia» del corpo vivo dello Stato. Né Leviatano, né indifferente alla società (con Giambattista Vico, l’humanitas fra eguali), né «troppo» né «troppo poco» interventista, lo Stato non equivaleva più ai suoi impiegati, alle finanze, all’esercito, ai tribunali, ma al campo dell’«amministrazione sociale», una «forza collettiva» chiamata a disciplinare l’azione di classi e individui, nelle professioni, nelle arti e nelle industrie.
Interrogando i «confini» dell’amministrazione e attraverso l’antica lente della police, Persico riconosceva alla vita sociale una sfera più estesa della politica e al lavoro intellettuale il profilo di «una certa Repubblica» di artisti e scienziati, in perenne «stato di formazione», rispetto al centro fisso della sovranità (pp. 207 s., 307 s.).
Allo stesso modo, contro la «rettorica politica» sulle istituzioni, la polemica di Persico investiva quel ‘regime parlamentare’, che si era di fatto insinuato all’ombra della monarchia costituzionale e dello Statuto, spostando «il centro di gravità» dal re alle mutevoli maggioranze parlamentari, in nome del «Quod Concilio placuit» (Del regime parlamentare, 1885, pp. 4 s.).
La via d’uscita non consisteva nelle contraffazioni in Italia della vita politica all’inglese – quella costituzione, con le sue istituzioni «inviscerate» nella coscienza dell’Isola, era «un prodotto del suolo insulare senza parallelo nel resto del mondo» (pp. 11-13) – né nell’equivoco del self-government, «la contea inglese non è la provincia nostra e i borghi e le parrocchie somigliano pochissimo ai nostri comuni» (Le rappresentanze politiche e amministrative, 1885, rist. 1942, p. 38); neppure nelle illusioni del suffragio universale: si era creduto, con Rousseau, che il popolo fosse «un uomo solo, riprodotto e copiato in quaranta milioni di esemplari, matematicamente uguali» (p. 58).
Avverso allo scioglimento d’autorità dei comuni «per ordine pubblico» (Lo scioglimento dei Consigli Comunali, Napoli 1908, p. 4), la riforma di Persico – i rappresentanti intesi quali organi degli interessi di corpi costituenti e non delle volontà e delle opinioni – di cui più tardi il fascismo si sarebbe appropriato, come della profezia di un precursore dello Stato corporativo (Le rappresentanze, cit., pp. 5 s.), intendeva piuttosto «ricomporre» nello Stato i comuni, le città e le province, secondo un «triplice sistema elettorale» di collegi, ripartiti per classi e professioni, dove i voti «si pesano». Così nelle aule parlamentari sarebbe spettato alle città il moto del progresso, ai borghi e alle province un sincero «spirito conservatore» (pp. 192-200).
Alla pedagogia a mosaico della conservazione delle gerarchie sociali nell’unità dello Stato, consegnata a un ordine amministrativo e di corpi locali in movimento sotto la crosta dell’ordine politico, si sarebbe affiancata la scoperta parallela e non eccentrica del campo estetico, che convertiva la Bellezza in un principio d’ordine e il processo creativo in un «piacere dell’ordine», in funzione educativa (Lineamenti di estetica, 1912, pp. 5 s.; Dei sensi estetici, 1900, pp. 464-468).
Narratore, esperto musicale e critico letterario, Persico punteggiava la sua opera di scritti sull’arte e sulla letteratura, ispirati a un superiore «ordine morale».
Dall’incompiuto e mai pubblicato Cristo nell’arte, un trattato sulla bellezza (Dei sensi estetici, cit., p. 453) alla versione del Faust, fino ai confronti sistematici fra i maestri della letteratura nazionale: tra Dante, cattolico e ‘italiano’, come nel monumento a lui dedicato, edificato a Napoli dopo il 1860 (e di cui Persico fu convinto sottoscrittore), poeta dei tre mondi scolpiti per contrasto, e Petrarca, dall’opera varia e musicale, ma senza unità; tra Leopardi e Manzoni, con le loro metafore della vita, nel primo il «letto» scomodo e disperante dell’esistenza, nel secondo la vocazione a fare il bene (Due letti…, 1900, p. 4); tra Foscolo e Leopardi, i cui Canti «si impossessarono interamente di me» (Spigolando sul Leopardi, 1906, pp. 287, 295-298). Ancora la conferenza su Edgar Allan Poe e la sua poetica dell’‘allucinazione’, con la traduzione di To Helen, che il bostoniano aveva dedicato alla poetessa Sarah Helen Power (Edgardo Poe, 1876, pp. 21-27).
Nel 1916 fu fra i primi lettori delle conferenze londinesi dello storico John Adam Cramb sulla mistica della guerra, interrogandosi sulle cause del conflitto e sui due imperialismi tedesco e inglese.
Avvocato, vicepresidente del Circolo filologico di De Sanctis, socio dell’Accademia Pontaniana, tesoriere della Società Reale di Napoli, Persico morì a Napoli il 24 febbraio 1919.
Opere. Ermanno: racconto, Napoli 1856; J.W. Goethe, Fausto, tragedia tradotta in versi, Napoli 1861; Italia e Roma: riflessioni, Napoli 1865; Principi di diritto amministrativo, I-II, Napoli 1866-1874; Governo o Rivoluzione?, Napoli 1867; Edgardo Poe: conferenza tenuta nel circolo filologico il di 24 giugno 1876, Napoli 1876; Pergolesi, Napoli 1876; Scritti forensi di Roberto Savarese; raccolti e pubblicati per cura del prof. F. P. e preceduti da uno studio per l’avv. E. Cenni, Napoli 1876; La pietra nel cuore: racconto, Napoli 1878; Folia: canti e novelle, Bologna 1879; Del regime parlamentare: note critiche, Napoli 1885; Le rappresentanze politiche e amministrative: considerazioni e proposte, Napoli 1885, rist. 1942; Corso di scienza delle finanze del prof. F. P., Napoli 1892; Petrarca e Dante, Napoli 1893; Scienza o religione?, Firenze 1895; Il giurì inglese: nota letta alla R. Accademia di scienze morali e politiche della Società reale di Napoli, Napoli 1899; Dei sensi estetici, Napoli 1900; Due letti. A. Casanova e la Divina Commedia (1870-1878), Firenze 1900; Spigolando sul Leopardi, Napoli 1906; Lo scioglimento dei consigli comunali, Napoli 1908; Una questione leopardiana, Roma 1909; Lineamenti di estetica, Napoli 1912; Ripensando la ‘Scienza Nuova’, Firenze 1912; L’insegnamento della filosofia della storia, Napoli 1913; Germania e Inghilterra, Napoli 1916; Trentacinque giorni di carcere: memoria del socio F. P., Napoli 1918.
Fonti e Bibl.: Archivio centrale dello Stato, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione generale dell’istruzione superiore, Personale, Serie I, b. 116, ad nomen.
C. Mozzarelli - S. Nespor, Giuristi e scienze sociali nell’Italia, Venezia 1981, ad ind.; P. Beneduce, Il corpo eloquente, Bologna 1996, pp. 182 s.; A. Sandulli, Costruire lo Stato: la scienza del diritto amministrativo in Italia, 1800-1945, Milano 2009, ad indicem.