MAGGI, Federico
Figlio di Bertolino di Berardo senior (fratello, quest'ultimo, di Emanuele, fondatore della potenza politica della grande famiglia bresciana), nacque nell'ultimo decennio del Duecento dalla prima moglie (di cui si ignora il casato) di Bertolino. Fu avviato prestissimo alla carriera ecclesiastica, nell'ambito della strategia di controllo della Chiesa locale della sua casata; in assai giovane età divenne canonico della cattedrale, forse intorno al 1305.
La prima decisiva svolta della vita e della carriera del M. giunse poco più tardi, alla morte di Berardo Maggi vescovo e signore di Brescia (16 ott. 1308). Fu allora designato a signore della città Maffeo, fratello del vescovo e con lui leader della famiglia: uomo autorevole, anziano, con un cursus honorum ragguardevolissimo alle spalle, al quale va fatta risalire verosimilmente l'indicazione del M. come successore di Berardo sul soglio episcopale (a preferenza di altri canonici Maggi: Maffeo, fratello del M., e Mazzino, figlio di un altro fratello del vescovo Berardo). Come ricordò egli stesso in un documento di qualche anno dopo, indirizzato al metropolita milanese Cassone Della Torre, il M. fu eletto all'unanimità, nonostante il "defectus ordinum et aetatis", da un corpo elettorale forse abbastanza ampio (il capitolo, e "alii omnes ad quos, vacante ipsa ecclesia, episcopi electio spectat").
Nel dicembre 1308, accompagnato dal padre Bertolino e da Alberto abate di S. Faustino Maggiore, il giovane vescovo eletto si recò a Tolosa, presso papa Clemente V, per ottenere la dispensa dalla condizione di ineleggibilità e la conferma. Il 2 genn. 1309 il papa incaricò l'arcivescovo di Milano di esaminare, confermare e successivamente consacrare il M., al quale indirizzò un'altra lettera, datata 8 genn. 1309, autorizzandolo a irrogare pene canoniche per recuperare beni pertinenti alla mensa posseduti da Berardo Maggi "infirmitatis et obitus [(] tempore".
Nella sua cronaca, il notaio milanese Giovanni da Cermenate definisce il governo diarchico (il M. nell'episcopio, Maffeo nel Broletto) che da allora si venne a configurare in Brescia con le parole "regnabat clericus et laicus, utrumque gladium valida manu tenens". L'appoggio della potente consorteria familiare al giovane vescovo risulta del resto da vari indizi, come il sostegno finanziario assicurato mediante prestiti consistenti (segnatamente del padre) e la presenza nel palazzo episcopale dei canonici Maffeo e Mazzino (per es. il 27 febbr. 1309, quando il M. confermò all'abate di S. Faustino il privilegio ottenuto a Tolosa di portare le insegne episcopali). Nel segno della continuità con l'episcopato di Berardo, vanno ricordate poi altre circostanze: l'uso nei documenti vescovili (già dal 1309) degli appellativi "marchio, dux et comes" introdotti dal predecessore; il completamento del "liber magnus feudorum" dell'episcopato; e in generale la cura della documentazione amministrativa.
La pronta conferma papale dell'elezione del M. ebbe come ovvia contropartita il fattivo appoggio della signoria bresciana, e quindi del M., alla guerra contro Venezia per il controllo di Ferrara, iniziata nel 1308. Nella circostanza il M. non si limitò a imporre tasse al clero diocesano, ma a partire dal giugno 1309 si recò a Bologna presso il legato (più volte: "cepit ire", secondo la fonte; cfr. Archetti, p. 285 n. 227), e fu poi personalmente a Ferrara con 100 cavalieri.
In questi primi anni del suo episcopato il M. non trascurò del tutto il governo ecclesiastico (per il quale si avvalse anche di alcuni vicari, come il citato Maffeo Maggi e Simone di Santo Stefano Magra). Nel maggio 1309 convocò un sinodo diocesano, nel quale sancì norme già esistenti (confermando e integrando la legislazione di Berardo Maggi e degli altri vescovi bresciani del Duecento sulla vita comune e sulla collegialità), ma anche ne introdusse di nuove, attente agli aspetti della regolarità amministrativa.
Il 6 genn. 1311 il M. fu presente in Milano all'incoronazione di Enrico VII di Lussemburgo, al quale richiese la conferma dei privilegi della Chiesa vescovile bresciana (ma nella secolare questione con il vescovo di Vercelli per la precedenza nel cerimoniale fu posposto all'avversario, e dovette accontentarsi di sedere alla destra del metropolita all'incoronazione dell'imperatrice).
Poche settimane più tardi la situazione politica mutò radicalmente, con la ribellione dei guelfi bresciani, la cacciata del vicario imperiale (fine febbraio) e il successivo duro assedio di Brescia da parte dell'esercito di Enrico VII (maggio-ottobre 1311). Il M. si allontanò dalla città e nel luglio inviò il canonico Maffeo Maggi, suo fratello, al concilio provinciale convocato a Bergamo dall'arcivescovo Cassone Della Torre.
Rientrato in Brescia dopo la fine dell'assedio, il M. vi rimase nei mesi successivi (ora senza l'appoggio dell'autorità civile, essendo venuta meno la signoria dei Maggi), per sostenere il tentativo di mediazione operato per conto della Curia dal cardinale Luca Fieschi, per ripristinare il patrimonio preso di mira dai cittadini bresciani e tutelare i diritti dell'episcopio. Nel dicembre 1313, ad Alessandria, espose a Cassone Della Torre le critiche condizioni finanziarie dell'episcopio, in conseguenza delle quali due mesi prima (20 ottobre) aveva quantificato in 8793 fiorini la somma a lui mutuata senza interessi dal padre Bertolino, per tutte le questioni concernenti l'episcopato, dal 1309 in poi, impegnandosi a un'improbabile restituzione entro due anni.
In quegli anni la situazione politica bresciana rimase incerta. Il M. (che alla data del 1312 il Malvezzi definisce senz'altro "gibellinorum ductor") gravitò progressivamente nel partito ghibellino. A lui si rivolse nell'aprile 1313 Enrico VII, cercando appoggio attraverso i suoi emissari Rosso Gualandi e Vermiglio Alfani, ma il M. fece presenti le precarie condizioni economiche della città e appunto l'incertezza del quadro politico. Nello stesso anno, tuttavia, il M. ancora avallò la pacificazione civica stabilita a Gussago e sigillata da molti matrimoni fra esponenti delle due fazioni (compreso quello del padre del Maggi). Con tutta probabilità, rimase in città sino alla definitiva espulsione dei ghibellini, nel gennaio 1316, quando si rifugiò nella corte episcopale di Roccafranca, e partecipò successivamente all'attacco degli estrinseci e dei Visconti contro Cremona. Fu questa la svolta decisiva della vita del M., sul piano personale non meno che su quello politico: scomunicato e "rebellis Ecclesie", da allora in poi visse la vita del fuoruscito. Pochi mesi dopo, venne traslato "propter malam administrationem Ecclesie brixiensis" alla sede di Piacenza, della quale non prese mai possesso (e rinunciò formalmente a essa nel 1323), continuando invece a intitolarsi "episcopus Brixie".
Della vita del M. nel decennio successivo si sa poco: alcune fonti tarde lo dicono rifugiato dapprima a Verona e successivamente Milano, il che è plausibile trattandosi delle capitali del ghibellinismo italiano. Ricomparve alla ribalta in occasione della spedizione in Italia di Ludovico IV il Bavaro: con Guido Tarlati vescovo scomunicato di Arezzo al quale le fonti, e anche la storiografia recente, danno il maggior rilievo, talvolta equivocando sul nome del M.; fu lui infatti a incoronare Ludovico con la corona ferrea, a Milano (31 maggio 1327). Nei primi anni Trenta il M. è a Roccafranca, l'antico possesso episcopale; ma neppure la conquista del territorio bresciano da parte dei ghibellini gli valse il rientro in città, visto che Mastino (II) Della Scala gli ingiunse nell'occasione di "recedere de dicto castro Rochefranche cum gente sua".
Il M. morì a Milano il 21 marzo 1333, e fu sepolto nella chiesa domenicana di S. Eustorgio.
Si chiude con lui la serie due-trecentesca dei vescovi bresciani di origine locale; il suo episcopato coincide con la fine dell'autonomia politica della città di Brescia. Fu certo un uomo politico più che un pastore, com'era, ancora, nello spirito dei tempi: "vir armis deditus" (e narrando dell'incoronazione del 1327: "brixiensis civis et qui episcopatum tenuerat etsi a summo potifice Iohanne excomunicatus esset"), lo definisce senz'altro il Malvezzi. Ma il M. non merita forse il duro e moralistico giudizio che gli riserva la storiografia locale recente ("avventuriero ghibellino, più soldato che vescovo" lo definisce Guerrini).
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