FEDERICO II imperatore
Della casa degli Hohenstaufen, figlio di Enrico VI e di Costanza d'Altavilla, nacque a Iesi il 26 dicembre 1194. Quando il padre morì, F. non aveva che tre anni e il regno di Sicilia rimase dapprima affidato alla prudenza della madre di lui, Costanza d'Altavilla, che cercò di difendere come poté l'eredità dei suoi padri. Ma dopo la morte di Costanza, avvenuta nel 1198, esso fu preda contesa d'intriganti ed avventurieri, di nobili indigeni e di feudatarî tedeschi, di legati pontifici o di pretendenti alla successione dei Normanni. Anche la fortuna imperiale, con la morte prematura di Enrico VI, aveva subito un terribile colpo. Il sovrano morente aveva cercato di ovviare alla catastrofe, che egli prevedeva, con le disposizioni del suo testamento, nel quale riconosceva il regno di Sicilia come feudo della Chiesa, ponendolo così sotto la sua protezione, e cedeva al papato i beni matildini e gli antichi possessi reclamati dalla Chiesa nell'Italia centrale, come prezzo della corona imperiale che doveva cingere il capo di suo figlio. Ma tali disposizioni urtarono nei disegni del nuovo papa, il cardinale Lotario di Segni, salito al trono pontificio ml 1198 col nome di Innocenzo III, che si mostrò, sin dai suoi primi atti, fermamente deciso ad approfittare della momentanea crisi dell'impero per ristabilire la divisione fra esso e il regno di Sicilia, e attuare, nei rapporti con l'impero stesso, il programma papale.
Prima di morire, Costanza d'Altavilla, oltre a riconoscere per suo figlio il regno di Sicilia, come feudo della Chiesa, aveva posto il fanciullo sotto la tutela di Innocenzo III, il quale, gia accintosi con energia alla riconquista delle terre dell'Italia centrale, con doppio titolo di sovrano e di tutore si volgeva ora a far valere la sua autorità nel Regno. Quivi finalmente nel 1206, dopo circa 8 anni di disordini e di lotte fra l'infido Gualtieri di Palear, cancelliere del Regno, e Marcovaldo di Anweiler e Dietpoldo di Hohenburg, rappresentanti di quella feudalità tedesca che Costanza aveva combattuto, Innocenzo III riusciva ad affermare l'autorità della Chiesa e a farsi consegnare il real giovinetto che era stato nei suoi primi anni conteso, quasi come ostaggio e prigioniero, dagli stessi predatori del suo regno.
Precoce di mente e di sviluppo fisico, F. a soli 14 anni, per consiglio d'Innocenzo III, si proclamò maggiorenne e sposò Costanza d'Aragona, e pareva che almeno il regno di Sicilia gli fosse assicurato, quando una tremenda tempesta minacciò di sommergerlo definitivamente. In Germania, ucciso nel 1208 Filippo di Svevia, eletto re alla morte del fratello Enrico VI, parve trionfasse Ottone di Baviera, portato dai guelfi e ora appoggiato dal papa che cercò d'ottener da lui, dietro promessa dell'impero, la conferma delle terre dell'Italia centrale già cedute alla Chiesa nel 1201 e l'impegno di rispettare il regno di Sicilia. Ottone diede assicurazioni generiche che poi, avuto l'impero, non mantenne, mettendosi contro la Chiesa, accampando, come marito di Beatrice figlia di Filippo di Svevia, diritti sull'eredità siciliana e conquistandone gran parte. Venne allora la scomunica d'Innocenzo che gli suscitò contro la Germania e gli oppose come re Federico di Sicilia. Il giovane sovrano che si era già visto perduto e si apprestava a salvarsi con la fuga in Africa, si volse perciò, con un fortunoso viaggio, alla Germania per assicurare alla sua famiglia, con quella corona, il trono di Sicilia e acquistare il diadema imperiale. Il pontefice, d'altronde, la cui cura costante era sempre stata di tener separato il regno di Sicilia dall'impero, solo stretto dalla necessità si era deciso a contrapporlo a Ottone; e solo dopo aver ottenuto dal pupillo, il quale, con lo statuto di S. Germano, aveva già fatto importanti concessioni alla Chiesa, la promessa che avrebbe ceduto il regno al figlio Enrico. Intanto, per la morte della moglie, Beatrice di Svevia, Ottone aveva perduto ogni titolo giuridico per intromettersi nel regno di Sicilia, e contro di lui s'era armata la potenza di Filippo Augusto di Francia che in Ottone IV vedeva il pericoloso alleato della nemica casa reale d'Inghilterra. A Bouvines, nel 1214, Ottone IV venne battuto da Filippo Augusto: la sconfitta sanzionò la sua decadenza da re di Germania e da imperatore, e il trionfo di F. La rapida fortuna e l'improvvisa caduta di Ottone IV apparvero come segno tremendo della potenza conseguita dal papato, e Innocenzo III non esitò a proclamare ciò apertamente nel concilio lateranense del 1215, che consacrò solennemente il suo trionfo. Un anno dopo egli moriva.
Federico imperatore. - F. aveva allora 20 anni. Re di Germania, re di Sicilia e di Puglia, designato all'impero, liberato dall'opprimente tutela del grande pontefice, egli s'apprestava ormai a svolgere un'azione politica personale, con la maturità che gli avevano dato e il suo ingegno precoce e l'esperienza penosa, ma utile, che egli aveva fatto degli uomini fin dai suoi primi anni. Segregato infatti nel palazzo reale di Palermo, abbandonato da tutti, derubato da quelli stessi che si vantavano suoi difensori, costretto a vivere in certi momenti delle contribuzioni spontanee di alcune città egli aveva imparato ben presto a non fidarsi ciecamente di nessuno, a dissimulare il suo pensiero e ad affermare la sua volontà, quando l'occasione gliene desse il destro, con tutti i mezzi, non escluso il tradimento. Si era dato anche con avidità, come egli stesso ebbe a dire, agli studî, mostrando fin dai primi suoi anni la potenza del suo ingegno profondo e versatile e impadronendosi rapidamente, sotto la guida di Nicola arcivescovo di Taranto e del notaio Giovanni di Traietto, di quella cultura greco-araba che i Normanni avevano promossa in Sicilia. Ancor giovane, aveva appreso a parlare le lingue dei popoli sui quali doveva estendersi poi il suo dominio: il latino, il greco, l'arabo, il francese, il tedesco, e a soli 20 anni egli era già nel pieno fiorire delle sue forze fisiche e spirituali. I contemporanei ce lo descrivono di statura non alta, ma ben proporzionato, rosso di capelli, di aspetto non bello ma attraente e pieno di maestà, abile nelle arti cavalleresche e specialmente nella caccia col falcone che fu una delle sue più vive passioni, raffinato e avido di piaceri materiali non meno che incline ai diletti dello spirito, spietato contro i suoi nemici, talvolta anche crudele animato da un concetto altissimo del suo potere che cercò di affermare sempre e dovunque con un'incrollabile dispotica volontà, o con le arti della più consumata dissimulazione.
Successo a Innocenzo III il papa Onorio III, di carattere mite e indeciso, F. cominciò a rivelare abbastanza chiaramente gl'intenti e i modi della sua politica. Assicuratosi della Germania, dando ai principi nuovi privilegi a danno del potere monarchico e delle città e cedendo al re danese l'Albingia settentrionale che era stata faticosa conquista di Enrico il Leone - e si mostrava, così, estraneo alla vita nazionale della Germania -, F. si volse impaziente a riordinare il regno di Sicilia, che era e fu sempre il prediletto fra i suoi dominî. Ma, prima di tornare in Italia, era già riuscito a prendere il sopravvento sul debole Onorio III. Ottenuta dal pontefice una dilazione per la crociata, bandita nel concilio lateranense per il 1 giugno 1216 e affidata come dovere indeclinabile al nuovo imperatore, rinnovò nella bolla di Hagenau (1219) tutti gl'impegni già assunti verso la Chiesa e ne ebbe in compenso di poter conservare, vita natural durante, il regno di Sicilia, mentre, all'insaputa del pontefice, nella dieta di Francoforte (1220) faceva eleggere dai principi il piccolo figlio Enrico re dei Romani. Calmate quindi con abili scuse lo proteste pontificie, avendo di nuovo promesso d'intraprendere la crociata fra 9 mesi e di governare la Sicilia con amministrazione separata da quella imperiale, il 22 novembre 1220 fu solennemente coronato imperatore in S. Pietro.
Riordinamento del regno di Sicilia. - Le condizioni del regno di Sicilia erano molto tristi. Per le lotte scatenatesi durante la minore età di F., era scaduta l'autorità regia di fronte alla prepotenza dei baroni normanni e tedeschi, era stato dilapidato il tesoro della corona, impoverito il paese. Gli Arabi ribelli, rifugiatisi sulle montagne, con una guerriglia sfibrante opponevano una resistenza accanita a ogni tentativo di sottomissione. Già F. aveva dato prova della sua ferrea volontà quando, nel 1208, aveva fatto imprigionare i baroni più riottosi e ne aveva confiscato i beni. Ma ora, con ben altre forze, si accingeva a un'opera completa di restaurazione. Sceltisi come collaboratori il giurista famoso Roffredo di Viterbo e il notaio Pier della Vigna, oscuro cittadino di Capua, revocò molte concessioni feudali, fatte anche a parenti d'Innocenzo III, riordinò l'amministrazione della giustizia, fece demolire fortezze erette abusivamente, ordinò una revisione di tutti i titoli di possesso, ma soprattutto abbatté, con le armi e con l'inganno, la potenza del conte di Celano, che gli aveva resistito a lungo accanitamente, e riuscì a domare la rivolta dei Saraceni, che, trasferiti a Lucera in Puglia, come già gli abitanti di Celano erano stati trapiantati a Malta, costituirono, quivi organizzati in fiorente colonia agricola e militare, uno dei primi esempî di esercito regio, certo il contingente di soldati più devoti all'imperatore. Fatti poi imprigionare i conti di Fondi e Tricarico, fautori di Ottone IV, e arricchito il tesoro della corona con la confisca dei loro beni, egli riuscì infine a sbarazzarsi, con l'esilio, anche dell'invadente cancelliere Gualtieri di Palear, prendendo a pretesto la caduta di Damietta, che egli era stato inviato invano a soccorrere. A coronamento della sua opera, protesse e incoraggiò il commercio, l'industria e l'agricoltura; sostituì al vecchio tarì amalfitano la nuova moneta imperiale, l'augustale, restaurò palazzi regi, fece costruire una nuova reggia a Foggia e fondò in Napoli uno studio universale di tutte le scienze perché i suoi sudditi non fossero costretti a uscire dal regno per istruirsi (1224).
Tutta questa attività riorganizzatrice che doveva, in un secondo momento, fatalmente traboccare oltre i confini del regno, non poteva che mettere in apprensione il pontefice che, d'altra parte, insisteva perché l'imperatore partisse per la crociata. Ma F. con scuse, con promesse, con luginghe riuscì a ottenere sempre uuove dilazioni e poté consolidare cosi la sua potenza. Mortagli nel 1223 la prima moglie, passò nel 1225 a nuove nozze con Isabella figlia di Giovanni di Brienne, erede del titolo di re di Gerusalemme; e con il pretesto di provvedere all'organizzazione della crociata, convocò una dieta a Cremona con l'intento d'imporre la sua autorità ai comuni dell'Alta Italia. Ma i comuni, diffidando dell'imperatore, risposero all'invito rinnovando la Lega lombarda (1226). Onorio III, nell'interesse della crociata, s'interpose come paciere. Mentre però duravano le trattative, morì e gli successe, col titolo di Gregorio IX, il vecchio cardinale Ugolino Conti, parente del grande Innocenzo ed erede della sua politica, cui l'età avanzata non attenuava gl'impeti di un carattere ferreo e intransigente.
Lotta con il papato. - Con l'avvento al soglio pontificio di Gregorio IX, la lotta che si era andata delineando tra papato e impero, sotto Onorio III, scoppiò in guerra aperta. Il nuovo pontefice, senza por tempo in mezzo, impose bruscamente all'imperatore, pena la scomunica, di partire per la crociata e F. dové chinare il capo. Ma, partito da Brindisi nell'agosto del 1227 e ritornato di lì a pochi giorni per un'epidemia scoppiata a bordo delle navi, fu subito scomunicato dal pontefice, il quale, senza ascoltare ragioni, colpì d'interdetto ogni terra ove il sovrano avesse fissato la residenza, ed eccitò tutti i popoli cristiani contro l'imperatore traditore del S. Sepolcro. Gregorio IX tentava così di colpire in pieno la pericolosa potenza di F. L'imperatore, dal canto suo, elevò proteste, denunciando l'avidità di domini temporali della Chiesa, costrinse il clero a celebrare nonostante l'interdetto e si preparò attivamente a riprendere la crociata interrotta. Partì effettivamente nel giugno 1228 e, con un trattato col sultano al-Kāmil, ottenne pacificamente Gerusalemme, dove, nella chiesa del S. Sepolcro, s'incoronò re per i diritti venutigli sposando Isabella di Brienne. Intanto, durante la sua assenza, un esercito di "Clavisignati", raccolti dal pontefice, conquistava e devastava il regno di Puglia e di Sicilia. Ritornato F. e riconquistati i suoi dominî quasi senza colpo ferire, Gregorio IX fu costretto dalla sconfitta a piegarsi alla pace, che fu segnata a San Germano il 23 luglio 1230, sulla base del proscioglimento dell'imperatore dalla scomunica e della restituzione alla Chiesa delle terre occupate. Ma fu una tregua più che una pace, poiché il conflitto doveva risorgere di lì a poco più aspro e insanabile.
Il concetto dello stato e la legislazione di F. - F. approfittò della tregua per continuare quell'opera di riorganizzazione del regno di Sicilia, che aveva iniziata fin dal 1221, e cha gli valse presso i posteri la fama di sovrano illuminato e anticipatore dei modi e dei concetti dello stato moderno. Rivendicando l'imperiale ius legis condendae e richiamandosi all'esempio di Teodosio e di Giustiniano, egli promulgò da Melfi, nel 1231, un nuovo corpo di costituzioni raccolte nel Liber Augustalis, dalle quali doveva uscire completamente rinnovata l'amministrazione del regno.
Il concetto fondamentale che domina tutta la legislazione di F. è il concetto romano dell'assolutismo del monarca che, attraverso una scala gerarchica di funzionarî da lui direttamente dipendenti, esercita tutti i poteri dello stato. A capo di tutta l'amministrazione egli mantenne i sette grandi ufficiali del regno normanno, il gran cancelliere, il gran contestabile, il grande ammiraglio, il gran giustiziere, il gran protonotaro, il gran camerario, il gran siniscalco. Questi costituivano il consiglio della corona e da essi dipendevano gli ufficiali minori, i giustizieri provinciali, i giudici, i notai, i maestri camerarî, i procuratori del demanio, i collettori, i tesorieri. L'amministrazione della giustizia criminale era tolta completamente ai baroni e questa disposizione, insieme con la protezione accordata ai vassalli, che avevano diritto ad appellarsi alla giustizia regia contro i loro signori, costituì un fiero colpo per la feudalità. L'esazione delle imposte era completamente riorganizzata, quantunque sotto F., per la necessità stessa della sua politica, la pressione tributaria si mantenesse molto elevata. La principale imposta diretta era l'imposta fondiaria detta collecta ordinaria, che si pagava annualmente. Così, per aumentare i redditi del fisco, F. riservò allo stato il monopolio del sale, del ferro, del rame, della seta, ma intuì anche i vantaggi del libero commercio, abbassando il diritto d'esportazione del grano e sopprimendo le dogane inteme. Si occupò molto dell'agricoltura, creando regiae massariae modello, vietando il sequestro, per causa di debiti, dei buoi e degli strumenti agricoli. Per aumentare i centri di popolazione, fondò le città di Augusta, Monteleone, Aquila, e ai borghesi delle città concesse di partecipare, ogni sei mesi, a una corte di baroni e di prelati che doveva accogliere le querele contro i pubblici ufficiali. Ma, come aveva abbassato la potenza feudale, così soppresse, dove esistevano, le libertà cittadine, inviando in ogni città un balio di sua nomina. Osservando nel suo complesso l'opera di F. nel regno, non si può che restare ammirati di fronte alla modernità di certe sue vedute; ma non bisogna nemmeno dimenticare la precedente opera dei Normanni, né il carattere un po' orientale del dispotismo di F., con la caratteristica confusione di poteri amministrativi e giudiziarî nelle mani di uno stesso funzionario: causa questa di soprusi e irregolarità che non poterono mai sopprimersi, nemmeno col complesso sistema di controlli escogitato dall'imperatore. Inoltre, la riorganizzazione del regno di Sicilia recava in sé un vizio d'origine: era essenzialmente l'attuazione di concetti personali di un grande spirito piuttosto che l'assetto naturale di nuove condizioni di vita sorte nel regno. Poiché F., forse per la potenza stessa del suo genio, si è spesso lanciato al di là delle condizioni del suo tempo, perdendo il vivo senso della realtà. Anima di autocrate egocentrico, egli menava un tremendo colpo al feudalesimo senza appoggiarsi alla borghesia delle città, lottava contro il papato senza cercare l'alleanza di tutte le forze che gli potevano essere alleate. Padrone d'immense ricchezze, raccolte con le confische e con un fiscalismo che dovunque gli moltiplicava i nemici, egli s'illudeva di vedere tutto, di provvedere a tutto, di bastare a tutto da solo e non prevedeva che appunto in questo isolamento era il pericolo della monarchia siciliana, resa gloriosa dalla luce del suo genio, ma destinata a soccombere con lui. Anche nella lotta contro il papato e i comuni, F. rivela la mancanza di un 'esatto senso della realtà. Per un errore di prospettiva, egli non vedeva la forza reale della Chiesa e s'illudeva, guardando ai segni esteriori della rivolta ereticale e laica contro la proprietà ecclesiastica, che la potenza politica del papato fosse esaurita; come s'illuderà poi di aver vinto, con una battaglia fortunata, quei comuni dell'Italia settentrionale, i quali attraverso furiose lotte interne ed esterne si avviavano verso la signoria riassumendo in sé tutto il vivo complesso delle nuove forze economiche che, radicate nelle città, andavano unificando le regioni attraverso la rete fittissima dei nuovi interessi.
La lotta con i comuni. - Riordinato il regno di Sicilia, F. volle estendere la sua influenza su tutta l'Italia, trovando naturalmente collegati contro di sé i comuni e il papa. Quando infatti egli pretese nel 1231 il giuramento di omaggio dai comuni lombardi, il pontefice s'interpose fra i contendenti, ma lasciò poi la cura di comporre la pace fra comuni e impero a frate Giovanni da Vicenza, che sollevava allora vampate di entusiasmo mistico in tutta l'Italia settentrionale. Questi formulò un progetto, per cui i Lombardi non avevano altro obbligo verso l'imperatore che quello di prestargli un servizio di 500 uomini ogni due anni. La lega accettò e accettò, sebbene a malincuore, anche F. Sennonché, caduta la breve fortuna di Giovanni da Vicenza, l'accordo segnato fu rotto dalla lega. Intanto F. aveva dovuto domare una rivolta in Sicilia e accorrere in Germania, dove gli si era ribellato il figlio Enrico, intorno a cui s'erano raggruppati gli scontenti della politica antinazionale dell'imperatore. Enrico fu vinto e inviato prigione in Puglia e al suo posto fu dai principi nominato re dei Romani il secondogenito Corrado. Tornato in Italia, F. si volse, con l'aiuto dei principi tedeschi, a domare la Lega lombarda. Invano il papa l'ammonì a non turbare la pace, in vista della prossima crociata: F. ormai rivendicava apertamente all'impero il dominio incontrastato di tutta la penisola. Occupate Vicenza, Treviso e Mantova, affrontò l'esercito della lega a Cortenuova e riuscì a sconfiggerlo completamente, impadronendosi perfino del carroccio di Milano (1237). F. menò gran vanto di quesia vittoria e inviò a Roma il carroccio come trofeo, perché fosse degnamente custodito nella sede dell'impero. Ma la vittoria non risolveva la situazione, e se Lodi, Vercelli, Novara, Torino, Alba, Cremona si diedero al vincitore, Milano, Alessandria e Brescia resistevano gagliardamente e sotto le mura di Brescia, invano assediata per due mesi, si può dire che F. perdé tutti i vantaggi ottenuti.
La nuova lotta contro il papato. - Intanto, anche le relazioni col papato precipitavano verso una nuova rottura. A renderle più aspre contribuì F. sposando ad Adelasia, vedova di Ubaldo Viscont1, giudice di Torres e di Gallura, suo figlio Enzo, cui concesse il titolo di re di Sardegna. La Chiesa vedeva così sfuggirsi l'eredità che Adelasia le aveva promesso. Il 20 marzo 1239 Gregorio IX scomunicava di nuovo l'imperatore, come eretico sovvertitore dei privilegi ecclesiastici e predatore della proprietà della Chiesa. F. protestò contro la taccia di eresia e denunciò a tutti i sovrani il pericolo comune che loro sovrastava per l'avidità del papato. La disputa degenerò d'ambo le parti in polemica violentissima, condotta con le accuse più atroci e i libelli più infamanti, e da parte di F. con i più gravi provvedimenti contro gli ecclesiastici del regno. Intanto, l'azione militare condotta dall'imperatore senza un piano organico procedeva incerta e con insuccessi. Invano egli tentò di impadronirsi di Bologna e di Milano; invano tentò di domare la rivolta di Treviso e Ravenna. Qualche fortuna ebbe in Toscana e nella Lunigiana, donde si avanzò verso Roma per impadronirsi della persona del pontefice. Ma il popolo, eccitato da Gregorio IX, uscito dal Laterano portando in processione le teste degli Apostoli, seppe sventare il disegno dell'imperatore che rientrò subito nel regno di Sicilia. Gregorio IX convocò allora un concilio a Roma per deporre l'imperatore, e Genova diede le sue navi per portare in Italia specialmente i prelati di Francia e d'Inghilterra. Fra la Meloria e l'isola del Giglio la flotta genovese fu sconfitta da Enzo re di Sardegna e le varie centinaia di vescovi e arcivescovi caduti nelle mani dell'imperatore furono inviati prigionieri nel Regno. Mentre però la lotta riardeva, dopo vani tentativi di pace, Gregorio IX moriva quasi centenario (1241) e gli succedeva Innocenzo IV della famiglia genovese dei Fieschi.
Col nuovo papa si riannodarono le trattative di pace che si protrassero a lungo, mentre il pontefice suscitava contro l'imperatore, nell'imperiale città di Parma, la nuova fazione dei Rossi, incitava alla ribellione in Toscana il conte Guido Guerra, e scioglieva come illegittimo il matrimonio di Enzo con Adelasia. Ciò nonostante, l'imperatore, ormai sfiduciato, trattava ancora per un concordato che avrebbe forse segnato la sua completa sottomissione alla chiesa, quando Innocenzo IV improvvisamente fuggì da Roma e con le navi di Genova si rifugiò a Lione. Quivi convocò un nuovo concilio per il 24 giugno del 1245, nel quale solennemente scomunicò e depose l'imperatore e contro di lui bandì la crociata di tutti i popoli cristiani. Invano F. inviò a Lione Taddeo di Suessa che con eloquenza appassionata difese la sua causa; invano tentò di nuovo di giustificarsi e di giungere a un accordo. Il papato aveva decretato ormai inesorabilmente la sua condanna e la rovina degli Svevi. Contro il deposto imperatore fu eletto Enrico Raspe, margravio di Turingia, e dovunque scoppiarono sommosse e congiure. Parma cadde in mano dei Rossi. Molti dei Siciliani innalzati al potere da F., quali Pandolfo di Fasanella, vicario in Toscana, i De Morra, Tebaldo Francisco, podestà di Parma, tradirono. Una congiura doveva spegnere lo stesso imperatore e suo figlio Enzo. Ma F. sventò la congiura, punì con la morte Tebaldo Francisco e, con l'aiuto di Enzo ed Ezzelino da Romano, riuscì a tornare in possesso di Parma che punì del suo tradimento con supplizî atroci. Morto improvvisamente il margravio di Turingia, egli cercò ancora di venire a un accordo col pontefice e si avviava egli stesso a Lione, quando lo fece tornare rapidamente sui suoi passi l'annunzio di una nuova rivolta di Parma. Deciso a cancellare la città infedele dalla faccia della terra e a ridurla un mucchio di macerie, la cinse d'assedio e dette il nome augurale di Vittoria alla città di tende che egli le aveva eretta vicino. Ma gli assediati riuscirono a sorprendere Vittoria e a distruggerla una mattina, mentre egli era alla caccia col falcone (1248). Taddeo di Suessa fu tra gli uccisi; lo stesso tesoro e l'harem dell'imperatore caddero in mano dei vincitori; a stento F., troppo tardi accorso sul campo di battaglia, si salvò con la fuga. Ritiratosi a Cremona, di là continuò la guerra, senza mai perdere la fatale illusione di venire a un accordo con il pontefice. Quivi, diffidente per natura e costretto a guardarsi dal tradimento dovunque nascosto, fece imprigionare il cancelliere Pier della Vigna, che per tanti anni era stato il collaboratore fedele della sua opera politica, ora accusato di un accordo segreto col papa e col medico di corte per avvelenare l'imperatore. Fattolo accecare F. ne ordinò il processo; ma il già potente ministro vi si sottrasse col suicidio. Ad aggravare la situazione di F., suo figlio Enzo, nella battaglia di Fossalta, cadde nelle mani dei Bolognesi, che lo tennero prigioniero fino alla sua morte; e al margravio di Turingia fu dato come successore Guglielmo d'Olanda. La lotta seguitava, così, implacabile, e già pareva che nuovi successi venissero a sorridere all'imperatore in Germania, dove Guglielmo d'Olanda era stato sconfitto da Corrado, e nell'Italia settentrionale, dove Ezzelino era riuscito a riaffermare in parte l'autorità imperiale, quando F., colpito da un attacco di febbri intestinali, venne improvvisamente a morte nel castello di Fiorentino in Puglia, il 13 dicembre 1250.
F. e la vita intellettuale alla sua corte. - La Sicilia durante il Medioevo, come naturale punto d'incontro di tre civiltà, la greca, la latina e l'araba, era il terreno più adatto per lo sviluppo di un fiorente centro di cultura; e i Normanni, fin dal tempo di Ruggiero I, si erano resi benemeriti verso la civiltà europea accordando protezione ai geografi arabi e promovendo le traduzioni dal greco delle opere dei grandi astronomi e dei grandi matematici dell'antichità. Si deve però a F., che mostrò sempre un interesse vivissimo per tutto ciò che riguardava la cultura, e protesse e favorì con munificenza scienziati, poeti, artisti, se la corte di Palermo divenne, nel sec. XIII, centro splendido d'intensa vita intellettuale e culla della prima poesia artistica italiana. Le relazioni personali di F. con molti poeti provenzali o provenzaleggianti, fra i quali Aimerico de Peguilhan, Folchetto de Romans, Guglielmo Figueira, Lanfranco Cigala, e lo stesso Sordello, oltre ai legami che univano la Provenza all'impero, avevano posto in onore alla corte sveva, dove convenivano i più colti spiriti del tempo e dove Pier della Vigna aveva già acquistato fama di maestro insigne nell'ars dictandi, il gusto della concettosa poesia provenzale, già largamente diffusa sin dal sec. XII nelle corti signorili dell'Italia settentrionale. Così, seguendo l'esempio stesso dell'imperatore, i più alti dignitarî della corte non sdegnarono d'intramezzare alla trattazione degli affari di stato la composizione di convenzionali versi d'amore alla moda di Provenza. È questa l'origine della scuola poetica siciliana che i modi e i concetti della poesia provenzale trasportò per la prima volta in quel volgare italiano, formatosi con infiltrazioni di varî dialetti nell'idioma siciliano e affermatosi in forme abbastanza determinate perso il principio del sec. XIII, nella corte sveva. oltre a F., furono poeti di questa scuola i suoi figli Enzo, Manfredi e Federico d'Antiochia, suo suocero Gualtieri di Brienne, Pier della Vigna, Iacopo da Lentini, Ruggero Amici, Iacopo Mostacci, Arrigo Testa, Guido delle Colonne, Rinaldo e Iacopo d'Aquino, Percivalle Doria, Folco Ruffo, Giacomino Pugliese, Odo delle Colonne, tutti più o meno legati all'imperatore con uffici nella corte o nell'amministrazione sveva.
Ma se notevolissima fu l'importanza della scuola siciliana per lo sviluppo della prima letteratura italiana, non meno originali e notevoli furono gli apporti di cui il pensiero scientifico va debitore a F. Già, per la natura del suo stesso ingegno egli era portato più alla scienza che non alla poesia. Egli considerava inoltre la cultura non solo come l'ornamento più pregiato della sua corte fastosa, non solo come il nutrimento più sostanzioso del suo spirito avido di conoscere, ma anche come uno degli strumenti più potenti per regnare. In ciò egli rivela la modernità del suo spirito; e per questo suo concetto dell'importanza della cultura come strumento di dominio si comprendono pienamente i controlli burocratici con i quali inceppò il libero svolgersi della vita universitaria della scuola medica di Salerno, e la creazione dell'università di Napoli, sorta perché i giovani del suo regno non fossero costretti a frequentare le università guelfe del nord, prima fra tutte quella di Bologna. Ma più che nelle università voleva che la cultura del suo tempo avesse il suo centro principale nella sua stessa corte e fosse sotto il suo diretto controllo. Così attrasse presso di sé, con larghi compensi, filosofi e scienziati; e poeti, uomini di scienza e filosofi ebbero alla sua corte cariche ufficiali di notari, di giudici, di falconieri. A differenza dei Normanni, che avevano in gran parte subito l'influenza dell'antica scienza greca, F. diede un indirizzo in parte nuovo al pensiero scientifico del suo tempo concedendo le sue preferenze alla cultura araba e spingendo spesso gli studiosi verso nuovi problemi riguardanti specialmente le scienze esatte e la natura. A ciò lo portavano le influenze arabe della sua formazione, la natura del suo ingegno e le relazioni che sempre ebbe con il mondo culturale dell'Oriente. L' influenza della civiltà araba su F. fu notevolissima e autorizzò in parte il titolo che gli fu dato di "sultano battezzato". L' ardente giovinetto, che era cresciuto nel fasto orientale della reggia di Palermo, si era sin dai primi anni adusato alla vita e ai costumi arabi. Praticava, con scandalo di molti suoi contemporanei, l'uso frequente del bagno; schiere di danzatrici rallegravano i suoi banchetti; fin dal suo primo matrimonio si era costituito nella corte un harem. Perfino un serraglio di belve, fra le quali figuravano un elefante, una giraffa e dei leopardi, lo seguiva ovunque, e contribuiva ad aumentare, agli occhi dei contemporanei, il carattere di sovrano quasi orientale che ebbe F. E relazioni più che amichevoli ebbe col sultano d'Egitto al-Malik alKāmil e con quello di Tunisi, con i quali amava scambiare donativi e intrecciare epistolarmente delle dispute specialmente su questioni di matematica. Anche nella sua concezione politica egli risente del concetto dispotico del potere dei sovrani d'Oriente, dei quali arrivò perfino a invidiare la sorte, non avendo essi da combattere contro il potere religioso. Così, durante la crociata, egli studiò la logica aristotelica sotto la guida di un maestro arabo, compose poi un grande trattato De arte venandi cum avibus, dedicato al figlio Manfredi e da questo compiuto, e incoraggiò ricerche in varî campi della scienza, ascoltando e promovendo discussioni scientifiche, i cui enunciati venivano inviati largamente per la soluzione a tutti i dotti del tempo. Il De arte venandi cum avibus è l'opera però che meglio dà prova dell'originale ingegno di F. In questa opera egli pose a contributo gli scritti di coloro che lo avevano preceduto, incominciando dal De animalibus di Aristotele; ma sfruttò anche mirabilmente la sua personale esperienza, rivelando acuto spirito d'osservazione, capacità di lavoro metodico e acume critico. Il suo trattato di falconeria divenne così un vero trattato di ornitologia dove si studiano le abitudini, la vita, le differenze anatomiche, il piumaggio delle principali specie di uccelli. Le osservazioni personali dell'autore sono spesso convalidate da esperienze. F. stesso espone quelle fatte o tentate per rendersi conto dell'astuzia delle gru e per appurare se gli avvoltoi percepiscano la preda con l'odorato oppure con la vista. I nemici di F., cominciando dal pontefice, gli attribuirono anche il trattato De tribus impostoribus, attribuito anche a tanti altri, che mostra come Mosè, Crisio e Maometto abbiano ingannato l'umanità: ma l'attribuzione è destituita di ogni fondamento.
Se tutti i cortigiani di F. si occuparono più o meno di poesia e di scienza, due ebbero nella sua corte il titolo ufficiale di filosofo e di astrologo: Michele Scoto, raopresentante della cultura scolastica della Spagna, e il greco, forse giudeo, Teodoro, mandato a F., circa il 1236, forse dal sultano d'Egitto. Michele Scoto fece per l'imperatore un sommario latino del trattato di Avicenna De animalibus e lavorò a una serie di scritti di astrologia, metereologia e fisiognomia, tutti dedicati all'imperatore. I suoi principali trattati di astrologia sono il Liber introductorius e il Liber particularis. Teodoro fu astrologo, scrittore in arabo, traduttore dall'arabo, manipolatore di sciroppi. Per l'imperatore, estrasse un trattato d'igiene dal Secretum Secretorum dello pseudo Aristotele, e fece una versione latina del trattato di falconeria e di cani di un certo Moamyn, falconi ere arabo di F. Ma vicino a questi maggiori troviamo anche nominati un magister Dominicus, di cui non abbiamo altre notizie, e un mastro Giovanni di Palermo. Questi mise in relazione l'imperatore col famoso matematico Leonardo di Pisa, che gli dedicò poi il suo Liber quadratorum, con la soluzione di varî e difficili problemi. E anche a Giudei, oltre che ad Arabi, concesse F. la sua protezione. Figurano fra questi Ya‛cōb Anatoli, traduttore del commento alla logica di Averroè e dell'Almagesto di Tolomeo, e Yěhūdāh ben Shelomo Kohen. Così il trattato Le Régime du corps (o de santé) di Aldobrandino da Siena, scritto per la contessa Beatrice di Provenza, appare, in certi antichi manoscritti, come tradotto nel 1234 dal greco in latino e dal latino in francese per ordine di F., al cui impulso si devono anche il primo trattato occidentale di veterinaria del calabrese Giordano Ruffo, maresciallo imperiale, il poema sui bagni di Pozzuoli di Pietro da Eboli e il trattato di Adamo di Cremona sull'igiene di un'armata crociata. Indifferente alle questioni religiose e alle alte questioni metafisiche, sì che non appare aver esercitato grande influenza su di lui l'averroismo, certo dominante nella sua corte, F. rivela anche nell'indirizzo che egli diede alla cultura uno spirito acuto e spregiudicato, portato verso le scienze esatte e vòlto più che altro all'indagine e all'osservazione della natura. Protesse e favorì anche l'arte e costrusse regge e castelli, tra i quali la superba mole ottagona di Castel del Monte in Puglia ricorda ancor oggi la sua munificenza e l'originalità del suo spirito.
La figura di Federico II. - F. fu una delle più originali e complesse figure di sovrano che la storia ricordi. Essa esercitò un fascino potente sui contemporanei e sui posteri; e anche i nemici più fieri riconobbero la grandezza che emanava dalla potente personalità del nipute del Barbarossa. Ricco di vizî e di virtù, come ci appare anche dai ritratti dei contemporanei, F. si trova a cavallo tra due epoche e mentre dell'una e dell'altra risente pregiudizî o influenze, presagisce nuovi atteggiamenti. Egli ci si mostra infatti ora osservatore spregiudicato e acuto della natura, ora facilmente credulo nelle profezie degli astrologi; ammiratore deil'armonica costruzione della logica di Aristotele e curioso indagatore di fenomeni naturali, vagliati con fine acume critico. Nella politica, è astuto e violento, veramente volpe e leone, insofferente di ostacoli, tenace nel difendere le sue posizioni a viso aperto, dissimulatore abilissimo del suo pensiero e pronto a rinnegare persone e idee, solo preoccupato del fine da raggiungere. Egli anticipa Cesare Borgia ed è, nello stesso tempo, il nipote del Barbarossa che combatte per l'ideale della supremazia imperiale. In lui confluiscono tre civiltà: la latino-germanica, la normanna, l'araba: dagli Svevi ereditò gl'ideali della politica imperiale, dai Normanni derivò in parte i sistemi del governo accentratore, dagli Arabi l'amore alla cultura e le abitudini orientali di una vita di sfarzo e di piacere; ma questi diversi elementi della sua origine e della sua formazione trovarono la loro sintesi in uno spirito originale e potente, in cui già appare in germe il tipo del nuovo uomo del Rinascimento, spregiudicato, conscio della sua forza e indirizzantesi verso campi della scienza e della natura con l'avida curiosità e il desiderio di conquista della sua potente individualità.
Anche nelle sue idee religiose, egli si avvicina inconsciamente allo spirito del Rinascimento, poiché egli né vagheggiò con sincerità di spirito l'ideale della riforma pauperistica della chiesa, come alcuni vogliono, né fu del tutto lo scettico razionalista che altri, esagerando, credettero di scorgere in lui. Ma certamente fu più che altro un indifferente che accettava senza discussione i dogmi di una grande fede religiosa, un po' per tradizione, un po' per calcolo politico, un po' perché il suo spirito non era ancor giunto a una vera e propria consapevolezza critica di sé stesso. Così egli perseguitò ferocemente gli eretici e fece numerose professioni di fede che possiamo ritenere sincere, in quanto che anche la lotta contro il papato non esorbita dall'ambito puramente politico al quale l'aveva ristretta Federico Barbarossa. Ma invano cercheremmo in F. i caratteri della religiosità medievale. Il misticismo non trova rispondenze nella sua natura eminentemente intellettualistica, poco incline alle speculazioni della metafisica. Inoltre, i contatti con diversi popoli e con tradizioni religiose diverse avevano contribuito a dargli una larghezza d'idee che doveva contrastare stranamente con l'intransigenza propria dello spirito religioso del Medioevo. Il problema religioso non è dunque il problema centrale dello spirito di Federico II, né devono ingannare a questo proposito gli atteggiamenti misticoidi della polemica antipapale, quando l'imperatore si atteggiò a riformatore della chiesa di Cristo, inquinata dalla mondanità del papato, e lo stesso Pier della Vigna era chiamato Pietro del nuovo Redentore: tutto ciò era frutto della polemica che si adattava allo spirito ereticale, esaltato dalle aspettative messianiche del gioachimismo.
F. fu un vinto, ma cadde perché il suo programma andava di là dalle sue forze, né queste erano sufficienti a sostenere l'impero ormai cadente. Se non avesse disperso le sue energie e avesse circoscritto la sua azione, avrebbe potuto essere, nel mezzogiorno d'Italia, il fondatore di una potente dinastia. Ma egli ereditò dagli Svevi la lotta contro la teocrazia, i comuni e la feudalità, e dai Normanni la lotta contro il papato e la politica orientale, e mentre il Barbarossa era dovuto scendere a patti col pontefice, comuni e la feudalità, e i Normanni, pur vittoriosi, avevano preferito riconoscersi vassalli della chiesa, F. riprese da solo la lotta contro tutti con la violenza del suo temperamento e l'intransigenza che gli veniva dall'alto concetto che aveva del suo potere. Per trent'anni si logorò in una vana opera di Sisifo a rialzare continuamente le impalcature della sua costruzione politica crollanti da tutte le parti; e alla sua morte non lasciò che un cumulo di rovine. Ma ai popoli dell'Europa che uscivano dal Medioevo lasciava l'esempio di un'organizzazioue statale che prelude alle forme dello stato laico moderno; il ricordo di un governo ricco di opere altamente civili, splendido per il fiorire delle scienze, delle lettere e delle arti; ma più che altro, la fama del suo genio profondo e possente in cui già si scorgono i tratti essenziali dell'uomo nuovo del Rinascimento.
Fonti: Utili repertorî bibliografici per la storia di F. possono trovarsi nel volumetto di M. Schipa, Sicilia e Italia sotto Federico II, Napoli 1929, e nel grosso volume di W. Cohn, Das Zeitalter der Hohenstaufen in Sizilien, Breslavia 1925. Mancano finora tentativi di bibliografia critica. Rinviando per le indicazioni di carattere particolare a quelle opere, segnaleremo qui le fonti principalissime. Per l'attività politica di F., v. J. P. Böhmer, Regesta Imperii, 1139-1272, Stoccarda 1849, e E. Winkelmann, Acta Imperii inedita, Innsbruck 1880; le Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, ed. Weiland, in Mon. Germ. Hist., Leges, II, 1896; le Constitutiones regum... Siciliae mandante Friderico II imp. per Petrum de Vinea concinnatae, ed. Carcani, Napoli 1786; Petri de Vinea Epistolarum libri VI, Basilea 1740; J. Ficker, Forschungen zur Reichs-und Rechtsgeschichte Italiens, Iv (Documenti), Innsbruck 1874; tutta la serie delle lettere dei pontefici da Innocenzo III a Innocenzo IV; Epistolarum Innocenti III libri XVI, ed. Baluze, Parigi 1632; Regesta Honorii Papae III, Roma 1888; Les régistres de Grégoire IX, Parigi 1890; Les régistres d'Innocent IV, ivi 1894; il Liber Censuum de l'Èglise romaine, ed. Fabre, Parigi 1889. Varî documenti inediti di F., che completano le raccolte già citate, sono stati pubblicati dal Beltrami, dal Flandina, dal Gabotto, dal Hessel. Numerose, oltre alle fonti documentarie, sono quelle cronistiche. Senza enumerare partitamente la lunga serie degli Annales delle singole città che contengono notizie sulla multiforme opera politica dell'imperatore, ci limiteremo a ricordare la Historia de rebus gestis Friderici II di Nicolò de Iamsilla, notaio imperiale e all'imperatore legato (ed. in Del Re, Cronisti, ecc., II, 1868) e il Rerum sicularum libri VI (ed. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, VIII) di Saba Malaspina, di parte pontificia. Pure di carattere antimperiale è la vita di Innocenzo IV di Niccolò da Carbio (in Rerum Ital. Script., III). Meno importanti e più imparziali, quantunque ispirati per la maggior parte alla tradizione guelfa, sono invece i cronisti Matteo Paris, Francesco Pipino, Riccobaldo da Ferrara, Rolandino da Padova, Salimbene da Parma e Ricordano Malispini, la cui materia fu poi assorbita nella cronica del Villani. Del resto, estratti e passi riportati da tutte le fonti documentarie e cronistiche che si riferiscono a F. si trovano ordinati cronologicamente nella grande opera di J.-L.-A. Huillard-Bréholles, Historia diplomatica Frederici II, voll. 6, Parigi 1852-61, che costituisce il più valido strumento per un primo orientamento sulle fonti della storia di F.
Bibl.: Pure a J.-L.-A. Huillard-Bréholles dobbiamo un'Introduzione alla Historia diplomatica Frederici II (Parigi 1852), che è uno dei primi saggi di ricostruzione della figura di F., pieno di acute osservazioni e di notizie preziose. Seguirono presto questo primo saggio nuovi studî, dovuti in genere a Tedeschi, che, riprendendo un motivo illuministico, esaltarono spesso in F. la figura di un sovrano libero pensatore che si ribella contro l'assolutismo della teocrazia (E. W. Schirrmacher, Kaiser Friedrich II., voll. 4, Gottinga 1859-65; F. Raumer, Geschichte der Hohenstaufen und ihrer Zeit, voll. 6. Lipsia 1878; E. Winkelmann, Kaiser Friedrich II., I-II, Lipsia 1889-98; K. Hampe, Kaiser Friedrich, in Hist. Zeit., 1899; A. Folz, Kaiser Friedrich II. und Papst Innocenz IV., Strasburgo 1905; il volume del Cohn già citato. Cfr. inoltre E. Kantorowicz, Kaiser Friedrich der Zweite, Berlino 1927, e F. Kampers, Kaiser Friedrich der Zweite, der Wegbereiter der Renaissance, in Monographien Weltgeschichte di Heych, Lipsia 1929.
Fra le numerose opere italiane, in genere di minor mole e di minor respiro, v. il lavoro di A. Del Vecchio, Intorno alla legislazione di Federico II, Firenze 1872; quelli di A. De Stefano, Federico II e le correnti spirituali del suo tempo, Roma 1923, utile specialmente per l'esposizione dei dati sulla formazione della leggenda federiciana, e L'idea imperiale di Federico II, Firenze 1928; e infine il breve ma denso e succoso saggio sull'azione politica di F. in Italia di M. Schipa, già citato.
Per la cultura di F. e della sua corte v. M. Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, III, Firenze 1872, pp. 690-712; F. Novati, in Freschi e minii del Duecento, Milano 1908; gli studî di V. De Bartholomaeis, in Memorie dell'Accademia di Bologna (1911-12), sulle relazioni di F. con i poeti provenzali; E. F. Langley, The Extant Repertory of the Sicilian Poets, in Pubblications of the Modern Language Association of America, XXVIII (1913); l'importante studio di Ernest H. Wilkins sull'origine della canzone e del sonetto, in Modern Philology, XII-XIII (1915); il classico lavoro di H. Niese, Zur Geschichte des geistigen Lebens am Hofe Kaiser Friedrichs II., in Hist. Zeit., 1912; gli studî di C. H. Haskins, Science at the Court of Frederick II e The Ars Venandi, in Studies in the Hist. of medieval Science, Cambridge 1927.