GALEOTTI, Federico
Nacque a Pozzuolo di Castiglione del Lago, nella delegazione di Perugia, il 3 genn. 1791, da Francesco, proprietario terriero, e da M. Angela Cantini. Compiuti gli studi inferiori nel Collegio-seminario di Perugia, frequentò i corsi di giurisprudenza della locale Università conseguendovi il 26 ag. 1813, al tempo dell'occupazione francese, la laurea. Il risultato particolarmente brillante lo indusse a trasferirsi a Roma, ma per potervi esercitare l'avvocatura dovette prima compiere un lungo tirocinio di pratica legale, trovare impiego come segretario di Rota presso un uditore e finalmente, nel 1821, chiedere la parificazione del proprio titolo di studio alla laurea in diritto canonico e civile rilasciata dalla Sapienza romana. Ottenne così l'iscrizione all'albo degli avvocati di Curia (3 ag. 1821) e con ciò l'autorizzazione a intraprendere la professione forense.
Da allora la carriera avvocatizia del G. si dispiegò con regolarità in un crescendo di affermazioni che, pur restando ristrette all'ambito professionale (e quindi senza rivestirsi di coloriture politiche), avevano però un importante risvolto nella promozione sociale che favorivano. Il fatto di lavorare a contatto con le istituzioni e di prestare sovente la propria opera a esponenti di rilievo dell'aristocrazia romana (tra gli altri i Boncompagni, i Borghese, i Doria Pamphili) consentì al G. di emergere e di raggiungere una posizione assai solida, in forza della quale l'immancabile spirito critico verso un regime come quello pontificio - contraddistinto da tante disfunzioni, lungaggini e storture soprattutto nel campo giudiziario - veniva tenuto a freno dalla considerazione dei molti vantaggi che un ceto forte come quello avvocatizio riusciva comunque a ricavarne. Nel G., ad esempio, il silenzioso dissenso proprio di chi vedeva frustrata ogni attesa di rinnovamento si placava nella composizione di versi satirici da recitare davanti a pochi amici fidati o da custodire in un cassetto insieme con i sonetti del Belli, alcuni dei quali figurano ancor oggi trascritti nelle Carte del G.: lì c'era tutto il male che si potesse dire di quel governo ecclesiastico delle cui leggi il G., nella sua dimensione pubblica, praticava il totale rispetto.
Cresceva intanto il suo patrimonio e altri possedimenti si aggiungevano a quelli di famiglia: lontano da Perugia, il G. era però assai attento nel seguire attraverso i suoi amministratori una produzione agraria che, nelle tenute di Macchialunga, Frattavecchia, Caselle e Cannucce, spaziava dal grano all'olivo, dai legumi alla vigna, e comprendeva anche un allevamento di bestiame. Gestita con molta oculatezza, questa ricchezza consentiva un alto tenore di vita a lui e alla famiglia che si era formata sposando nel 1834 la romana Giuseppina Ciampi (che sarebbe morta nel 1839 dopo avergli dato due figli) e sconsigliava, probabilmente, ogni divagazione di tipo politico. Bisogna aspettare il 1846 e l'elezione di Pio IX per vedere il G. accendersi d'interesse per il riformismo del nuovo papa e infiammarsi di patriottismo di fronte all'occupazione austriaca di Ferrara: mai, però, si può dire che egli nel suo innato moderatismo provasse davvero l'entusiasmo dell'impegno politico, neanche quando, introdotto il regime costituzionale, si candidò alle elezioni e il 12 giugno 1848 risultò eletto sia a Velletri sia a Città della Pieve, collegio, quest'ultimo, in cui sconfisse il vescovo e per il quale optò. Dei suoi orientamenti poco o nulla si sapeva, né valse molto a chiarirli l'atteggiamento da lui tenuto nel Consiglio dei deputati dove l'unica presa di posizione fu quella che il 17 ag. 1848 lo portò a sottoscrivere con altri colleghi (tra cui P. Sterbini, R. Audinot e D. Pantaleoni) una proposta di modifica del regolamento con cui si ottenne di pubblicare nel Giornale ufficiale i nomi di quei deputati che, lasciando l'aula a lavori iniziati, facessero venir meno il numero legale. Lo si considerava genericamente un liberale moderato la cui assiduità nel partecipare alle sedute parlamentari poggiava di solito su motivi professionali: per cui i suoi soli interventi di un certo peso furono quelli che il 1° dic. 1848 lo videro combattere alcuni articoli d'una proposta di legge "sull'abolizione delle sostituzioni e altri vincoli contro la libertà dei beni".
Dopo la fuga di Pio IX, con il ceto forense tra i più pronti nel farsi avanti per gestire il vuoto di potere e il trapasso verso la Costituente, veniva alla ribalta anche il G. che il 22 dic. 1848 entrava come ministro di Grazia e Giustizia nel governo Muzzarelli, voluto dalla Giunta provvisoria appunto per preparare le elezioni, ma presto spintosi a esercitare per mezzo di decreti un'azione molto più incisiva pur se non sempre ben vista dai contemporanei. Lo stesso G., la cui designazione era stata salutata il 26 dicembre da un editoriale fortemente critico del giornale romano La Speranza, diretto da A. Gennarelli ("Dei suoi princìpi politici non si parla - vi si diceva tra l'altro - perché non vanno oltre le decisioni della Sacra Rota") si dimostrò assai attivo nel portare a compimento un progetto di riforma del sistema giudiziario che, ispirato com'era a criteri di trasparenza, rapidità ed efficienza, mirava evidentemente a marcare l'avvenuto superamento dell'obsoleta giustizia pontificia. Fu istituito il pubblico ministero nei tribunali penali e civili, elevata "a nuova dignità l'avvocatura dei poveri" (Leti, p. 121), innalzato il livello di preparazione del personale delle cancellerie civili e concentrato nel palazzo di Montecitorio il lavoro prima disperso nelle molte sedi giudiziarie cittadine: nell'insieme uno sforzo di ammodernamento, tecnico se non giuridico, di cui il G. avrebbe rivendicato il merito nel rapporto letto alla Costituente romana il 20 febbr. 1849 (e di cui, peraltro, uno storico liberale come L.C. Farini non gli avrebbe dato atto limitandosi a parlare di lui come di "un modesto uomo di opinioni temperate" andato al governo "soltanto per compiacere altrui, e perché credeva con ciò far le parti del buon cittadino").
Con la proclamazione della Repubblica il governo Muzzarelli uscì di scena e il G., che nel frattempo era stato eletto alla Costituente, fu nominato presidente del tribunale d'appello di Roma. Fu probabilmente nell'inaugurarne i lavori che il G. tenne un discorso nel quale contrapponeva il proprio ideale di una macchina giudiziaria rapida e chiara a "quell'intrico di formule, di atti, di formalità a ogni grado variate nel loro incompatibile oggetto, se pur uno ne aveano (meno quello di stancare, di confondere, di esacerbare i depauperati litiganti)" (Carte Galeotti, busta 1). Ciò nonostante, durante i lavori dell'Assemblea gli capitò più di una volta di essere il bersaglio degli strali di un Carlo L. Bonaparte particolarmente aspro, forse per motivi personali, nei suoi confronti; e l'accusa che lo ferì di più fu quella di aver voluto mantenere in vita i tribunali ecclesiastici. In verità dai comportamenti del G. e dalle votazioni che espresse emerge non il profilo di un conservatore ma quello di un liberale che avversa il potere temporale, crede nelle istituzioni repubblicane e chiude questa esperienza sottoscrivendo il 4 luglio la protesta dei deputati contro l'occupazione francese, e il cui vero limite è quello di un localismo che gli impedisce di guardare al di là della sua città soprattutto dopo l'elezione a consigliere municipale (25 apr. 1849) e l'ingresso in una giunta in cui affianca come terzo conservatore il senatore F. Sturbinetti che con lui e con gli altri consiglieri svolgerà un'opera di mediazione, molto apprezzata dallo storico G. Spada.
Caduta la Repubblica, il G. si affrettò a espatriare insieme con lo Sturbinetti con un passaporto fornitogli dagli stessi Francesi. Credeva di poter presto tornare a Roma, dove aveva lasciato i figli, e invece, dopo essere stato per un paio di mesi a Ginevra, poté rientrare in Italia ma solo per stabilirsi a Firenze. Qui visse ritiratissimo, del tutto estraneo alle vicende politiche e sempre con la speranza che a Roma gli si usasse qualche benevolenza. Non lo aiutò nemmeno l'appoggio di alcuni cardinali (P. Marini, R. Fornari) e di qualche aristocratico con cui si era mantenuto in buoni rapporti: interpellati ripetutamente in proposito, sia Pio IX sia il card. G. Antonelli risposero che l'esilio del G., malgrado la mancanza di un'azione penale a suo carico, si sarebbe dovuto protrarre ancora. Il danno economico che ne derivò all'ex ministro per la sospensione dell'attività professionale fu rilevante e fu aggravato dalla difficoltà di seguire l'andamento delle proprietà terriere umbre in un periodo di continue crisi agrarie: un compenso parziale il G. lo ricavò dalla consulenza legale che anche da Firenze riusciva a prestare ad alcuni nobili romani (tra gli altri ad A. Boncompagni Ludovisi principe di Piombino). Finalmente, nell'aprile del 1857, alla vigilia del viaggio di Pio IX in Italia centrale, arrivò per il G. la concessione di risiedere a Pozzuolo e quindi di soggiornare periodicamente a Roma, dove tornò a stabilirsi nel 1859. Troppo avanti negli anni per sentirsi motivato a ricoprire ruoli politici nella costruzione dello Stato unitario, poteva invece ancora utilizzare la propria qualifica professionale per un impiego in magistratura: l'occasione gli fu offerta da G.N. Pepoli, commissario straordinario per l'Umbria, che il 27 ott. 1860 lo chiamò a prestare servizio presso il tribunale d'appello di Perugia dove il 7 nov. 1860 era nominato secondo giudice e da dove il 10 genn. 1861 fu trasferito ad Ancona come consigliere di corte d'appello. Il suo stato d'animo era più che mai quello dell'uomo d'ordine, felice della soluzione unitaria ma anche turbato dalla sua incompiutezza perché - come spiegava in una lettera al figlio Publio il 19 febbr. 1862 - il paese non aveva veri elementi di compattezza e "questi sono mali indeclinabili nei tempi di rivoluzione, nei quali viviamo, ai quali non potrà portarsi un rimedio radicale, se non quando avremo Roma per capitale, con un governo forte, e sicuro della sua azione…" (Carte Galeotti, busta 3).
Il 18 giugno 1866 il G. fu collocato a riposo per raggiunti limiti d'età. Un ricorso per ottenere che la pensione gli fosse calcolata facendo decorrere gli anni di servizio dall'assunzione nel 1849 della presidenza del tribunale d'appello di Roma fu respinto con la motivazione che quella carica gli era stata conferita da un governo rivoluzionario.
Il G. morì a Pozzuolo il 14 genn. 1871.
Fonti e Bibl.: Le Carte Galeotti, 5 buste conservate nell'Arch. Capitolino di Roma, sono state brevemente illustrate da L. Pirotta, L'archivio di F. G., in Rass. stor. del Risorg., LI (1964), pp. 407 ss.; la ridotta documentazione di natura politica che vi figura era stata a suo tempo in minima parte utilizzata da L. Romizi, Per la biografia di un umbro, deputato e ministro della Repubblica romana, in Arch. stor. del Risorg. umbro, IV (1908), pp. 339-344, da cui si ricava quella che G. Degli Azzi (in Diz. del Risorg. nazionale, a cura di M. Rosi, III, s.v.), costituisce l'unica biografia del G.; copioso invece il materiale documentario lasciato dal G., in genere corrispondenza familiare, utile per ricostruire le vicissitudini successive al 1849 e l'andamento delle sue proprietà soprattutto negli anni 1849-58. Dalle poche fonti a stampa disponibili si ricavano scarne notizie sul suo breve incarico ministeriale e poi sulla presenza nel Municipio romano: si vedano perciò: G. Moroni, Diz. di erudiz. stor.-eccl., LIII, p. 206; LIX, p. 80; XC, p. 48; G. Gabussi, Memorie per servire alla storia della rivoluz. negli Stati romani…, Genova 1851-53, II, pp. 268, 283, 312; L.C. Farini, Lo Stato romanodal 1815 al 1850, Firenze 1853, III, pp. 82 s.; G. Spada, Storia della rivoluz. di Roma e della restauraz. del governo pontificio…, Firenze 1868-70, III, pp. 45, 60, 134, 203, 211, 383, 644, 664, 704; R. Giovagnoli, Ciceruacchio e Don Pirlone, Roma 1894, pp. 440, 444-447, 549 ss.; Le Assemblee del Risorgimento, Roma, Roma 1911, VI, pp. 19, 35 s., 683; VII, pp. 13, 56, 62, 113 s., 157 s., 175, 272; VIII, pp. 11, 26, 98, 100, 167 ss., 318 ss., 425, 429, 459, 539, 558 s., 688 s., 743, 745, 860 s.; IX, pp. 153, 166-169, 230-236, 608 ss., 639 s., 817, 830, 959, 961, 1083; G. Leti, La rivoluz. e la Repubbl. romana (1848-49), Milano 1913, ad ind.; L. Sandri, Il Comune di Roma nel 1848-49, in Capitolium, XXIV (1949), p. 236; Le relaz. diplomatiche fra lo Stato pontificio e la Francia, s. 3, 1848-60, II, a cura di M. Fatica, Roma 1972, ad indicem.