GHISLIERI, Federico Fabio
Nacque a Bosco Marengo, presso Alessandria, nel 1560, da Francesco. Il padre era un militare di professione che, secondo il genealogista L. Iacobilli, vantava una lontana parentela con Pio V, eletto papa nel 1566. In quello stesso anno Francesco fu chiamato alla carica di governatore di Ascoli; quindi, nel 1569, partecipò alla spedizione pontificia contro gli Ugonotti in Francia, durante la quale perse la vita.
Il G. iniziò la carriera militare nel 1580, in Portogallo, come ufficiale nel tercio di Prospero Colonna. Fu quindi nelle Fiandre, al seguito di Alessandro Farnese, con incarico e stipendio di capitano, ma senza l'onere di una compagnia. Nel 1584, durante la guerra di Colonia (1582-85), partecipò all'assedio di Bonn nella cavalleria di Ernesto di Baviera. Tornato in Italia, frequentò la corte di Ranuccio Farnese, principe ereditario di Parma, al quale dedicò un suo trattato di scherma intitolato Regole di molti cavagliereschi essercitii (Parma, presso Erasmo Viotto, 1587). Nell'ultimo decennio del secolo ebbe una serie di incarichi dalla corte pontificia. Nel 1590, durante la sede vacante seguita alla morte di Sisto V, condusse arruolamenti per un esercito di 2000 fanti da inviare contro i banditi dello Stato della Chiesa e prese il comando di una compagnia. L'anno seguente, poiché vantava indubbie capacità in queste non facili operazioni, contribuì all'allestimento dell'esercito in soccorso della Lega cattolica in Francia, ricevendo altresì il comando di una compagnia di fanteria.
Dal 1595 prese parte alle tre campagne degli eserciti papali in Ungheria contro i Turchi, a fianco delle truppe imperiali. In occasione della prima spedizione voluta da Clemente VIII, fu nominato capitano di fanteria e sergente maggiore nel tercio ancora una volta da lui stesso assoldato. Giunto in Ungheria solo dopo la presa di Strigonia (Esztergom) nel settembre 1595, ebbe però modo di distinguersi durante il successivo assedio di Vicegrado (Vižegrad), allorché diresse il fuoco dell'artiglieria che, il 21 settembre, costrinse la guarnigione turca alla resa. Nella seconda spedizione, partita nell'estate del 1597, il G. ebbe gli stessi incarichi, questa volta nel tercio di Mario Farnese, duca di Latera. Ma una volta nel teatro delle operazioni, fu nominato sergente maggiore generale, con stipendio di 140 scudi al mese, dal comandante della spedizione, Gian Francesco Aldobrandini, marito di una nipote del papa. La campagna non ebbe obiettivi rilevanti, a causa delle carenze logistiche e per l'indecisione del consiglio di guerra imperiale. Solo Pápa poté essere conquistata, il 21 agosto, dopo pochi giorni di combattimenti che avevano visto il G., insieme con Camillo Capizucchi, alla testa dei soldati pontifici. Dopo il fallimento di confuse operazioni contro Giavarino (Győr) e la successiva ritirata dell'esercito cristiano verso Komárom, in novembre, il G. si trovò ancora impegnato in alcuni combattimenti di rilievo presso Vacia (Vác).
Le due prime campagne avevano avuto un esito deludente e Clemente VIII, nell'estate del 1601, decise di indirizzare gli aiuti all'arciduca Ferdinando di Stiria, con l'obiettivo di riprendere l'avamposto turco di Kanizsa (Nagykanizsa). Nominato ancora sergente maggiore generale, dopo la morte di G.F. Aldobrandini, avvenuta in settembre a Varazdin, il G. fu confermato secondo in comando dopo il luogotenente Flaminio Delfini, con provvisione di 300 scudi al mese. L'esercito pontificio giunse al campo arciducale in ottobre. Iniziato in evidente ritardo - come lamentò anche il G. -, l'assedio era ostacolato, oltre che dalle ormai consuete difficoltà logistiche, anche da un incessante maltempo. Accampati in un tratto particolarmente sfavorevole, paludoso e lontano dai bastioni, i soldati pontifici avanzavano lentamente e a costo di molte perdite. Ma erano guidati con indubbia solerzia da F. Delfini e dal G., che per l'occasione sperimentò nuovi "approcci", ovvero tattiche di avvicinamento alle muraglie. Il 28 ott. 1601, nonostante l'opposizione dei comandanti pontifici, fu dato l'assalto che ebbe esito disastroso. Si sparsero quindi infondate voci di un imminente soccorso turco alla piazza e il 17 novembre l'esercito si ritirò rovinosamente.
Come molti altri soldati, nella rigida stagione il G. cadde ammalato e dovette abbandonare la marcia. Tuttavia ebbe modo di difendere le sue ragioni e il comportamento dei suoi soldati con un libello contro il generale imperiale H.C. Russworm, ritenuto responsabile della rotta.
Tornato in Italia, dopo aver inutilmente tentato di ottenere un incarico alla corte di Filippo III di Spagna, il G. riprese il servizio presso la corte di Roma. Nel 1604 era a Ferrara, con la segreta missione di fare luce su alcuni incidenti accaduti al confine con il Ducato di Mantova. Ebbe quindi l'incarico di sergente maggiore generale dello Stato ecclesiastico dal conclave seguito alla morte di Clemente VIII, insieme con la promessa, rimasta poi inadempiuta, di affidargli il governo di Avignone.
Nel 1605 accettò dal granduca di Toscana la nomina a maestro di campo generale delle fanterie dell'Ordine di S. Stefano, partecipando così all'azione del maggio di quell'anno contro Prevesa, porto ottomano sul litorale greco-ionico. Dopo aver espugnato la piazza, le galere toscane si ritirarono, ma il G. poté riferire a Paolo V di aver piantato gli stendardi su una rocca "in paese dei Turchi come se fossimo stati in Christianità" (Arch. segr. Vaticano, Fondo Borghese, III, 11a-b, c. 47v). Queste credenziali furono bene accette al papa e il G. abbandonò il servizio del granduca per tornare a Roma.
Nel corso del 1606 gli attriti tra lo Stato della Chiesa e la Repubblica di Venezia, dopo la pubblicazione dell'interdetto, avevano portato fin sull'orlo della guerra. Il G. accompagnò, in maggio, il luogotenente generale delle armate pontificie Mario Farnese nelle ispezioni alle forze militari pontificie, soprattutto nelle zone costiere, più esposte al pericolo di sbarco dei Veneziani. Poi, in luglio, fu inviato nella Marca; qui egli rilevò gli evidenti difetti delle difese del porto e della fortezza di Ancona, ma riuscì ad allestire e addestrare un esercito di 8000 fanti, superando il particolarismo delle Comunità e i conflitti di fazione, consueti in quella regione.
A Roma il suo zelo fu accolto con freddezza, poiché acuiva la tensione proprio mentre tornava all'opera la diplomazia. Raggiunto nell'aprile 1607 l'accordo tra Roma e Venezia, il G. entrò a far parte della "Congregazione militare" istituita da Paolo V e, nell'ottobre 1608, fu nominato di nuovo sergente maggiore generale dello Stato della Chiesa, con stipendio di 1200 scudi annui. Di questa carica il G. illustrò le caratteristiche in uno scritto del 1610 circa intitolato Modo di governare un esercito (Bibl. apost. Vaticana, Barb. lat. 4344, cc. 53r-54v). Negli anni successivi rimase a Roma, compiendo altresì alcune missioni a bordo della "Capitana", la galera ammiraglia della squadra pontificia. Aveva ormai fama di militare esperto e poteva contare su entrate aggiuntive, come le pensioni concesse dagli Spagnoli (in totale 600 scudi annui) e la provvisione di cameriere del papa (1000 scudi annui). Approfondiva inoltre gli studi di arte militare, stimolato dall'incontro con Galileo Galilei nella sua casa romana a rafforzare le proprie tesi con argomenti tratti dalle scienze fisiche e matematiche.
Nel 1617, alla ripresa della guerra per la successione nel Monferrato, passò al servizio del duca di Savoia Carlo Emanuele I, partecipando alle battaglie di Crevacuore e San Damiano d'Asti. Al termine delle operazioni fu nominato maestro di campo generale, consigliere e luogotenente del reggimento della guardia del duca. Stabilita la sua residenza a Torino, il G. si dedicò alla stesura di opere di argomento militare.
La sua produzione fu copiosa, ma molti di questi inediti furono distrutti dall'incendio che colpì la Biblioteca nazionale torinese nel 1904. Un Discorso in materia di fortificazioni del 1617 circa (Torino, Bibl. nazionale, N.II.4) illustra, con profonde conoscenze tecniche, il modo per accrescere al meglio l'efficacia delle difese statiche, nelle quali il G. non nutriva, tuttavia, fiducia incondizionata. Al quesito postogli dal duca sull'oppotunità di edificare nuove cinte bastionate intorno a Torino, rispose con due trattati, entrambi del 1619, il Trattato in resposta al ser.mo duca di Savoia se la città di Turino debba fortificarsi… (Arch. di Stato di Torino, Bibl. antica, J.a.VII.23) e il Trattato che nelle oppugnationi, il defensore non può controbattere le batteria dell'espugnatore (ibid., Z.II.32), nei quali affermò di preferire il mantenimento di eserciti permanenti alle ingenti spese necessarie per la costruzione e la gestione delle fortezze. Ma sono senza dubbio i Discorsi militari del 1618 (ibid., Z.II.27) l'opera più significativa, nella quale raccolse le sue lunghe esperienze e propose innovazioni nell'armamento e nello schieramento di battaglia.
La sua attività a corte risultò gradita a Carlo Emanuele, che nel 1620 lo creò marchese di Ronsecco. Poté così legittimare la sua unica discendente, Barbara, figlia naturale.
Morì poco dopo a Torino, molto probabilmente nel 1622.
Fonti e Bibl.: Arch. segr. Vaticano, Arm. XLIV-XLV, 46, cc. 63r-64r; Fondo Borghese, III, 11a-b, c. 47rv; 43d-e, cc. 23r-24v, 65rv, 81r-86r; 93b2, cc. 20r, 42r-43v, 110r; Fondo Pio, 105, cc. 37r, 47v, 50v, 53v, 126r; Segreteria di Stato, Lettere di particolari, 4, c. 336v; Arch. di Stato di Roma, Camerale I, Chirografi, B 225, c. 11v; Archivio Giustiniani, Armadio unico Savelli, 101, cc. n.n.; Arch. di Stato di Venezia, Senato, Dispacci, Roma, 56, c. 127r; Bibl. apost. Vaticana, Ottob. lat. 2335, cc. 43v-44r; Urb. lat. 1072, cc. 106r, 450r; 1074, cc. 355r, 620r; 1075, I, c. 83r; Roma, Bibl. dell'Ist. dell'Enc. Italiana, A. Manno, Il patriziato subalpino (dattiloscritto), vol. GAV-GORG, pp. 321 s.; C. Campana, Delle historie del mondo, II, Venezia 1599, pp. 457, 723; G. Lunadoro, Relazione della corte di Roma…, Padova 1635, p. 9; Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di A. Segarizzi, III, 2, Bari 1916, p. 179; G. Galilei, Opere (ed. nazionale), XII, Firenze 1934, p. 227; P. Sarpi, Istoria dell'interdetto, a cura di M.D. Busnelli - G. Gambarin, Roma-Bari 1940, p. 81; N. Contarini, Delle istorie veneziane, in Storici e politici veneti del Cinquecento e del Seicento, a cura di G. Benzoni - T. Zanato, Milano-Napoli 1982, p. 345; Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, a cura di L. Firpo, XI, Torino 1983, p. 881; A. Possevino jr., BelliMonferratensis historia, [Genevae] 1637, pp. 522, 551 s.; P. Cesi, Illustrissimorum Ghisilieriorum genealogia, Fulginiae 1660, pp. n.n.; L. Iacobilli, Vita del santissimo sommo pontefice Pio V…, Todi 1661, p. 10; M. d'Ayala, Bibliografia militare italiana: antica e moderna, Torino 1854, p. 101; C. Promis, Gli ingegneri militari che operarono o scrissero in Piemonte dall'anno MCCC all'anno MDCL, in Misc. di storia italiana, XII (1871), pp. 606-634; A. Guglielmotti, La squadra permanente dellamarina romana, Roma 1892, pp. 214 ss., 227; L. von Pastor, Storia dei papi, XI, Roma 1929, p. 224; G. Brunelli, Poteri e privilegi. L'istituzione degli ordinamenti delle milizie nello Stato pontificio tra Cinque e Seicento, in Cheiron, XII (1995), p. 114; V. Spreti, Enc.stor.-nobiliare italiana, III, p. 422; Enc. biografica e bibliogr. "Italiana", A. Valori, Condottieri e capitani del Seicento, p. 166.