MONTEFELTRO, Federico di
MONTEFELTRO, Federico di. – Figlio del conte Guido e di Manentessa di Guido conte di Giaggiolo, nacque verso il 1258. Ebbe almeno otto figli maschi, tra i quali Nolfo (1295-1363 ca.) e Galasso (1296-1350), che recuperarono il governo di Urbino, e Ugolino (m. 1363), che fu vescovo di Fossombrone.
Federico compare per la prima volta in posizione di primo piano il 7 maggio 1295, venendo allora assolto dalla scomunica in cui era incorso per avere partecipato alle imprese del padre, che era ormai vecchio e prossimo al ritiro in convento. L’atto fu confermato il 27 novembre 1295, quando Federico fu nuovamente assolto insieme con il padre e con i congiunti Corrado e Galasso, a condizione però di restituire alla Chiesa i beni indebitamente detenuti nei contadi di Pesaro, Urbino e Cagli. Nel marzo 1296 fu a Roma insieme con i principali signori della Marca e della Romagna per partecipare a un incontro che aveva come scopo la pacificazione di quelle terre sotto la sovranità pontificia e che peraltro non condusse ai risultati sperati. Ritirandosi infatti Guido dalla vita politica, Galasso ne prese subito il posto come capo ghibellino e Federico gli si pose al fianco, tanto che già il 26 aprile i due conti di Montefeltro e Maghinardo di Susinana incorrevano di nuovo nelle censure ecclesiastiche comminate dal conte di Romagna per avere occupato Imola e avere fatto una strage di guelfi. Il 7 maggio 1298, però, il pontefice incaricò Rizzardo da Ferentino di rinnovare la sentenza di assoluzione e poco dopo invitò Federico a deporre le magistrature assunte a Forlì e a Cesena. Il 17 maggio 1300, insieme con lo zio Galasso e con il fratello Ugolino, Federico stipulò con il vescovo di Montefeltro un accordo con il quale fu consolidata la pace e fu rafforzata la sua posizione nella regione feretrana. Il 23 maggio successivo, con Uguccione della Faggiola e Uberto Malatesta di Giaggiolo, che era passato tra i ghibellini, si impossessò della città di Gubbio, che però dovette abbandonare dopo solo un mese per la pronta reazione dell’esercito perugino e di Cante Gabrielli.
Dopo la morte di Galasso (1° luglio 1300), Federico divenne il principale rappresentante della casata dei Montefeltro e tale rimase fino alla morte. La sua posizione, peraltro, apparve subito difficile: Urbino, benché affidata alla sua custodia, era governata da magistrati nominati dal papa; anche la Massa Trabaria, in cui i Montefeltro avevano interessi e domini cospicui, era affidata a rettori pontifici. In questa regione, l’abitato di Castel delle Ripe, che era stato distrutto dai ghibellini nel 1284, fu ricostruito più a valle e assunse un nuovo nome per onorare il legato Guillaume Durand: «Casteldurante» (oggi Urbania). Il 13 maggio 1301 Federico, che era capitano del popolo di Cesena, fu cacciato da una rivolta popolare da quella città, della quale suo zio Galasso era stato podestà e capitano per quattro anni instaurandovi la propria signoria. Distrutte le opere di difesa, Cesena fu consegnata al legato Matteo d’Acquasparta. In tal modo, la Chiesa romana riuscì a estromettere definitivamente i Montefeltro dalla Romagna, consentendo tuttavia il rafforzamento – per essa non meno pericoloso – dei Malatesta.
Dopo il tentativo infruttuoso di pacificazione esperito da Carlo di Valois come vicario di Romagna in un parlamento che si tenne a Cesena l’8 aprile 1302, Federico si rivolse ad Arezzo, dove era podestà Uguccione della Faggiola. Da qui, per alcuni anni, partirono tutte le sue inziative politiche e militari. Eletto podestà di Arezzo nel secondo semestre del 1302, il 22 ottobre assediò Cesena insieme con Uguccione della Faggiola e provocò gravi danni al contado, distruggendo altresì il porto di Cesenatico, che era stato appena costruito. Nel 1303 fu ancora podestà di Arezzo e portò un assalto vittorioso contro i fiorentini a Cennina in Valdarno. Successivamente fu capitano del popolo di Forlì e, nella primavera del 1304, insieme con Guido di Carpegna-Pietracuta, stipulò una tregua con Ramberto e Nerio, esponenti del ramo guelfo dei conti di Carpegna. Ai primi di luglio di quello stesso anno tentò di entrare a Firenze con un esercito, ma fu respinto.
La morte di Bonifacio VIII (12 ottobre 1303), il debole pontificato di Benedetto XI e il trasferimento della sede pontificia in Francia con Clemente V (1305) provocarono una lunga fase di anarchia, durante la quale le fazioni e le maggiori casate ebbero modo di consolidarsi, portando la lotta a un grado di violenza ancora più alto che in precedenza. Federico, con suo cugino Speranza di Montefeltro, indirizzò l’iniziativa militare nelle Marche combattendo contro i Malatesta, ai quali nel 1306 riuscì a strappare Fano, Pesaro e Senigallia. Tentò altresì di favorire il rientro dei guelfi bianchi a Firenze, ma l’esercito, nel quale militava al comando degli aretini, fu sconfitto a Lastra a Signa. La discesa in Italia del nuovo legato Napoleone Orsini provocò ampie ribellioni e un’ulteriore recrudescenza del conflitto. Ma poiché il cardinale intendeva limitare la potenza dei guelfi neri di Firenze, si ebbe in quell’occasione un singolare rovesciamento degli schieramenti, per il quale l’antica fazione ghibellina si trovò, insieme con i bianchi, a sostenere il legato pontificio. Federico e Speranza divennero i capi della lega delle comunità ghibelline detta degli «Amici della Marca» (tra le quali Fabriano, San Severino e Matelica), e come tali, avendo anche a disposizione milizie pisane e aretine, riportarono alcuni successi militari nelle Marche e in Romagna, soprattutto contro i Malatesta (anni 1306-1307).
Dopo l’occupazione di Città di Castello, tutta l’area appenninica tra Arezzo, l’Alta Valtiberina, il Montefeltro, la Massa Trabaria e l’Urbinate, a eccezione di Gubbio, era tornata sotto il pieno controllo delle potenti case ghibelline dei Tarlati, Montefeltro e Ubaldini, ma, straordinariamente, al fianco del legato. Inoltre, trattative con i rappresentanti della Curia avevano permesso che il comitatus di Urbino non fosse più considerato parte integrante della provincia della Marca, ponendo in tal modo nuovamente le basi per un dominio dei conti di Montefeltro che fosse svincolato da quello dei rettori pontifici. Napoleone Orsini, anziché dare battaglia campale come i suoi alleati si attendevano, si invischiò in lunghe trattative con i neri, che portarono allo sfaldamento dell’alleanza già composta intorno a lui. Ciononostante, Federico rimase un fedele sostenitore del papato: nel 1309 suo fratello Corrado fu creato vescovo di Urbino e in quello stesso anno egli, che era capitano del popolo di Osimo e Jesi e capo della società degli Amici della Marca, inflisse una dura sconfitta agli anconetani per conto della Chiesa.
L’elezione di Enrico VII a re dei romani e le speranze che provocò nel partito filoimperiale mutarono rapidamente lo scenario politico. Federico, che era allora podestà di Pisa (1310-1311), si mise alacremente a preparare la discesa del sovrano, mentre Speranza rimaneva capitano degli Amici della Marca. Raggiunto l’esercito imperiale, Federico ebbe il comando di tutto il contingente italiano. Dopo l’incoronazione dell’imperatore avvenuta a Roma il 29 giugno 1312, in novembre fu nominato vicario imperiale di Pisa. Insignito anche del titolo di vicario imperiale di Arezzo, al principio del 1313 si prodigò per rendere sicuro il passaggio dell’esercito imperiale verso settentrione, occupando il castello di Casole d’Elsa, e in seguito partecipò all’assedio di Firenze. In quell’occasione, egli e Uguccione della Faggiola, consiliarii dell’imperatore, avrebbero inutilmente suggerito all’imperatore di desistere, considerando del tutto insensato compiere un tale tentativo. Mentre preparava una nuova discesa verso Sud, il 24 agosto Enrico VII morì improvvisamente a Buonconvento presso Siena. Federico, che era nel campo imperiale, fu probabilmente presente alla sua morte: il 14 settembre scrisse al legato pontificio Niccolò da Prato in difesa di fra Bernardino da Montepulciano, accusato di avere avvelenato l’imperatore con l’eucarestia.
La taglia guelfa si ricompattò immediatamente intorno a Firenze e Federico, tornato prima ad Arezzo e poi nella Marca, fece sollevare Osimo e Spoleto, nuovamente al comando della lega ghibellina, ora chiamata degli «Amici delle terre della Marca», mentre anche in Romagna riprendevano le lotte, in un clima di grande incertezza determinato anche dalla lunga sede vacante. Dopo la battaglia della Collina presso Civitella di Romagna (1° aprile 1316), in cui caddero numerosi comandanti ghibellini, Federico stipulò una tregua con Malatestino dall’occhio.
Nell’estate del 1317 diede avvio a una sistematica azione di recupero dei domini familiari, prendendo Urbino, Castel Cavallino e Cagli, città che fu subito restituita per comporre il dissidio con la Sede apostolica. Il 5 agosto 1318, Speranza di Montefeltro stipulò in quella stessa città un solenne accordo con la Chiesa, impegnando se stesso e Federico, il quale ratificò il documento il 13 agosto successivo. Solo pochi giorni dopo, però, il rettore della Marca promosse una lega guelfa tra Matelica, Camerino e San Severino contro gli Amici delle terre della Marca e i conti di Urbino, provocando la guerra aperta.
La lega ghibellina si ampliò fino a comprendere nove città (Urbino, Cagli, Fano, Fabriano, Jesi, Osimo, Recanati, Spoleto e Assisi) e Federico conquistò il castello di Apiro. Verso la fine dell’anno, il papa scrisse all’arcivescovo di Ravenna perché lanciasse l’interdetto contro Urbino, i cui abitanti avevano quasi linciato il legato, e scomunicasse i conti di Montefeltro. Le minacce furono rinnovate al principio del 1319. Il 31 marzo di quell’anno Federico e suo figlio Guido detto Tigna, insieme con Sgaraglino di Carpegna-Pietracuta e a quattro esponenti della famiglia Brancaleoni, furono condannati a un’ammenda di 10.000 lire e alla confisca di tutti i loro beni. Il 25 agosto il papa confermò le sentenze e citò i conti di Montefeltro e il consiglio del comune di Urbino a comparire entro un mese dinanzi a lui. I ghibellini allora misero a sacco il contado di Macerata, occuparono Cingoli e Fano e cacciarono i guelfi da Assisi, impadronendosi del tesoro conservato nella basilica. La rivolta si propagò a Nocera e a Spoleto, dove furono fatti rientrare i fuoriusciti, ed ebbe il sostegno di Arezzo, mentre soprattutto nell’Italia settentrionale era accesissima la lotta, per opera di Cangrande della Scala e di Matteo Visconti, e mentre in Curia alcuni cardinali favorivano la parte ghibellina. In quel tempo, Federico fu nominato duca di Spoleto dai suoi collegati.
Prospettandosi la discesa in Italia di Ludovico di Baviera, Giovanni XXII inviò come legato Bertrand du Poujet e promosse una lega di signori romagnoli di parte ecclesiastica, mentre l’esercito perugino tentava di recuperare Spoleto e Assisi al papa. Dopo una lunga serie di moniti e minacce ben documentati nei registri pontifici, il 28 agosto 1320 il papa diede ordine di istruire contro Federico un processo per eresia e idolatria (del quale non si conservano gli atti), che si protrasse per tutto l’anno successivo e si concluse tra l’8 e il 21 ottobre 1321. Ma invece di comparire dinanzi al giudice delegato dal pontefice, che era il frate Lorenzo da Mondaino, suddito dei suoi nemici Malatesta, il quale lo aveva convocato proprio a Mondaino, territorio ostile, Federico fece in modo di essere giudicato dal tribunale del vescovo di Urbino, che lo dichiarò innocente: cosicché il conte si trovò quasi contemporaneamente condannato da un giudice, il delegato pontificio, e assolto da un altro, l’ordinario diocesano.
Essendo la rivolta ormai estesa a tutta l’Umbria, le Marche e la Romagna (1320- 1321), Pandolfo Malatesta signore di Rimini fu nominato capitano generale delle armi della Chiesa. I ghibellini si riunirono a Bagno di Romagna e attaccarono Rimini, che però riuscì a difendersi. Passato al contrattacco, Pandolfo portò l’esercito a Montefabbri. Nel giugno del 1321, Assisi si arrese ai perugini comandati da Cante Gabrielli; ai primi di dicembre i fanesi chiesero di poter tornare fedeli sudditi del papa; il 6 dicembre Giovanni XXII confermò la sentenza di colpevolezza per i crimini di eresia e idolatria contro Federico e due giorni dopo ordinò ai governatori della Marca, del Ducato e della Romagna di bandire la crociata contro di lui, accordando ai crociati le stesse indulgenze che si potevano lucrare andando a liberare il Santo Sepolcro.
Poiché Spoleto stava per essere perduta e nel gennaio 1322 anche i castelli intorno a Urbino cadevano uno dietro l’altro in mano ai Malatesta, Federico rientrò a Urbino e vi si asserragliò. In città scoppiò una rivolta, sobillata dalla parte avversa. Il 26 aprile 1322, dopo alcuni giorni di difesa disperata, il conte consegnò un proprio figlio, ancora bambino, in ostaggio a un membro della famiglia urbinate degli Staffolini, quindi uscì dal palazzo insieme con un altro figlio, con la corda al collo, e si arrese; ma entrambi furono trucidati dal popolo, mentre altri suoi figli furono catturati e consegnati ai rettori ecclesiastici. Alcuni autori ritengono che il figlio ucciso fosse il primogenito Guido, mentre in realtà questi fu catturato da Cante Gabrielli e, consegnato al rettore della Marca Amélius de Lautrec, fu condannato a morte. Due suoi fratelli, che erano ancora bambini, furono invece incarcerati. Primo responsabile della morte di Federico fu Guillelmus Fulcosii, preposito di Grasse in Provenza e allora ufficiale del rettore della Marca, che con l’inganno aveva convinto il conte a uscire dalla fortezza per poi abbandonarlo al popolo; il 1° ottobre 1325 il sacerdote fu assolto dal papa per questo e per altri crudeli crimini commessi «ob zelum iusticie» (si vedano Rossi, 1957, p. 107; Gattucci, 1998, pp. 166 s. e la sua ediz. del doc.; Pirani, 2009, pp. 197 s., nonché Jean XXII. Lettres communes, n. 23493, 63192; il personaggio, che fu magister, è ricordato anche nel Bullaire de l’Inquisition française, Paris 1913, p. 164). La morte di Federico, che ebbe vasta risonanza nelle cronache coeve, determinò per un breve periodo l’assoluto successo della parte guelfa, ma Urbino venne recuperata al dominio dei conti di Montefeltro dopo un solo anno.
Federico seguì la linea politica filoimperiale che era stata del padre e dei suoi avi diretti e, come scrisse il cronista Marco Battagli, «donec vixit, in Romandiola et Ducatu et Marchia semper erat capitaneus de omnibus Gebellinis » (p. 37). Concentrò la propria azione soprattutto nelle Marche e nell’Umbria anziché in Romagna. oltre a Urbino, fu in particolare Cagli ad attrarre la sua attenzione, per il forte valore strategico di quella città, nodo e raccordo tra l’Urbinate e l’Eugubino. Violento e battagliero, per molti anni in bilico tra fedeltà e rivolta alla Chiesa, si trovò a operare in un’epoca convulsa della storia della penisola italiana che, soprattutto in Italia centrale, rappresentò per la parte ghibellina la sua fase più bassa e ormai finale, tra il breve sogno di Enrico VII e l’attesa della discesa in Italia di Ludovico di Baviera. Come accadde all’imperatore, la sua condanna come eretico e idolatra e la crociata che ne seguì – segnali di un’estrema recrudescenza del conflitto – furono provocate non solo dagli atti di ribellione, che in alcune circostanze causarono episodi efferati, ma anche dal sostegno che egli diede alle correnti pauperistiche degli spirituali, con le quali aveva comunanza di intenti sia per l’antica relazione della sua famiglia con il movimento francescano, sia per l’avversione al papato avignonese. Le lettere pontificie del periodo 1317- 1322 contengono riferimenti non solo alla scelleratezza del suo comportamento, ma anche al sostegno di cui godeva presso alcuni ambienti ecclesiastici: così, alla fine di gennaio del 1322 furono incarcerati, in quanto fautori di Federico, i vescovi di Fano e di Cagli e l’abate di S. Paterniano.
Il completo fallimento della politica di Federico si deve a diverse concause, tra le quali debbono essere considerate l’assenza di una vera e propria coesione intorno all’imperatore, a fronte di una marcata polverizzazione delle capacità operative in Italia centrale, nonché dalla ormai consolidata opposizione della casata dei Malatesta, con la quale rimaneva – e a lungo sarebbe rimasta – una radicale sovrapposizione di interessi. Principalmente, la sua politica ebbe a soffrire grandemente della disparità di forze economiche utili a finanziare la guerra e a comprare gli alleati. Mentre Giovanni XXII riservava alla Sede apostolica la collazione di tutti i benefici maggiori della cristianità, il conte di Montefeltro vessava i suoi sudditi urbinati con taglie e gravami, in tal modo inasprendo il malcontento popolare e offrendo facile appiglio all’infiammarsi della rivolta che lo avrebbe visto morire.
Del tutto incerti appaiono i suoi rapporti con Dante, che celebra suo fratello Buonconte, suo padre Guido e il suo congiunto Galasso, ma tace di lui. È stato ipotizzato che il verso in cui Buonconte biasima coloro che non pregano per la sua anima («Giovanna o altri non ha di me cura», Purg. V, 89) contenga, nella parola «altri», una citazione indiretta – e anche per questo di tono riprovevole – del personaggio. Franceschini (1970, p. 178) ha supposto un disprezzo da parte del poeta, derivato soprattutto dal fatto che Federico aveva attaccato maldestramente la città di Firenze, mentre Fumi (1901) ha ipotizzato che nel veltro dantesco, se pur non si tratti di un soggetto indeterminato, vi possa essere un’allusione a questo personaggio; ma la sua suggestione appare indimostrata.
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Tommaso Di Carpegna Falconieri