CORNER, Federico
Nacque a Venezia il 16 nov. 1579, terzogenito (ma i primi due figli morirono in tenera età) di Giovanni di Marcantonio e di Chiara Dolfin di Lorenzo. La famiglia, che abitava nel sestiere di San Polo, era potente e ricchissima, e lo stesso C. sarebbe diventato figlio, fratello e zio di altrettanti dogi, e settimo cardinale della casata. Dimostrò subito, del resto, doti non comuni di intelligenza e vivacità intellettuale che, unite ad un carattere ambizioso ed energico, lasciavano prevedere una sua brillante affermazione, sia che si fosse volto alla carriera politica, che a quella ecclesiastica. Il 16 genn. 1588 lo zio Francesco, allora chierico di Camera di Sisto V, gli fece ottenere dal gran maestro dell'Ordine gerosolimitano il giuspatronato del priorato di Cipro, dietro esborso di 30.000scudi e l'unione ad esso della commenda di Treviso, della quale i Corner erano da tempo titolari. La morte prematura dello zio (1598), che nel frattempo era divenuto cardinale, fu probabilmente il motivo che indusse il C. ad abbandonare Roma, dove aveva iniziato gli studi, e a ritornare in patria, nella quale peraltro non rimase a lungo. Seguendo una tradizione assai diffusa tra i giovani patrizi veneziani, il C. infatti si trasferì a Padova per frequentare i corsi della facoltà giuridica, la cui laurea costituiva titolo indispensabile per accedere alle alte gerarchie laiche ed ecclesiastiche.
Lo studio del diritto, tuttavia, non poteva esaurire la vivacità dei suoi interessi culturali, specie nello stimolante ambiente dove, accanto al Galilei, insegnavano il Cremonino e l'Acquapendente: di qui l'approfondimento dell'amicizia col matematico toscano, che nel'99 gli impartiva lezioni private, e la fondazione dell'Accademia dei Ricovrati, inaugurata il 9 genn. 1600, alla presenza delle massime autorità cittadine.
Conseguita la laurea in utroque iure il 27 marzo 1602, ritenne che la Curia romana fosse l'ambiente più adatto per farla valere; qui infatti poté ottenere da Clemente VIII la nomina a chierico di Camera, e tre anni dopo era già in grado di analizzare con competenza ed acume le vicende del tormentato conclave che portò all'elezione di Paolo V.
Non sappiamo quale posizione egli abbia assunto nel drammatico periodo dell'interdetto, che vide contrapposti il Papato e la Repubblica, ma è del tutto probabile che, nella sua veste di abate e chierico, si sia pienamente uniformato alle direttive della S. Sede, tanto più che a questo lo spingeva una ben consolidata tradizione famigliare. Il silenzio degli anni compresi tra l'interdetto e la sua nomina a vescovo di Bergamo, avvenuta nel 1622, è in parte interrotto da una serie di lettere inviate al padre ed al fratello Francesco, il futuro doge. Oggetto precipuo di questa corrispondenza sono questioni economiche, che lo rivelano al centro di grosse speculazioni a Venezia e a Roma, specie con casa Orsini.
Intanto sin dal 1614 il C. manifestava il desiderio di ottenere il vescovato di Brescia o di Padova, e cinque anni più tardi informava il fratello delle sue aspirazioni al cardinalato. Tali manovre, pero, non ebbero per il momento l'esito sperato, ed egli dovette seguire il conclave del '21 (del quale lasciò un'ottima Informazione inedita nella Biblioteca Apostolica Vaticana: cfr. Pastor, XIII, p. 229) ancora nella veste di semplice chierico di Camera; tuttavia, appena un anno dopo, il nuovo pontefice Gregorio XV gli conferiva il tanto sospirato vescovato, nella sede di Bergamo. Ma il C. non lasciò Roma e nel '23 fu ancora lui a stilare una dettagliata relazione del conclave che portò all'elevazione di Urbano VIII. Poi, finalmente, raggiunse la sua diocesi e, all'inizio del '25, Venezia, a rallegrarsi con il padre per l'assunzione al dogato.
Uomo mite e remissivo, volto piuttosto a predisporsi una vecchiaia tranquilla ed appartata che ad inseguire onori e prestigio, questi aveva accettato le insegne ducali quasi suo malgrado e malgrado l'opinione dei figli, desiderosi soprattutto di accumular ricchezze; dovette arrendersi, però, ai voti del partito conservatore, e tale nomina si sarebbe rivelata particolarmente controproducente proprio per l'inquieto Federico.
Nominato cardinale da Urbano VIII il 19 genn. 1626, col titolo di S. Maria Traspontina, il C. riuscì ad ottenere l'assenso del Senato al suo ingresso nel Sacro Collegio: le leggi della Repubblica, infatti, vietavano ai familiari del doge di accettare benefici ecclesiastici.
Nonostante ciò, gli umori dei Pregadi risultarono favorevoli alla tesi sostenuta dai Corner (e cioè che qui non di una pensione o di un reddito si trattava, ma di una dignità), poiché l'Assemblea era dominata da una maggioranza filopontificia ed in quel momento alla Serenissima era necessario un intermediario fidato, da inviare a Roma nella fase conclusiva delle trattative che dovevano porre fine alla guerra della Valtellina. Il Senato non si oppose neppure alla sua traslazione, avvenuta di lì a qualche mese, il 7 settembre, al vescovato di Vicenza; e questo, nonostante il parere negativo del consultore in iure Micanzio, succeduto al Sarpi nell'importante ufficio, e nonostante il C. fosse stato nominato amministratore dei beni dei gesuiti, espulsi sin dall'epoca dell'interdetto da tutti i territori del dominio veneto. Quando però il pontefice trasferì nuovamente il C., stavolta alla ricca e prestigiosa sede di Padova, la Repubblica reagì vigorosamente.
Era l'aprile del 1629: di fronte alla compatta reazione del Senato, guidato da Nicolò Contarini e Ranieri Zeno, il C., che pure da tempo aveva posto in atto una serie di manovre e pressioni per ottenere il possesso del pingue vescovato euganeo, fece precipitosamente marcia indietro; dall'abbazia di Vidor, nel Trevigiano, di cui era titolare e dove si era ritirato ad attendere l'esito della vicenda, scrisse una serie di lettere al cardinale Barberini, al doge, ai fratelli, nelle quali affermava la sua totale estraneità alla decisione pontificia e supplicava la revoca della nomina.
Il 15 maggio si rivolgeva al padre per assicurarlo sopra due cose: "La prima è, che in questo negotio io non ci ho avuto parte alcuna, essendo tutto ciò, che è seguito, stato mera volontà del Pontefice; la seconda, ch'io non son mai per discostarmi dal gusto, e dalla soddisfattione della mia Patria, in qualsivoglia tempo, et per qualsivoglia occasione, come figliolo, e servitore obbediente..., et per comprobar ciò... ho replicato di nuovo nella più viva, et efficace maniera, che ho saputo, allIll.mo Sig. Card. Barberino..., ma di più l'ho supplicato instantissimamente ad operare con N. Sig.re, che si contenti, che la detta translazione non vada avanti, e si degni non mi levar da Vicenza, perché così è il mio gusto, il mio desiderio, il mio commodo".
In realtà, il C. sapeva bene che il pontefice non sarebbe mai tornato sulla sua decisione: nello stesso mese, infatti, Urbano si rifiutava di ricevere l'ambasciatore veneziano, Angelo Contarini, lasciando al Barberini il compito di informarlo che egli "era ormai impegnato col mondo intero". La questione, dunque, si era ormai trasformata in un paralizzante braccio di ferro: a nulla valsero né l'offerta del doge di rinunciare alla suprema dignità, pur di accontentare il figlio, né la sua morte, sopravvenuta nel dicembre del 1629; per due anni la sede di Padova rimase vacante del titolare, mentre a Venezia saliva al dogato l'intransigente Nicolò Contarini ed il nuovo ambasciatore a Roma, Giovanni Pesaro, spingeva i rapporti fino al limite della rottura. Soltanto nel '31 si giunse ad un accomodamento, e l'occasione venne offerta dalla scomparsa del patriarca di Venezia: in suo luogo subentrava il C., mentre il vescovato di Padova era conferito al fratello Marcantonio, già primicerio di S. Marco.
Venezia attese però più di un anno il nuovo prelato, che preferì il più sicuro soggiorno di Vidor a quello che gli poteva offrire una città devastata dalla peste; qui egli giunse soltanto il 27giugno 1632, ed il suo ingresso venne celebrato con ogni possibile dimostrazione di sfarzo.
Cardinale patriarca, nei dodici anni che seguirono il C. volle e seppe offrire ai concittadini l'immagine di una straordinaria liberalità e munificenza: edificò un nuovo seminario, in luogo di quello che era stato demolito per far posto alla chiesa della Salute; restaurò l'archivio, innalzò un oratorio a S. Ivo. Del clero si occupò solo per affinarne la preparazione culturale; ripristinò invece un'accademia di giovani patrizi e riuscì ad ottenere il ravvedimento di suor Arcangela Tarabotti, già autrice dell'Inferno monacale, la quale giunse, nel '43, a dedicargli l'opera di ritrattazione, il Paradiso monacale. Qualche mese prima, alla presenza dei vescovi suffraganei di Caorle e di Chioggia, il C. aveva consacrato la nuova chiesa metropolitana di Venezia, dove aveva curato il restauro della cappella di S. Giusto Martire. La permanenza in patria non gli aveva però fatto interrompere le relazioni con la Curia e con il pontefice, dal quale ottenne, nel '37, la commenda dell'abbazia della Vangadizza, nel Polesine, che alla sua morte avrebbe poi lasciato al nipote Giorgio, vescovo di Padova. All'inizio del 39 si reco a Roma per la consueta visita ad limina, ma in realtà con l'incarico, conferitogli dal Senato, di allacciare trattative con la S. Sede, in vista di un comune impegno nella guerra contro i pirati del Barbarossa.
I rapporti tra le due corti erano ancora improntati a diffidenza e rancore, ed il miglioramento che ne seguì si deve in gran parte ascrivere all'abilità ed all'esperienza del C., il quale seppe convincere il pontefice a rimuovere l'iscrizione della sala regia, la cui interpretazione della pace del 1177 tra Papato e Impero tanto dispiaceva ai Veneziani, ed a predisporre il cardinal Barberini - da lui giudicato "prontissimo et ardentissimo" a muovere contro i Turchi - ad accogliere con fiducia l'arrivo del nuovo ambasciatore della Repubblica, Nani. Il concorde gradimento dell'operato del C. è testimoniato dalla ratifica ducale del possesso della Vangadizza (febbraio 1639)e dalla sua nomina a camerlengo del Sacro Collegio, in luogo del defunto cardinale Gissi (aprile 1639).
Nel novembre 1640 il C. tornò a Venezia, dove rimase ancora qualche anno; poi, nell'aprile del '44, decise di rinunciare al patriarcato; disse per motivi di salute, perché era vecchio e stanco e la podagra non cessava di tormentarlo: meglio ritirarsi a Roma, dove qualcuno era più logoro e più spossato di lui. Il C. sapeva bene che un nuovo conclave non poteva essere lontano, e il suo primo incontro col pontefice, nel giugno '44, gli confermò la giustezza delle sue previsioni.
Al Senato, che gli aveva chiesto di sottoporre al papa una "rosa" di quattro nomi entro cui scegliere il nuovo arcivescovo di Candia, il C. inviò l'immagine di un uomo ormai finito, prostrato nello spirito dall'infelice esito della guerra per il ducato di Castro: "Egli è di cera assai dimagrito, di corpo languido, estenuato, incurvato, e fiacco di forze, e altrettanto infastidito, e conturbato nell'animo. Cominciò a lamentarsi, e dolersi di quasi tutte le cose, e chiamarsi maltrattato, malservito, e ingannato da tutti...".
Due mesi dopo iniziava il conclave che avrebbe portato all'elezione di Innocenzo X: una scelta gradita alla Repubblica, e della quale il C. si rallegrava nei dispacci inviati per l'occasione al Senato, congiuntamente all'altro cardinale veneziano, Marcantonio Bragadin. Gli anni che seguirono lo videro dividersi tra lunghi soggiorni nell'amata quiete di Vidor e la Curia pontificia: il 19 nov. 1646 diveniva titolare di S. Maria in Trastevere, il 29 apr. 1652 di Albano. Morì a Roma un anno dopo, il 5 giugno 1653, quand'era ormai uno dei più potenti e prestigiosi cardinali del Collegio, e fu sepolto nella splendida cappella di S. Teresa, a S. Maria della Vittoria, dove aveva fatto scolpire i busti di sei cardinali della sua famiglia e del doge suo padre.
Nel testamento lasciava enormi ricchezze al fratello Francesco ed istituiva diversi legati, tra cui uno - ingentissimo - di 30.000 scudi al Collegio di Propaganda Fide. Non aveva certo dimostrato tanta generosità qualche anno prima, allorché la Repubblica lo aveva chiamato ad offrire un contributo nelle emergenze della guerra di Candia: il 16 sett. 1645 aveva assicurato che la tenuità delle sue entrate non gli permetteva di mettere a disposizione della patria più di 3.000 ducati.
Fonti e Bibl.: Notizie sulla sua vita, in Arch. di Stato di Venezia, M. Barbaro, Arbori de' patritii…, III, p. 47, Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Cod. Cicogna 3781: G. Priuli, Pretiosi frutti..., I, c. 191v. Per la vertenza sorta in seguito al trasferimento a Padova del C., Arch. di Stato di Venezia, Senato, Dispacci Roma, filza 100, nn. 438a, 440; sulla missione a Roma del '39, Ibid., filza 113, nn. 1-28; su quella del '44, Ibid., filza 121, nn. 2-11, 13-26, 2844; Senato, Roma ordinaria, reg. 47, cc. 80r-111v, 128v-178r. Due interessanti fascicoli di lettere ai famigliari, per il periodo compreso tra il 1614 ed il 1623, in Venezia, Biblioteca del Civico Museo Correr, Mss. P. D. c 285/ I-II; altra corrispondenza, con un diario riguardante il 1629-30, Ibid., Mss. P. D. c 292/I-II; un riassunto anonimo, ma probabilmente di un membro di casa Corner, degli avvenimenti che seguirono la sua nomina a cardinale, Ibid., Cod. Cicogna 3080/I; ancora al Correr, una stampa del C. a proposito della contribuzione richiestagli per la guerra di Candia, in Mss. Malvezzi 128/377. Opere del patriarca C. per il suo clero, e componimenti a lui dedicati. in E. A. Cicogna, Saggio di bibliografia venez., Venezia 1885, p. 366. Vedi inoltre: F. Corner, Ecclesiae Venetae, XIII, Venetiis 1749, pp. 186-188; A. M. Querini, Tiara et purpura Veneta, Brixiae 1761, pp. 258-268; L. Cardella, Memorie storiche de' cardinali della Santa Romana Chiesa…, VI, Roma 1793, pp. 259-261; E. A. Cicogna, Delle Inscrizioni Venez., Venezia 1824-53, I, p. 135; II, p. 171; III, pp. 125, 181; V, p. 537; VI, p. 698; A. Favaro, G. Galilei e lo Studio di Padova, Firenze 1883, I, pp. 158, 207-208; II, pp. 79, 81, 191; A. E. Baruffaldi, Badia Polesine, VIII, Arcipreti e rettori della chiesa di S. Giovanni Battista (fino alla soppress. della Commenda nel monastero della Vangadizza), in Nuovo Arch. veneto, n. s., XXIX (1915), pp. 458, 460-462; L. von Pastor, Storia dei papi..., XII, Roma 1930, pp. 24, 28-30; XIII, ibid. 1931, pp. 27-31, 229, 235-236, 240, 242-246, 713, 728-730, 732, 755, 895; XIV, 1, ibid. 1932, pp. 14, 41; G. Cozzi, Il doge N. Contarini. Ricerche sul patriziato venez. agli inizi del Seicento, Venezia-Roma 1958, pp. 241-243, 255, 279, 281, 286, 293-294; F. Zen Benetti, Per la biografia di F. e Marcantonio Cornaro, vescovi di Padova, in Quaderni per la storia dell'Univ. di Padova, IV (1971), pp. 119-126; G. Moroni, Diz. di erudiz. stor-eccles., XIV, XVI-XVII, XCIII, ad Indicem.