BONAVENTURA, Federico
Nacque ad Ancona il 24 ag. 1555 da Pietro, di nobile famiglia urbinate già distinta in più rami, e da Leonora Landriani del casato milanese ragguardevole per numerosi uomini d'arme.
Anche il ceppo paterno, che portava sullo scudo il leccio frondoso sopra cinque monti, era tutto di gente di guerra, a cominciare da un Guido, capitano di Federico II da Montefeltro nel 1464, a Girolamo inviato d'Urbino a Roma nel 1532, a Sebastiano che ebbe uffici diplomatici e militari tra il 1523 e il 1547, allo zio Guidantonio comandante di contingenti feltreschi nel Regno di Napoli nel 1570-71. Il padre Pietro, capitano d'una compagnia di cavalli leggeri, servì agli ordini dei Carafa nella sciagurata guerra del 1556 contro la Spagna, ma non era insensibile alle buone lettere, se in quello stesso anno ospitò Bernardo Tasso (che nel '62 gli dedicò il suo Ragionamento della poesia) e nell'agosto del 1559 accolse nella sua villa di Firmignano Annibal Caro, che si piegò di buon grado a correggergli un gramo sonetto di risposta a un altro in sua lode di Laura Battiferri (entrambi nelle Opere toscane della poetessa, Firenze 1560).
Quando Pietro morì prematuramente, ai primi del 1564, il B., figlio unico, non aveva che otto anni; accolto in Roma in casa del cardinale Giulio Della Rovere, fratello del duca d'Urbino, vi venne educato signorilmente: nel 1570 già scriveva allo zio Guidantonio di volersi dedicare tutto agli studi, forse a causa della cagionevole salute, e certo ebbe buoni maestri e coltivò seriamente il latino, il greco (che maneggiò poi con perizia filologica), la filosofia, le buone lettere. Nel 1573, rientrato a Urbino, divenne paggio di corte e si cimentò negli esercizi cavallereschi; ma più congeniale gli fu la frequentazione del nuovo duca Francesco Maria II (salito al trono nel settembre 1574), giovane di indole seria e studiosa, di lui maggiore di soli sei anni, che lo accolse tra i suoi più intimi e lo scelse a compagno delle passeggiate mattutine e delle dotte discussioni in cui amava intrattenersi.
È di quegli anni un esile canzoniere inedito d'una settantina di componimenti (Pesaro, Bibl. Oliveriana, cod. 1355), che alterna frigide rime amorose d'uno stanco petrarchismo con sonetti devozionali; il sonetto 35, che piange la morte del cardinale Della Rovere, fissa il termine cronologico del sett. 1578, mentre il penultimo carme (sonetto 57), forse più tardo, attesta un viaggio sulle rive del gelido Danubio, forse a Vienna, per una missione diplomatica non precisabile.
Sposo nel 1577 di Pantasilea dei conti di Carpegna nel Montefeltro, il B. ne ebbe una dozzina di figliuoli e presto dovette allontanarsi dalla vita e dagli obblighi della corte per ritirarsi in un isolamento raccolto, tutto preso dalle cure economiche e dagli studi.
Nel settembre 1578, durante il breve soggiorno urbinate, Torquato Tasso abitò in casa sua. Il suo primo lavoro databile è la versione della parafrasi di Temistio del De anima aristotelico, condotta per i libri II e III negli anni 1582-83 e ripresa nel 1588 per il libro I. Nell'offrirne al duca un saggio il 18 maggio 1583 il B. si scusava per l'impedimento del "male" che aveva ritardato il suo lavoro. Più tardi si cimentò in lavori di erudizione su antichi testi di argomento astronomico e meteorologico, pubblicando ad Urbino nel 1592, presso Bartolomeo Ragusio, le Inerrantium stellarum apparitionesac significationum collectio di Tolomeo (con testi paralleli di Plinio e Columella e ampio commento), una Apologia in favore di Teofrasto e di Alessandro di Afrodisia "de vero tempore ortus atque occasus Orionis", stesa in volgare (testo inedito a Pesaro, Bibl. Oliveriana, cod. 1503) e volta in latino da Pier Paolo Florio, un De causa ventorum motus per sostenere in quasi duecento pagine la concordanza in materia tra Aristotele e Teofrasto. L'anno seguente, sempre ad Urbino, vedeva la luce la parte I (e unica) di una sua Anaemologia "de affectionibus, signis, causisque ventorum", che forniva in sessanta pagine il testo emendato del De ventis e di altri scrittarelli meteorologici di Teofrasto, facendolo seguire da quasi quattrocento pagine di soffocante commento erudito. Tutte queste stampe, rimaste invendute, vennero poi rimesse in circolazione a Venezia nel 1594, sotto un frontespizio posticcio, da F. de' Franceschi, senza miglior esito.
L'operosità grigia e puntigliosa del B. era straripante: sin dal 1584 aveva avviato un immane trattato di teratologia, il Demonstris in sette libri (Pesaro, Bibl. Oliveriana, cod. 1501; Urbania, Bibl. Comunale, cod. 70); in quegli stessi anni scrisse un De natura et causis plantarum, un In genitura Hippocratis (Urbania, ibid.), un De Hippocratici anni partitione, una dissertazione volgare sui delfini, uno zibaldone di calcoli astrologici, un repertorio di sentenze fisico-morali (Pesaro, Bibl. Oliveriana, codd. 1510-1513). Deserto d'ogni attitudine alla ricerca naturalistica, all'osservazione del reale, il suo sapere appare rigoroso e arcaico al tempo stesso, straripante caterva di citazioni pazientemente composte in mosaico con la sua infaticabile penna di grafomane. L'uomo era invece mite, cortese, sollecito, tutto preso da crucci amministrativi e domestici, afflitto da malanni continui, da lutti e sventure a catena. Peripatetico di provincia, lo vediamo occuparsi di pronostici astrologici, di contese cavalleresche, di puntigli di frati, di beghe patrimoniali, sempre volenteroso e servizievole. Talvolta non poté sottrarsi ai doveri della politica, e ai primi del 1591 gli toccò recarsi a Roma a porgere i rallegramenti ducali al neoeletto Gregorio XIV, come nel novembre del '98 dovette presenziare a Ferrara alle nozze di Margherita d'Austria con Filippo III.
Nell'autunno del 1599 diede l'ultima mano all'opera sua di maggior mole: le mille pagine in folio del De natura partusoctomestris, replica a uno scritto di egual titolo che il medico Girolamo Bertolini gli aveva dedicato il 12 dic. 1594. Stampata a Urbino da Ragusio nel 1600, rimessa in circolazione dal Ciotti a Venezia sotto un frontespizio fittizio nel 1602 e a Francoforte nel 1612, l'opera ebbe una qualche diffusione per i quesiti medici, giuridici e astrologici che affrontava, ma non si staccava dalle altre compilazioni del B., soffocanti e smisurate. Era talmente prolissa che il B. si sentì in obbligo di stenderne un Compendium che offerse al duca il 4 maggio 1600 e che il tipografo avveduto stampò in calce all'immane tomo per comodo dei lettori più sbrigativi.
Da questo grigiore si stacca, per rigore filosofico e impegno in una viva discussione culturale, l'ultima opera del B.: i quattro libri Della ragion di Stato e della prudenza politica, composti per volere del duca e a lui dedicati il 7 ag. 1601. Si tratta essenzialmente di una polemica contro l'omonimo scritto del Botero (Venezia 1589; edizione definitiva 1598) e il suo approccio edificante e retorico al problema politico centrale della Controriforma. Stavolta Aristotele giova davvero a precisare concetti, a distinguere con rigore, a classificare, e il discorso del B., pur tra le consuete prolissità, raggiunge risultati degni di considerazione. L'opera rimase incompiuta, perché il B. morì d'improvviso il 25 marzo 1602, trovando sepoltura nella cappella dei suoi avi in S. Bernardino a Urbino; due settimane prima aveva condotto in porto il faticoso negozio del conferimento di un lucroso arcidiaconato al suo primogenito Pietro (1578-1653), che fu prelato di ottima fama e morì vescovo di Cesena.
Insieme con i fratelli fu Pietro ad allestire per la stampa la Ragion di Stato, che ottenne le approvazioni ecclesiastiche il 28 ott. 1620 e vide la luce a Urbino nel 1623, quando ormai il dibattito s'era esaurito e il cospicuo tomo suonava ormai anacronistico. Quattro anni dopo, Pietro mandò alle stampe un ultimo volume di scritti paterni: gli Opuscula (Urbino 1627), che comprende quattro vecchie scritture: un Quomodo calor a sole corporibusquecoelestibus producatur, un Utrum homo afficirabie possit,affectus interire, un abbozzato De via Lactea in difesa della tesi di Aristotele e la versione della parafrasi di Temistio sul De anima (il libro III soltanto). In piena età galileiana il loro anacronismo era ormai patetico: mero atto di pietà filiale, che più nulla aveva a che fare con il mondo della scienza.
Fonti e Bibl.: Codici di opere edite, spesso con varianti autografe: Roma, Bibl. Vaticana, Cod. Urbinat. lat. 1333, 1349; Pesaro, Bibl. Oliveriana, codd. 1494, 1495, 1502, 1503, 1509, 1513. Lettere: Pesaro, Bibl. Oliveriana, codd. 1525, 1568, 1580; carteggi: Ibid., codd. 1525, 1525 bis, 1526, 1527, 1568, 1580. Vedi inoltre: G. Ferro, Teatro d'imprese, Venezia 1623, II, p. 708; P. Gaudenzi, De Pythagoraea animarum transmigratione, Pisis 1641, p. 269; J. N. Erythraeus, Pinacotheca imaginum…, I, Coloniae Agrippinae 1645, pp. 275-77; B. Baldi, Encomio dellapatria, Urbino 1706, pp. 121 s.; G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, II, 3, Brescia 1762, pp. 1563 s.; G. Santini, Picenorum mathemathicorum elogia, Maceratae 1779, pp. 86 s.; F. Vecchietti-T. Moro, Biblioteca Picena, III, Osimo 1793, pp. 1-6; A. Lazzari, Diz. stor. degli uomini ill. di Urbino) in G. Colucci, Delle antichità picene, XXVI, Fermo 1796, pp. 165-67; C. Grossi, Degli uomini illustri di Urbino, Urbino 1819, pp. 58-66; F. Ugolini, Storia dei conti e duchi di Urbino, Firenze 1859, II, pp. 410, 490 s.; G. Ferrari, Corso sugli scrittori politici italiani, Milano 1862, pp. 390 s., 802, 851; F. Cavalli, La scienza politicain Italia, II, Venezia 1873, pp. 208-10; F. Meinecke, Die Ideeder- Staatsräson in derneueren Geschichte, München-Berlin 1924; B. Croce, Storia dell'età barocca in Italia, Bari 1946, pp. 88, 90; T. Bozza, Scrittori politici italiani dal 1550 al 1650, Roma 1949, pp. 145 s.