FEDERICI, Vincenzo, detto Capobianco
Nacque nel 1772 ad Altilia, piccolo casale nei pressi di Cosenza, posto su un'altura prospiciente il Savuto, un fiume che segna il confine tra le due Calabrie, Citeriore ed Ulteriore seconda. "Egli era di civil condizione, di vantaggiosa statura; di tempra gagliarda, quantunque corpulenta; di avvenente volto, ma grave; di occhi scintillanti sotto ampia fronte e biondi capelli; di poveri studii, compensati di naturale sagacia, dirittura di giudizio e persuasivo ragionare" (L. M. Greco, p. 19).
Fin dalla prima giovinezza propugnò principî di libertà. Influenzato dalle istanze dei novatori cosentini, i quali, nel 1799, sull'esempio di quella partenopea, avevano proclamato anche a Cosenza la Repubblica, il F., nel suo paese, dove, al pari di tutti i Comuni silani, i contrasti tra i contadini e la borghesia terriera accendevano aspri conflitti, fu un convinto assertore dell'esperienza repubblicana, trasformatasi ben presto in una questione più sociale che politica.
Non appena, poi, nel Regno di Napoli aveva incominciato a diffondersi la carboneria, egli fu tra i primi adepti della provincia di Cosenza. In una lettera che il re Gioacchino Murat scrisse a Napoleone (cfr. Valente) nel febbraio 1809, nella quale si accennava a un elenco di patrioti carbonari delle regioni meridionali, operanti isolatamente e senza costituire, ancora, un reale pericolo per le istituzioni, era segnalato anche il nome del Federici.
Ad introdurre la carboneria in Calabria e nel Mezzogiorno, subito dopo il ritorno, nel febbraio 1806, dei Francesi, venuti, questa volta, non come conquistatori ma come riformatori e ispiratori di ordinamenti ed orientamenti liberali, era stato, con ogni probabilità, Pierre Joseph Briot, già deputato giacobino e fervente italofilo, e, dal luglio 1807 al settembre 1810, intendente della provincia di Cosenza, dopo una sua breve permanenza a Chieti.
Il Murat, consigliato anche dal genovese Antonio Maghella, ministro di Polizia, favorì in un primo tempo la carboneria e la sua diffusione, facendola apparire come il più valido puntello dei trono, con l'intento di servirsene al momento opportuno per ottenere l'autonomia del Regno. La carboneria, in questa prima fase, non più che un misto di sentimenti indipendentistici e di aspirazioni costituzionali, si diffuse rapidamente in diversi paesi della provincia cosentina. La prima vendita carbonara, ufficialmente costituita, sorse, ad opera del medico Gabriele De Gotti, amico del Briot, nel 1811 nella stessa Altilia.
Pur sottoposta, nei suoi primi anni di vita, alle influenze murattiane, la carboneria calabrese fu originariamente francofila e affiancò l'opera del governo, ma quando nella vicina Sicilia, dietro le sollecitazioni dell'Inghilterra, i Borboni, nel 1812, concessero la costituzione, i carbonari calabresi, in particolare quelle frange che avevano appoggiato i Francesi, presero ad avversare il Murat e a valutare la possibilità di Ferdinando re costituzionale. La propaganda angloborbonica ebbe così facile gioco nell'orientare la società segreta contro il monarca francese, il quale, d'altra parte, per il suo assolutismo amministrativo, e nonostante il favore che godeva presso numerosi strati delle popolazioni meridionali, si era sempre dimostrato contrario ad assecondare il movimento che chiedeva la concessione delle istituzioni rappresentative.
Anche il F., attivo maestro della vendita di Altilia, subì, certamente, il mito della costituzione siciliana e da amico (il generale C. A. Manhès, comandante militare della Calabria, lo aveva nominato capitano delle guardie civiche nel suo circondario) divenne irriducibile nemico dei Francesi, inclinando verso i Borboni e intraprendendo la via della rivolta armata.
Divenuto, nel frattempo, capo della carboneria calabrese, egli non solo stabilì contatti continui con le vendite della regione, con quelle della Sicilia e "per organo dell'alta vendita napoletana con quelle del Nord d'Italia" (Andreotti, p. 165), ma la introdusse anche negli ambienti più disparati della società calabrese, sia nelle classi popolari, sia nella cerchia dei militari e del clero.
Quando i carbonari, pur divisi tra di loro, tra gli elementi sensibili alle promesse angloborboniche e quelli ancora fedeli al Murat, pensarono di costituire la Repubblica a Catanzaro, la conduzione dell'iniziativa venne affidata al F., come a colui che avrebbe saputo meglio cogliere i vantaggi della favorevole circostanza del contemporaneo impegno militare del Murat in Russia e delle esigue truppe presenti in Calabria, indebolite, peraltro, dalla assidua vigilanza che dovevano esercitare sullo stretto di Messina per frenare le ambizioni dei Borboni.
L'idea di un moto in Calabria, per ottenere dal governo le riforme costituzionali, venne al F. nel 1813. Il 12agosto, avvalendosi del suo grado militare e senza un programma ben definito, egli raggiungeva i civici del circondario di Carpanzano e, fingendo di aver ricevuto speciali incarichi dalla polizia, ordinava loro di tenersi pronti a una eventuale chiamata. Nello stesso tempo, con un'accesa lettera circolare, si rivolgeva alle vendite carbonare della provincia, chiedendo l'aiuto di validi armati per provvedere alla comune difesa, dato che il governo aveva ordinato l'arresto dei rivoltosi.
Dopo una prima, lieve sommossa durante la fiera che si svolgeva sulle rive del Savuto, il 15 agosto si mossero Scigliano e Aprigliano, insospettendo il comandante della provincia G. Jannelli, che intervenne subito e, per ristabilire più prontamente l'ordine, promise agli insorti l'impunità ove fossero tornati tranquilli nelle loro case. Tutti obbedirono, eccetto il F., che si diede alla latitanza. Il suo atteggiamento ribelle preoccupò le autorità cosentine, le quali decisero di riferire la cosa al Manhès. Il generale dapprima lo richiamò personalmente e, subito dopo, spedì il suo "aiutante generale Garnier" con una lettera da recapitare al F., attraverso l'intendente L. Flach.
Il latore della missiva, scelto nella persona del sacerdote Carlo Bilotta, convinse il F., col quale era in grande intimità, a recarsi in sua compagnia a Cosenza presso l'intendente e presentarsi al campo insieme col Garnier. L'accordo, suggellato da un pranzo, durò poco, in quanto il F., allontanatosi con un pretesto per timore di essere arrestato, decise di riprendere l'insurrezione, arroccandosi nella natia Altilia.
Il 15 settembre un distaccamento mosse contro il paese, ma nessuno degli abitanti tradì il F. che, dopo aver brevemente parlamentato con un inviato dei soldati, diede ordine ai suoi di sparare sul manipolo. Il comandante della spedizione dispose così di mettere a ferro e a fuoco l'abitato se la popolazione non avesse consegnato il F., ma questi, per salvare la sua gente, si dette alla fuga.
L'energica azione militare convinse il F. ad intensificare l'agitazione. Il suo nuovo disegno era quello di sollevare la provincia di Cosenza, senza versare sangue se non in caso di estremo bisogno e proponendosi di rispettare la proprietà, e contemporaneamente di preparare la rivolta nelle altre due province di Catanzaro e Reggio Calabria, dove gli Angloborboni, venuti espressamente dalla Sicilia, avrebbero preso la direzione del moto.
Dopo aver inviato emissari a Cosenza e nelle province limitrofe, illudendosi che la sola presenza dei suoi seguaci avrebbe suscitato la rivolta, il F. tentava di penetrare a Cosenza. Ma la fortuna non aiutò i carbonari. Giunti a Dipignano, essi furono respinti dai legionari e durante la ritirata il F. non riuscì a ricongiungersi coi compagni. Ritrovatili solo a tarda sera, decideva di licenziarli.
Così finiva la sommossa, che era stata caratterizzata, in gran parte, da una larga penetrazione popolare, ma non la caccia al Federici. Nel pomeriggio del 22 settembre il Manhès entrava in Cosenza per calmare la popolazione e per rinsaldare l'autorità del governo. Egli ordinò l'arresto di tutti i sospetti e grazie alla delazione di R. M. Mileti, vicario capitolare di Nicastro, convinto bonapartista (sarà ucciso, a sua volta, dai carbonari nel 1815 per vendicare il tradimento), il Manhès arrivò al rifugio del F., il quale, così, veniva catturato.
Dopo un processo sommario conclusosi con una condanna a morte per ribellione, tradimento e cospirazione, destinata a suscitare vasta eco di indignazione di cui avrà notizia lo stesso Napoleone, il F. fu portato al patibolo, il 26sett. 1813, a Cosenza.
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