FAVA (dalla Fava, de Fabis, de Fabbis, de Faba, Fabius, Fabi, della Romegia o Romeggia), Niccolò, il Vecchio
Apparteneva ad una nota famiglia bolognese, ma se ne ignorano l'anno e il luogo preciso di nascita, da qualcuno dei suoi biografi, in via del tutto congetturale, posta attorno al 1380 e a Bologna. Suo padre Pietro era noto anche come Pietro della Romeggia, dal nome di un fondo o castello del territorio bolognese che fu posseduto dalla sua famiglia fin dal secolo XIII. Della madre, così come della sua infanzia e della sua formazione culturale, nulla sappiamo. Le prime precise notizie sul suo conto si desumono dai documenti universitari che ci permettono di seguire puntualmente l'evolversi della sua carriera di docente.
Laureatosi forse nel 1404 in medicina e in filosofia, con ogni probabilità a Bologna, è certo che già l'anno accademico successivo, nel 1404-05, egli era fra i "doctores legentes in Studio Bononie", incaricato della "lectura loyce". Su questa prima lettura del F. non tutti sono però concordi. Secondo il Fantuzzi e lo Zaoli, che citano il libro delle entrate e delle spese conservato nell'Archivio della città, la disciplina che egli avrebbe cominciato ad insegnare sarebbe stata invece la chirurgia. Comunque sia, almeno nei primi anni del suo insegnamento bolognese, il F. dedicò i suoi sforzi soprattutto alle discipline filosofiche insegnando, e qui le fonti sono concordi, ancora logica, disciplina a cui in via forse straordinaria affiancò nell'anno 1405-06 l'astrologia, e la filosofia naturale e morale ininterrottamente dal 1407 al 1420 (i Rotuli parlano appunto di "Magister Nicolaus de Fabis artium et medicine doctor ellectus ad lecturam utriusque philosophie"), con uno stipendio piuttosto alto, di 300 lire, corrisposto per gli anni 1416-20. Nell'anno accademico 1420-21 il F. compare per la prima volta come lettore della sola filosofia naturale -, e nel 1422 è menzionato esplicitamente come "deputato" alla lettura di medicina "de mane", incarico che gli venne poi confermato gli anni successivi fino al 1438-39, quando, oltre alla predetta disciplina, egli aveva la lettura straordinaria della filosofia morale "diebus festivis". Dopo il 1439 il suo nome non figura più fra i professori dello Studio.
Anche se il suo insegnamento sembra essersi distribuito equamente tra le discipline filosofiche e mediche, il F. è rimasto famoso soprattutto per la sua attività in campo filosofico, e in particolare in campo logico, per la profondità e sottigliezza nel disputare, tanto da essere chiamato dai suoi estimatori un "secondo Aristotele". Dell'alta reputazione di cui il F. godette allo Studio bolognese fa fede la testimonianza di un autorevole personaggio che fu suo studente a Bologna, Gasparo da Verona, poi vescovo di Imola, che nel suo Commento a Giovenale (Vat. lat. 2710, f. 35a) lo ricorda come uno dei tre luminari della filosofia dell'epoca accanto a Filippo Palliccione e a Paolo Veneto.
Proprio a proposito dei rapporti, o meglio, delle rivalità e delle dispute fra questi dotti esponenti del mondo universitario dell'epoca, risulta assai interessante un episodio riferito da Benedetto Morandi. Lo storico bolognese narra, infatti, che nel mese di maggio o giugno del 1425 il noto filosofo e medico Ugo Benzi da Siena, per altro rivale e concorrente del F. nella lettura di medicina durante gli anni accademici (1404-05, 1410-12, 1423-25) nei quali fu chiamato a insegnare a Bologna, fu incaricato di decidere in un dibattito filosofico pubblico fra un campione della logica come Paolo Veneto e il Fava. La disputa si tenne durante il capitolo generale dei frati agostiniani di Bologna, alla presenza di ottocento confratelli e sotto la presidenza del cardinale di S. Croce, Niccolò Albergati. Si dovevano dibattere il problema peripatetico delle forze e potenze dell'anima e quello, ancor più spinoso e famoso, dell'unità dell'intelletto che già allora divideva le varie scuole filosofiche. A Paolo Veneto, che sosteneva l'opinione averroista, sembra che il F. facesse obiezioni così calzanti e inoppugnabili da confonderlo e umiliarlo, inducendolo, nella sua incapacità di sostenere la stringente logica dell'avversario, ad abbandonare il terreno della disputa per scendere ad insulti e attacchi di altro genere.
Della serietà e precisione con cui il F. svolgeva il suo esame dei testi filosofici offrono testimonianza i suoi rapporti con alcuni dei più eminenti umanisti dell'epoca, tra i quali Francesco Filelfo di cui fu amico e corrispondente.
Del loro scambio epistolare restano due interessanti lettere del 1428 nelle quali l'umanista risponde al F. su un quesito che questi gli aveva posto in lettere a noi non pervenute, sul testo greco dell'Etica a Nicomaco di Aristotele. Al F., che sembra conoscesse il greco, non risultava chiara la traduzione latina circolante di L. Bruni, che poneva un grave problema di interpretazione dell'originale concezione aristotelica. Pertanto, confidando nella perizia filologica dei Filelfo, chiedeva se all'inizio il testo aristotelico avesse "ideo bene ostenderunt bonum esse quod omnia appetunt", oppure "bene ostenderunt summurn bonum, quod omnia appetunt". Come si desume appunto dalla risposta del 14 maggio 1428, il Filelfo, che aveva forse capito che dietro tale questione si nascondeva una sottile contesa fra il Bruni e lo stesso F., rispose che in realtà entrambe le traduzioni non trovavano preciso riscontro nel testo greco, anche se non nascose la sua propensione verso l'interpretazione "morale" del Bruni, che intendeva appunto il "sommo bene" del testo come riferito all'uomo, e non, più in generale, a tutti gli esseri naturali. Il Filelfo invitava altresì il F. a comunicargli più dettagliatamente la sua opinione. In realtà il F. non dovette rimanere soddisfatto della spiegazione dell'unianista, perché, come si ricava da un'altra lettera del Filelfo del 5 agosto dello stesso anno, il F. rispose con ritardo e piuttosto seccamente, e senza quelle dilucidazioni filosofiche di cui era stato richiesto.
Questi episodi relativi alle contese logico-filosofiche e le due lettere del Filelfo sono le uniche testimonianze sulle concezioni filosofiche del Fava. Esse lasciano intendere che egli avversava le posizioni averroiste e propendeva per una interpretazione "naturalistica" (non sorprendente peraltro in un medico) della concezione etica di Aristotele. Del F. non si conoscono opere pubblicate o manoscritte. Il Cavazza ha parlato di "scripta egregia et luculentissima in Philosophicis" che egli avrebbe "dettato" ai suoi numerosi studenti, e l'Orlandi afferma che egli lasciò molti manoscritti, ma il Fantuzzi considera la notizia inattendibile. Altri biografi, come il Morandi che fu testimone di quanto si svolgeva nel mondo universitario bolognese nei suoi anni giovanili, affermano con chiarezza che il F. non scrisse nulla, avvicinando per questo la sua figura a quelle di Socrate e di Pitagora.
Sebbene in gran parte assorbito dall'attività didattica e accademica (fu presente ancora il 14 febbr. del 1443 nella chiesa cattedrale di Bologna alla cerimonia del dottorato di un certo Nicola, figlio di ser "Jabobus de Iohannitiis"), non mancano nelle fonti accenni a una attività politica e diplomatica che il F. svolse a favore della sua città e che lo portò talora fuori patria, come accadde nel 1428, secondo quanto si rileva dalle citate lettere del Filelfò. Il Ghirardacci nella sua Historia di Bologna pone il F. tra gli ambasciatori che il 27 febbr. 1430 vennero mandati dal Senato cittadino al papa Martino V per riconoscerlo come signore. Lo stesso storico lo ricorda nell'anno 1435 fra i Dieci di balia. In questa carica fu confermato nel 1438. Nella lotta fra le fazioni che dilaniarono la città di Bologna in questo periodo il F. fu amico della potente famiglia dei Canetoli, fautrice dell'annessione della città al Ducato di Milano; ma ciò non gli deve avere impedito di tenersi in qualche modo al di sopra delle parti.
Dalla sua iscrizione sepolcrale si rileva che il F. morì il 14 ag. 1439. Fu onorato con un imponente funerale, presenti i dottori dello Studio, gli studenti e numerosi cittadini bolognesi. La cerimonia si svolse nella chiesa di S. Francesco, del cui convento dei minori egli era stato sindaco o procuratore fin dal 20 dic. 1421 SU incarico del cardinale Alfonso di Sant'Eustachio, legato di Bologna e della Romagna. Fu sepolto dietro al coro di S. Giacomo Maggiore in un sepolcro di marmo che il Fantuzzi verso la fine del Settecento ancora poteva ammirare.
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