Figure, fatti e percorsi di emancipazione femminile (1797-1880)
Varie manifestazioni pubbliche accompagnano nella primavera del 1797 la caduta della Repubblica e l’arrivo delle armate napoleoniche: cerimonie organizzate o spontanee alle quali partecipano con entusiasmo popolani e borghesi, uomini, ma anche molte donne. Le cronache del tempo ne rimarcano con curiosità la presenza: l’anonimo pittore della Veduta della piazza S. Marco il giorno dell’innalzamento dell’albero della Libertà le rappresenta in primo piano all’ingresso della piazza, in fogge diverse. Accanto alle popolane figurano dame di quella aristocrazia di sangue e di cultura e di quella borghesia nella quale, come osserva Marino Berengo, maggiormente erano attecchite le idee democratiche. Tra tutte si distingue la nobildonna Marina Querini Benzon, amica di Giustina Renier Michiel, salonnière tra le più note della città, che viene vista danzare la carmagnola con il poeta Ugo Foscolo, il 4 giugno a piazza S. Marco, intorno al rogo dei titoli nobiliari(1).
Al di là dei dati folklorici e di una presenza difficilmente quantificabile in termini numerici, la partecipazione femminile appare emblematica di un passaggio cruciale che segna la storia delle donne. Il 1797 rappresenta infatti non solo nella storia della città, ma anche in quella femminile una tappa fondamentale: l’inizio di un processo di emancipazione che vede le donne non solo partecipare in maniera più attiva agli avvenimenti politici, ma porre con forza la questione della loro inclusione nella cittadinanza, del riconoscimento di diritti civili e politici. In un suo articolo sull’emancipazione femminile in Italia, Annarita Buttafuoco individua correttamente in questo momento l’avvio del movimento delle donne in Italia, analogamente ad altri paesi europei, anticipando una data che Franca Pieroni Bortolotti aveva fissato nel cuore del Risorgimento: il 1848(2). Nelle Repubbliche giacobine per la prima volta le donne si presentano sulla scena pubblica come soggetti, entrando in un campo fino a quel momento precluso, e per la prima volta la questione della loro partecipazione alla vita politica si pone come un nodo cruciale dell’organizzazione politica, una questione non meramente teorica, né residuale. Dopo le discussioni settecentesche sull’educazione femminile, dopo lo spazio da molte conquistato in ambito culturale e letterario, l’ingresso delle donne nel terreno della politica, in uno spazio ideale di cittadinanza, rappresenta un passaggio epocale non solo nella storia di genere, ma in quella sociale e politica. La rivendicazione femminile rivela simultaneamente l’esclusione delle donne implicita nell’elaborazione egualitaria giacobina e la necessità di una ridefinizione dei principi, tale da coniugare l’uguaglianza con la differenza(3). La sola «uguaglianza» appariva infatti fin dall’inizio ambiguamente allusiva di una cancellazione del diverso (in primis la donna), lasciato oltre i confini del pubblico, in uno spazio pre-politico non raggiunto dai diritti rivoluzionari, come aveva denunciato, nella Parigi della rivoluzione, Olympe de Gouges(4). Ed è proprio intorno ai due concetti di uguaglianza e differenza che si snoda il dibattito che, a partire dal 1797, attraversa tutto l’Ottocento italiano, con differenti accentuazioni ed esiti.
La concomitanza tra la caduta del vecchio ordine politico e l’avvio del movimento delle donne non appare casuale. La diffusione delle idee e dei principi egualitari aveva maturato tra le donne una nuova percezione della soggettività, nuove aspettative di riconoscimento sociale, mettendo in moto un processo di consapevolezza destinato a crescere negli anni successivi nell’esperienza e nel coinvolgimento diretto nei moti rivoluzionari, nella condivisione con gli uomini delle battaglie risorgimentali, avviando così quel processo di emancipazione che si articola in maniera crescente nel corso del XIX secolo. Chiedersi dunque se a spingere le donne sul sentiero dell’emancipazione sia stato più il maturare di una consapevolezza di diritti individuali o il coinvolgimento diretto negli eventi pubblici, come fa qualche storica, non mi sembra di per sé molto significativo: i percorsi soggettivi appaiono molteplici, diversificati e spesso intrecciati(5). Quello che invece traspare chiaramente dallo snodarsi degli eventi è che le donne sembrano approfittare di ogni rottura rivoluzionaria per avanzare rivendicazioni, per guadagnare spazi di libertà, come avevano opportunamente osservato le storiche francesi in un saggio ormai classico(6); come se soltanto un cambiamento profondo dell’ordine costituito consentisse loro di presentarsi come soggetti, essendo la questione della cittadinanza femminile connessa non con una riforma della costituzione, ma con una radicale modificazione dei principi e dei simboli che vi stanno a monte. Le troviamo puntualmente presenti ad ogni scadenza rivoluzionaria, ad ogni cambiamento di governo: oltre che nella Repubblica del 1797, in quella del 1848, come negli anni immediatamente successivi all’annessione al Regno d’Italia, con una partecipazione ed un protagonismo crescenti, che si intrecciano con discorsi e rivendicazioni al tempo stesso simili e diversi, perché composti di ingredienti culturali afferenti a differenti ideologie. Nell’intervallo tra l’uno e l’altro evento il movimento sembra rifluire in percorsi individuali, in esperienze soggettive che rimangono scollegate l’una dall’altra. L’impressione che si ha, nel ricostruire questa storia di emancipazione, è di seguire il corso di un fiume che d’improvviso si forma dal confluire di diversi rivoli, che sparisce poi entro il tessuto sociale, per riemergere più a valle, reso diverso dal sotterraneo percorso e dal differente panorama di fondo, con un andamento ‘carsico’ che solleva interrogativi di trasmissione e di continuità.
In questo panorama più generale Venezia occupa un posto tutt’altro che secondario, configurandosi come un contesto particolarmente vivace in cui l’elaborazione teorica si intreccia con una realtà di presenza sociale forte, che cresce nel corso del secolo, fino a dar vita ad un vero movimento, caratterizzato da una rete di relazioni, da strumenti divulgativi propri, da figure femminili significative a livello nazionale, da iniziative d’avanguardia. Una realtà importante, largamente inedita e per questo quasi ignorata dalla storiografia femminile, evidentemente orientata, sulla scia di Franca Pieroni Bortolotti, più su altri contesti cittadini(7).
Di questo percorso cercherò di ricostruire i passaggi cruciali, lungo le grandi tappe che ne segnano l’articolazione: dall’esperienza democratica del 1797 a quella del 1848, agli anni immediatamente successivi all’annessione al Regno d’Italia, particolarmente fecondi di iniziative e presenze femminili, focalizzando non tanto il discorso maschile (anche se più facilmente rintracciabile), quanto l’elaborazione originale femminile, le figure delle protagoniste e le loro reti di relazione, gli elementi di continuità e di innovazione. La ricostruzione si ferma agli anni Ottanta dell’Ottocento, non perché questa data segni il raggiungimento degli obiettivi prefissati, ma perché un’altra ideologia si afferma ed un altro soggetto sociale scende in campo sull’onda di altrettanto cruciali trasformazioni economiche e sociali: il proletariato femminile.
Il panorama sociale che fa da sfondo alla nascita del primo movimento delle donne appare contraddistinto dall’apertura di spazi importanti di presenza femminile in campo culturale, accanto al permanere di radicate tradizioni di esclusione ed emarginazione(8). La campagna condotta dagli illuministi sull’educazione femminile aveva stimolato un dibattito importante che aveva coinvolto a Venezia le maggiori personalità culturali del tempo, da Francesco Algarotti (Neutonianismo per le dame, 1737) ad Alessandro Bandiera (Trattato degli studi delle donne, 1740); da Gasparo Gozzi a Carlo Goldoni(9). Uno sforzo preciso era stato fatto da alcuni di loro nella direzione di un allargamento dell’istruzione femminile anche tra le classi subalterne, dove la discriminazione era resa più accentuata dall’avviamento precoce al lavoro e alla collaborazione domestica(10). La riforma gozziana dell’istruzione elementare (1774), con l’apertura di scuole femminili di sestiere, aveva rappresentato un importante sforzo in questa direzione, rompendo, almeno dal punto di vista teorico, una discriminazione evidente ed ancora molto radicata in altri Stati italiani, ad eccezione della Lombardia austriaca(11). Nel corso del secondo Settecento si era registrato un sensibile progresso nella diffusione della lettura, non solo tra le classi privilegiate, con il concretizzarsi di una domanda sociale che aveva finito per alimentare una specifica produzione di testi espressamente indirizzati al pubblico femminile (almanacchi e riviste in particolare)(12). Nel 1750 era stato pubblicato L’Almanacco in difesa delle donne (1750), una specie di calendario-galleria di donne illustri, dovuto probabilmente alla penna della scrittrice Luisa Bergalli, moglie di Gasparo Gozzi(13). Nel 1786 aveva iniziato le pubblicazioni «La donna galante ed erudita. Giornale dedicato al bel sesso» (1786-1788), giornale creato da Gioseffa Cornoldi Caminer, sul modello di simili periodici stranieri(14). Alcune donne erano riuscite a guadagnare spazi importanti in campo culturale non solo nei tradizionali settori della pittura e della musica, che vantavano a Venezia una lunga tradizione di presenza femminile, ma anche in altri campi, come nella letteratura, nel teatro e perfino nel nuovo settore del giornalismo(15). Elisabetta Caminer Turra aveva affiancato giovanissima il padre, Domenico Caminer, nella conduzione del giornale «L’Europa Letteraria» (1768), traducendo testi stranieri e scrivendo articoli, prima di assumere da sola la direzione del «Giornale Enciclopedico»(16). Un impegno accompagnato da un’intensa attività teatrale (anche in veste di regista) che l’aveva resa così famosa da metterla in concorrenza con Gasparo Gozzi. Se l’Arcadia vantava numerose «pastorelle», il cui profilo attende ancora di esser pienamente riscoperto, scrittrici come Isabella Teotochi Albrizzi (la colta «Temira» di Ippolito Pindemonte e di Foscolo) avevano raggiunto una fama europea, in virtù non solo del loro fascino, ma del valore letterario dei loro scritti(17). Il secondo Settecento è ricco di personalità femminili di grande rilievo culturale, da Caterina Dolfin Tron, a Giustina Renier Michiel, a Isabella Teotochi Albrizzi, donne «nuove» non solo per attività culturale, ma anche per stile di vita: Caterina Dolfin non nasconde le sue simpatie per gli illuministi, tiene nella biblioteca libri proibiti, divorzia dal marito e per molti anni è l’amante di Andrea Tron. Isabella Teotochi Albrizzi, dopo il divorzio, riceve «sola», circondata da ammiratori tanto numerosi quanto illustri. Donne poliglotte, scrittrici, traduttrici, drammaturghe, interessate alla letteratura e all’arte, ma anche alla filosofia e alla scienza (Giustina Renier Michiel si occupa anche di botanica ed algebra); figure e voci femminili legate tra loro da reti di relazioni, che trovavano momenti di incontro e di confronto anche nelle accademie letterarie (la prima femminile a Venezia nasce nel 1750).
Anche il luogo principale del dibattito culturale, il salotto, era uno spazio gestito dalle donne. Luogo di incontro multiculturale, interclassista ed intersessista, si fondava sull’«influenza e forza d’attrazione» della padrona di casa, dalla cui abilità, intelligenza e fascino dipendevano l’importanza del luogo e la sua centralità, in una società non ancora caratterizzata dalla separazione tra pubblico e privato(18). Vera e propria «palestra di democrazia femminile», come lo definisce Mariuccia Salvati, oltre a svolgere un ruolo molto importante nella formazione dell’opinione pubblica, consentiva alle donne di misurarsi con gli uomini sul piano della produzione culturale e del pensiero, mettendo in luce la loro abilità di mediazione e di costruzione di reti sociali(19). Nella Venezia del secondo Settecento i salotti rappresentavano una realtà estremamente significativa, in virtù del ruolo di crocevia culturale che la città svolgeva a livello europeo: il loro sfarzo era tale da far impallidire perfino i modelli francesi, come osservava Stendhal(20). In quelli più importanti di Isabella Teotochi Albrizzi, Giustina Renier Michiel e Marina Querini Benzon, si incontravano gli artisti e gli scrittori più famosi del tempo: Ugo Foscolo, Ippolito Pindemonte, Antonio Canova, Lord Byron, Madame de Staël, Wilhelm Schlegel, per citare alcuni dei nomi più ricorrenti. Alcuni, come quello della Renier Michiel, erano aperti tutte le sere, con notevole impegno della salonnière(21). Qui dopo il teatro si davano appuntamento gli amici e, tra una partita di carte e l’altra, si declamavano tragedie, «si improvvisavano madrigali ed epigrammi oppure si leggevano libri, giornali e riviste recenti»(22). La connotazione era decisamente culturale, ma risulta difficile pensare che anche temi più prettamente politici non entrassero nelle conversazioni serali, almeno in quel frangente che furono appunto gli anni della rivoluzione e della campagna d’Italia. Se non si può parlare di un orientamento politico dei salotti in quanto tali, certo alcuni risultano fortemente connotati: in quello di Giustina Renier Michiel le simpatie filofrancesi appaiono numerose; molti dei suoi membri, da Bernardino Renier a Ugo Foscolo, giocano un ruolo di primo piano nella Municipalità. E secondo alcuni biografi dell’Ottocento è lei stessa a caldeggiare l’iniziativa per fermare l’ondata antirivoluzionaria nei giorni cruciali della caduta della Repubblica; espressione di un impegno politico da lei assunto in maniera sempre più aperta negli anni successivi della dominazione austriaca(23).
È in questo contesto, che vede molte donne dell’aristocrazia e della borghesia occupare spazi importanti nel campo della produzione e del dibattito culturale, che va collocata la prima elaborazione politica delle donne veneziane. Le aspirazioni ad un riconoscimento dei diritti civili e politici dovevano esser già in parte penetrate nel tessuto sociale se, all’arrivo delle armate napoleoniche e al costituirsi del governo democratico, vengono immediatamente avanzate da parte delle donne precise richieste. Gli scritti femminili pubblicati tra il maggio 1797 e il gennaio 1798 sono una decina, un numero irrisorio se confrontato col centinaio di opuscoli stampati a Venezia in questo periodo, ma assai significativo se collocato in un panorama nazionale, in cui risultano note a mala pena venti pubblicazioni (malgrado la dovuta cautela con cui vanno assunte queste cifre)(24). Il fatto poi che alcuni dialoghino tra loro, che dimostrino diverse prospettive, che si intreccino ad iniziative concrete, rivela che questa sensibilità era più diffusa, che le aspirazioni erano trasversali rispetto alle classi sociali, anche se non si può parlare ancora di «movimento» di donne: l’iniziativa appare circoscritta a singole protagoniste, di cui risulta difficile ricostruire anche il profilo biografico; quasi tutte queste opere sono anonime, soltanto di alcune autrici conosciamo il nome, ma non la famiglia di provenienza, né altri dati sulla loro condizione sociale.
La prima istanza espressa dalle donne è quella di un coinvolgimento diretto nell’esperienza democratica, un’aspirazione che ha come presupposto la consapevolezza di esser parte integrante del tessuto sociale, di poter e dover contribuire alla rifondazione dello Stato.
Sia lo scritto Pensieri della libera cittadina I.P.M. alle sue concittadine, sia le Istruzioni d’una libera cittadina alle sue concittadine sono appelli alla mobilitazione rivolti alle donne. Nel primo caso:
Cittadine, pure il nostro sesso può confluire al bene generale. Virtù nei nostri costumi, entusiasmo nei nostri cuori siano la base dei progressi ai quali si deve aspirare(25).
Nel secondo:
Libertà, eguaglianza, virtù echeggiano a voi d’intorno: non più nobiltà, fasto, mollezza devono sedervi accanto […]. Svegliatevi, o mie concittadine(26)!
Sul «come» concretizzare questa partecipazione, i testi sono molto vicini. Per la cittadina I.P.M. le donne devono dare il loro contributo alla rivoluzione modificando innanzitutto i loro costumi, abbandonando il lusso, i piaceri, i pensieri frivoli e sostenendo economicamente lo Stato in uno spirito di solidarietà sociale:
Si riformi il lusso, pregiamoci di un vestito nazionale e il bianco non richiami più all’idea della moda, ma desti quella della purità dei costumi. L’oro, l’argento non formino il nostro ornamento. Approfittiamo di questo prezioso metallo per soccorrere con una mano generosa dei miseri e con l’altra ben saggia all’educazione dei nostri figli(27).
Un appello all’impegno che si intreccia con la richiesta, rivolta alla Municipalità, di destinare alle donne un luogo pubblico, in modo da consentire loro di riunirsi separatamente per discutere problemi e obiettivi. Richiesta singolare per il suo carattere di anticipazione, che ritorna come costante nel movimento delle donne fino al femminismo degli anni Settanta del Novecento, pur con differenti analisi e significati:
Presentiamoci alla Municipalità che ci destini una sala patriottica ove unite possiamo congiurare contro la mollezza, a cui fino ad ora ci condannò una stupida educazione e rinvigorire la nostra energia a dei migliori beni, a quelli delle nostre famiglie, agli interessi comuni(28).
L’insistenza posta sulle «colpe» della società nei confronti delle donne e sulle responsabilità maschili, così come l’appello ad una riforma dei costumi, rivela la preoccupazione dell’anonima scrittrice di rispondere alle critiche indirizzate alle donne anche nel periodo antecedente la rivoluzione, sgombrando il campo da un argomento utilizzato dai conservatori per escluderle dalla cittadinanza.
La funzione educatrice delle donne e la sua importanza sociale sono ancor più sottolineate nel secondo testo, che presenta un’analisi delle caratteristiche e delle differenze tra uomo e donna, preliminare alla definizione delle sfere di competenza dell’uno e dell’altra. All’uomo viene riconosciuta una maggiore intelligenza, forza e coraggio; alla donna una maggiore sensibilità, delicatezza, passione; caratteristiche che vengono presentate come ontologiche, iscritte in un ordine naturale permeato da un’intima finalità e da un sostanziale equilibrio, la cui rottura viene imputata alla «corruzione» sociale. L’influenza del pensiero di Rousseau, della sua visione positiva della natura («i mali della natura sono sempre beni») è evidente anche nella conclusione che enfatizza il ruolo materno, pur attribuendogli grande importanza sociale:
Animate da queste idee, istrutte dalla conoscenza degli esseri, delle qualità dell’uomo, dissipati i vapori d’un occidentale effetto di natali, voi, o mie concittadine, la cui prima educazione dei figli è affidata, spargendo i primi elementi della ragione nella nostra rigenerazione, non più effeminati e molli, ma utili cittadini rendete alla Patria ed essa vi sarà buon grado se le vostre patriottiche cure daran nuova vita all’industria, alla filantropia a veri beni di una estesa Nazione(29).
Malgrado le differenze, si registrano in questi scritti alcuni denominatori comuni: la consapevolezza di un ruolo che le donne possono giocare nella trasformazione della società, la critica ai modelli femminili tradizionali, un forte spirito patriottico, l’identificazione in un modello di donna attento ai problemi della società e coinvolto nel processo di rigenerazione. Difficile identificare le autrici, queste «libere cittadine», come esse si denominano, il cui profilo sociale appare però caratterizzato da precise coordinate, identificabili attraverso il contenuto degli scritti: si tratta di donne colte, abituate all’argomentazione, illuministe di formazione, appartenenti ad una classe sociale aristocratico-altoborghese, sicuramente veneziane. Dallo stesso milieu culturale esce lo scritto Discorso al bel sesso veneto, plauso ed incoraggiamento di un democratico alla «buona patriotta I.P.M.», in cui lo scrittore rassicura le donne sulle intenzioni della democrazia, sul fatto che il nuovo «Governo veneto, all’esempio della Francia, riconoscendo i diritti sacrosanti della Natura, non solo vi reputa [le donne] uguali agli uomini, ma al di sopra di essi ancor v’innalza»(30). Assicurazioni che si intrecciano in maniera contraddittoria con l’identificazione dell’ambito domestico come spazio peculiare della donna, cui compete «l’educazione dei figlioli, l’attenzione delle cose domestiche, l’acquisto di nuovi reali piaceri».
Differente invece per approccio e prospettiva è la Risposta alli pensieri della libera cittadina alle sue concittadine, scritta a nome delle donne di Castello, S. Nicolò, Cannaregio, i sestieri più poveri della città(31). In un linguaggio semplice, a volte sgrammaticato, il testo denuncia l’appartenenza sociale delle mittenti e delle destinatarie dei precedenti scritti, l’autoreferenzialità di un discorso circoscritto alle classi privilegiate, che non tiene conto della povertà del popolo e dei suoi reali bisogni. L’analisi di classe è rigorosa quanto la critica alle proposte avanzate. L’invito rivolto alle donne a donare oro e ricchezze alla patria, ad esempio, risulta offensivo sul piano della realtà sociale, quanto stridente su quello della giustizia. Quali donne potevano donare oro alla patria — si chiede l’anonimo autore o autrice — se non le aristocratiche che l’avevano accumulato a prezzo dello sfruttamento del popolo («col sangue delle povere concittadine e dei poveri concittadini»)? La loro «offerta» rappresentava in questa prospettiva non un atto di generosità, ma una dovuta restituzione. Quanto alle aspettative di cambiamento, esse riguardano, più che il piano dei diritti, quello dell’economia e della ridistribuzione della ricchezza. La parola «democrazia», Leitmotiv del testo, assume in questa ottica il significato di giustizia sociale, dalla quale discendono il progresso economico e il benessere: «La vera democrazia deve dare al popolo motivi di vera democrazia: giro di soldi, giro di lavori e di tutta la robba libera»(32).
È evidente che le aspettative delle donne nei confronti del nuovo governo erano diverse: altri scritti, ad esempio, insistono sull’urgenza di una riforma del diritto di famiglia, manifestando un’insofferenza per tradizioni matrimoniali e familiari penalizzanti per le donne, che si era già espressa negli ultimi decenni del secolo in un crescendo di richieste di separazione da parte delle donne(33). L’insieme di questi scritti dimostra che si era aperto in città un dibattito sulla questione femminile, trasversale rispetto alle classi sociali, che presentava analisi e punti di vista differenti.
Sollecitata da questi e da altri probabili interventi, la questione del ruolo delle donne nella società e dei loro diritti in un regime democratico approda finalmente ad un dibattito nella Società d’istruzione pubblica, «strumento di punta [come lo definisce Giovanni Scarabello] per il dibattito e la divulgazione ideologica», creato per affiancare il Comitato d’istruzione pubblica(34). L’argomento viene discusso a più riprese tra giugno e settembre 1797, come risulta dal Prospetto delle sessioni della Società d’Istruzione Pubblica, con interventi di Giorgio Ricchi, Antonio Zalivani, Paolo Pisani e Annetta Vadori.
Il dibattito registra posizioni assai diverse: i democratici si dimostrano divisi su un tema così cruciale. Giorgio Ricchi, ad esempio, appare come un sincero sostenitore della causa emancipazionista. Nel discorso Sull’influenza che possono avere le donne sullo sviluppo dello spirito pubblico, pronunciato il 17 pratile, denuncia la lunga storia di oppressione delle donne, il permanere di forme di segregazione nei conventi finalizzate al mantenimento dei patrimoni familiari, «barbare consuetudini» associate ad una diffusa esclusione dall’istruzione. Forme di discriminazione che la democrazia doveva cancellare non solo per un principio di giustizia, ma ai fini del rafforzamento delle sue basi sociali: «si restituiscano le donne alla patria, alla società, si assicurino loro i diritti civili e coopereranno alla formazione dello spirito pubblico, alla rigenerazione dei costumi, al progresso delle virtù. Trovino esse sotto l’impero della libertà e della uguaglianza non delle chimeriche speranze, ma de’ beni reali e de’ solidi vantaggi»(35).
Ma vi era anche chi, nell’assemblea, era di parere opposto e temeva un’influenza negativa delle donne proprio in un momento fondante e particolarmente delicato dal punto di vista politico. L’attivo parroco di S. Nicolò dei Mendicoli, Antonio Zalivani, famoso per la sua intensa opera di propaganda, autore anche di un Catechismo cattolico-democratico, interviene più volte in questo senso (il 14, il 16, il 19 termidoro), sostenendo la pericolosità delle donne, tuonando contro il loro amore per i piaceri e la «loro naturale vanità», sulla base di un giudizio morale attinto dalla tradizione misogina della Chiesa, che lo porta a confutare la tesi di Ricchi, sostenendo l’«essere impossibile che le donne superino una tale condotta e sviluppino lo spirito pubblico»(36). Tesi che viene accompagnata da lunghi applausi dell’assemblea, che dimostra dunque di condividere largamente queste idee(37).
È contro di lui e questa «torbida seduta» che prende la parola per la prima volta una donna: Annetta Vadori. Il suo è uno dei pochi volti femminili che la storia della Municipalità ci restituisce. Nata a Venezia nel 1761 da Vincenzo Vadori e Speranza Sporeno, amica di Elisabetta Caminer Turra, Alberto Fortis e Tommaso Gallino, esce da quella borghesia illuminata nella quale erano maggiormente attecchite le idee giacobine: è una delle frequentatrici del circolo di Vincenzo Dandolo, per questo tenuta sotto controllo dalla polizia fin dal 1792(38). Nella corrispondenza di un confidente della Repubblica di lei si parla come di una «donna di moltissimo e singolare ingegno» tanto da non poter «amare o degnare di adottare opinioni communi»(39). Nel 1785 aveva sposato Mattia Butturini, poeta del teatro di S. Benedetto, con cui condivideva passione ed impegno in campo letterario e da cui divorzierà nel 1805 per sposare il famoso medico Giovanni Rasori, principale ideologo del «giacobinismo scientifico»(40).
Salita alla tribuna il 24 termidoro, con un atto che appare nella prospettiva storica di grande coraggio, denuncia, da quello che chiama l’«altare sacro della democrazia», il «tentativo di escludere dall’esercizio dei comuni diritti le donne»(41):
Rammentate, o cittadini, di quella torbida sessione, quando si pretese di escludere dall’esercizio di comuni diritti le donne, sotto il vano pretesto di una perniciosa influenza che avrebbero potuto su di voi esercitare. E chi si escludeva? Le vostre madri, le vostre spose, le vostre sorelle. Una mozione così insolente ed al nostro sesso così oltraggiosa niuna impressione (tanto era la sua stranezza) avrebbe fatto sull’animo mio, se non fosse stata secondata dagli applausi della Società, che si lasciò abbagliare da un’incantevole eloquenza. Nell’entusiasmo che agitava l’oratore era cancellata la memoria d’una madre dei Gracchi; distrutta l’idea d’una Lucrezia, d’una Clelia, d’una Porzia, d’una Virginia; annientata la gloria delle valorose madri spartane. In quel momento si rammentavano solo le donne vili e si trascuravano le eroine. Si rilevava la fragilità del sesso e si spargeva l’oblio sulla virtù(42).
La rivendicazione dei diritti viene intrecciata ad una dichiarazione di patriottismo e di fedeltà repubblicana, che la porta a pronunciare il solenne giuramento di consacrare il suo sangue alla patria, di «viver libera o morire, per difendere la libertà», che finisce per evidenziare ancor più lo squilibrio esistente tra l’eguaglianza dell’impegno patriottico e la diseguaglianza dei diritti. Il discorso viene dato alle stampe per acclamazione dell’assemblea, con un implicito riconoscimento della validità delle sue tesi (ribadite anche da un intervento del vicepresidente Paolo Pisani), ma una tale acclamazione non si concretizza in nessun atto formale. In realtà anche i democratici più aperti sembrano preoccuparsi più di presentare alle donne modelli femminili positivi ed adeguati al nuovo governo (come si legge nella motivazione che accompagna la stampa del discorso di Annetta Vadori) che di eliminare le discriminazioni. Ne è prova anche la lettera che la Società di pubblica istruzione indirizza il 2 messidoro alla cittadina Malmignati (forse la cittadina I.P.M.?), ringraziandola di aver cercato con la sua lettera di «scuotere il bel sesso da quella specie di letargo morale e politico in cui giacque finora e di ricondurlo al fine santissimo di contribuire esso pure agli interessi sociali»(43).
L’unico atto ufficiale del governo democratico nei confronti delle donne è un Invito alle Cittadine veneziane «a concorrere a diffondere la virtù», che accompagna la promulgazione del decreto contro la prostituzione del 6 termidoro. Si tratta di un appello alla moralizzazione dei costumi, nel quale la sfera domestica è indicata come l’unico spazio in cui deve manifestarsi il patriottismo femminile:
Anche le donne nelle Repubbliche democratiche si segnalarono per patriottismo e per virtù [...]. Le venete cittadine esser devono virtuose! Fatevi un pregio d’ispirar ai teneri vostri figli l’amor del Governo e della virtù. Quale sarà nei giorni venturi la vostra compiacenza di avere educati ottimi cittadini! Confluite alla nazionale felicità coi vostri sentimenti, ma rendeteli palesi coll’esterna onesta vostra decenza nel vestiario. Questa è l’anima del buon costume. Così vi distinguerete dalle femmine depravate, distruggerete le male arti dei viziosi libertini ed avrete la pubblica estimazione(44).
Anche dagli atti formali traspare dunque quella paura della libertà femminile e di un cambiamento dei rapporti di genere che risulta così evidente in altri scritti(45). D’altra parte anche la presenza delle donne nelle nuove istituzioni sembra molto limitata: della Società d’istruzione pubblica, teoricamente «aperta a tutti» e fondata con lo scopo di accender nel popolo «il fuoco della libertà» e fargli conoscere i propri diritti(46), fanno parte ufficialmente solo quattro donne: la scrittrice Caminer (Gioseffa Cornoldi evidentemente, perché Elisabetta era morta nel giugno del 1796), Cecilia Tron, cognata di Caterina Dolfin Tron (eletta socia su sua richiesta il 17 termidoro), la cittadina Mattei e Annetta Vadori, tutte ammesse in virtù di qualche «merito» speciale.
L’incertezza dei democratici, la presenza al loro interno di posizioni apertamente conservatrici e soprattutto l’assenza di iniziative concrete doveva suscitare tra le democratiche più convinte una delusione pari alle aspettative riposte. Ne è espressione La causa delle donne. Discorso agli italiani della cittadina ***, l’opera sicuramente più importante per consapevolezza e rigore concettuale pubblicata in quegli anni, una delle più significative dell’intero movimento delle donne italiane, secondo il giudizio delle storiche(47).
Rivolta ai «cittadini, fratelli carissimi», l’opera è una denuncia della loro politica, delle loro contraddizioni ed inerzie sul terreno delle riforme, da parte di chi afferma di condividerne in pieno ideali e principi:
È giunto il momento felice della bramata riforma del genere umano; è giunta l’epoca desideratissima della più bella di tutte le mode, ch’è quella della libertà ed uguaglianza; ma in mezzo ad una contentezza sì universale noi abbiamo motivo di piangere e di rammaricarci. Sapientissimi italiani, che benefici riproducete, dietro le masse de’ valorosi francesi i diritti naturali dell’uomo, permetteteci di rappresentarvi le nostre giuste querele […]. È già da più di un anno che noi, nel ritiro delle nostre case, andiamo considerando i vostri nuovi piani, le vostre nuove costruzioni. Agli uomini affidate la legislazione, agli uomini i governi e le magistrature, agli uomini le trattazioni, i tribunali, gli eserciti. Dappertutto in somma risuonano gli uomini e le donne non si sentono mai nominare che per il solo uso matrimoniale. Signori, adottatori del nuovo sistema, non pensate che ai vostri vantaggi e alla felicità del vostro sesso mascolino, dunque o non tenete le donne per individui del genere umano o pensate a felicitar di codesto una sola metà(48).
Dalla constatazione del perdurare della discriminazione nei confronti delle donne, l’autrice articola un’argomentazione volta a confutare il pregiudizio dell’inferiorità a questa sottesa. La differenza di genere non viene negata, ma semplicemente svuotata di attributi, tolta dalla scala gerarchica e posta su un piano di parità. Il ragionamento, che intreccia uguaglianza e differenza, parte dall’analisi dello stato di natura, per dimostrare come in natura risulti «meravigliosamente equilibrata nella donna e nell’uomo la differenza e l’uguaglianza, cioè la differenza de’ sessi e l’uguaglianza della natura». Provocatoriamente l’autrice sostiene anzi che, a voler inserire una scala gerarchica, il primato spetterebbe alle donne, sulla base del principio che ciò che viene creato dopo in natura è più perfetto. Ogni attributo negativo tradizionalmente contestato alle donne (dalla vanità all’ignoranza, alla frivolezza) viene imputato a cause sociali, cioè alla lunga storia di emarginazione subita dalle donne («non sanno forse codesti uomini millantatori che la superiorità da loro vantata non fu effetto della natura, ma piuttosto della colpa?»). Ma il testo si spinge oltre, contestando anche i ruoli sessuali riconosciuti e ribaditi anche da altri scritti femminili, con una logica radicale che respinge il determinismo biologico, dimostrando la forzatura di una lettura maschile dello «stato di natura». La divisione degli ambiti di competenza, l’attribuzione femminile alla sfera domestica, con tutte le incombenze a questa connesse, perfino la cura e l’educazione dei figli, sono viste come il frutto di usi e tradizioni, non di leggi di natura: «Il filare, il tessere, il lavare, il cucinare, anzi l’educare ancora la picciola famiglia, queste sono occupazioni generiche non meno proprie d’un padre che d’una madre. Il crederle caratteristiche del nostro sesso è una volgare stoltezza che fa disonore alla filosofia»(49). Coniugata con stringata logica la differenza con l’uguaglianza, il testo si conclude con una conseguente quanto appassionata affermazione di diritti, che ricorda la Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne o la Vindication of the Rights of Woman di Mary Wollstonecraft e che appare come una delle pagine più belle scritte dal movimento di emancipazione italiano:
Dunque noi abbiamo un vero diritto di esser a parte di tutti gli affari pubblici dipendenti dallo spirito e dall’intelletto […]. Abbiamo dunque diritto di assister alle vostre adunanze, abbiamo diritto di concorrere alla formazione delle leggi, alle quali dobbiamo del pari assoggettarci; abbiamo diritto di sedere nei tribunali, nei magistrati, nei direttori esecutivi; abbiamo diritto di andare ai consolati, alle commissioni, alle ambasciate; abbiamo diritto di maneggiare le finanze; di governar le provincie; di regolare gli eserciti; abbiamo diritto di approvare e riprovare tutti i trattati nazionali o di commercio o di alleanza o di guerra o di pace(50).
Chi è l’autrice di questo testo, che rivela un’ottima conoscenza dei filosofi illuministi e una buona frequentazione di testi stranieri? Sicuramente una donna molto colta, abituata a disputare ed argomentare, illuminista a tal punto da mettere in discussione «certezze acquisite», come quella dei ruoli sessuali, informata del dibattito europeo, come di quello veneto negli anni precedenti. Alcuni passaggi del suo scritto ricordano, anche nel tono, quanto scritto dieci anni prima da Elisabetta Caminer Turra a commento del libro L’impossibile ovvero la riforma delle donne nella loro educazione, la sua denuncia contro «la ingiusta superiorità che gli uomini si arrogano a discapito delle donne […] costrette a vivere sempre schiave»(51). Si tratta presumibilmente di Annetta Vadori o di qualcun’altra dello stesso entourage culturale(52). L’attribuzione veneziana in ogni caso mi sembra fuor di dubbio. Lo provano i riferimenti al dibattito locale, la ripresa di espressioni e temi più generalmente diffusi. Lo stesso titolo La causa delle donne sembra rispondere all’invito rivolto alle donne dal cittadino N.N. nel Discorso al bel sesso veneto di «pigliar parte alla vostra causa»(53).
La rapida fine dell’esperienza democratica nel gennaio 1798, con il conseguente esilio di molti democratici (tra cui Annetta Vadori e Cecilia Tron), interrompe bruscamente un discorso appena avviato, ma non spegne le consapevolezze germogliate, né un impegno civile e politico che continua con evidenza negli anni della dominazione austriaca.
La prima reazione cittadina all’ingresso degli austriaci fu l’abbandono della Fenice e la chiusura dei salotti, un atto politico dal profondo valore simbolico che va riportato all’iniziativa femminile. Negli anni successivi alcuni di questi assunsero un ruolo evidente di opposizione allo straniero(54). In particolare quello di Giustina Renier Michiel, che di sé amava dire «prima di tutto io sono venezianissima» e che fece del suo palazzo un ritrovo di patrioti, alimentando un’opinione pubblica antiaustriaca che, in virtù dei legami e delle frequentazioni internazionali, trascendeva ampiamente la gronda lagunare(55). Tra i suoi ospiti, nei primi anni dell’Ottocento, figurano il giovane Daniele Manin ed Alessandro Zanetti, con cui collabora anche alla stesura di un’opera sulle isole della laguna(56). Anche l’attività letteraria si connota in questa fase di significati politici: le opere dedicate a Venezia, oltre a testimoniare l’amore per la patria, si propongono l’obiettivo di alimentare nei lettori il senso di appartenenza ad una realtà cancellata ormai dalla geografia politica. Nell’introduzione all’Origine delle feste veneziane (1817-1827), l’opera più importante di Giustina Renier Michiel, i rituali di festa della tradizione veneziana vengono collegati con il sentimento patriottico, riportando a questa finalità il loro significato profondo: «Il precipuo scopo di queste feste che appo noi corsero, era di avvertire ogni veneziano ch’egli aveva una patria […] e che questa patria che egli doveva adorare non era un essere ideale e chimerico, ma ch’era il cittadino stesso che la formava, egli stesso che la sosteneva»(57).
La sua opera assume dunque lo stesso significato, come è esplicitato nella parte finale: «Ma se ad onta delle mie cure fossi qualche volta uscita in alcuni di quegli sfoghi che partono da un amore veramente patriottico, prego che vengano essi riguardati come fiori irrigati dalle lacrime che la più tenera delle figlie sparge sulla tomba della migliore delle madri, da lei veduta fatalmente a spirare»(58). Si tratta di una dichiarazione particolarmente forte, in cui si presenta come la figlia in lutto di una madre morta, che fa del culto delle sue memorie l’obiettivo della vita. La metafora madre=patria / figlio=cittadino, una delle rappresentazioni simboliche più ricorrenti della letteratura patriottica, viene da lei riscritta al femminile e riportata all’interno della genealogia madre-figlia, come fonte di un impegno intellettuale e di un agire pubblico che la porta a diventare paladina per antonomasia di Venezia, in un’epoca che vede l’immagine della città al contrario appannarsi a livello europeo, anche sul piano dell’apprezzamento turistico. È lei l’unica fra tutti gli intellettuali veneziani a rispondere al poeta Chateaubriand che aveva deprezzato i monumenti della città in un articolo sul «Mercure de France» (1806), descrivendo Venezia come una città che non meritava di esser visitata. La sua risposta sul «Giornale dei Letterati» è una colta illustrazione delle bellezze storico-artistiche della città, ma è soprattutto un atto di orgoglio e di patriottismo che la rende famosa e amatissima da tutti i veneziani(59).
Appare evidente, in questa prima stagione di emancipazione femminile, il nesso esistente in molti interventi tra senso civico e coscienza di diritti individuali, tra patriottismo e diritti sessuati: varie donne affermano al tempo stesso un forte impegno per la patria ed una consapevolezza di diritti civili e politici, stabilendo tra i due poli (quello della partecipazione e quello della rivendicazione) una correlazione, esemplare nella vicenda biografica di Annetta Vadori.
Questo nesso ritorna con maggiore evidenza nel Risorgimento ed in particolare nell’esperienza del ’48, tanto che alcune storiche hanno di recente sottolineato la necessità di riesaminare, dal punto di vista storiografico, il rapporto donne-nazione. In un suo intervento sulla partecipazione femminile al ’48, a partire dalla constatazione già altrove rilevata che questa esperienza risulta centrale nella biografia di molte emancipazioniste, Simonetta Soldani si interroga sulla correlazione tra le due esperienze politiche, contestando il luogo comune che vede l’amor di patria come «un tratto distintivo della mascolinità e dell’identità maschile»(60). Si può anche discutere se ad attivare la partecipazione delle donne sia stato il carattere ‘premoderno’ del ’48 italiano, la sua impronta municipale, piuttosto che nazionale, o il suo carattere semiteocratico, o tutte queste componenti insieme. Quello che appare evidente (e le parole di Giustina Renier Michiel lo confermano) è che il patriottismo rinforza in molte donne gli elementi di identità sessuale e di responsabilità politica, forse anche in virtù della rappresentazione simbolica che vede la patria come la madre; una madre in cui riflettersi, ma al tempo stesso da difendere ed amare come figlie. È questo senso di identità e di responsabilità che traspare dall’impegno di molte donne, delle tante che si mobilitano assieme ai fratelli, ai mariti, scoprendo nella battaglia politica al tempo stesso la profonda comunione di intenti, volontà e sentimenti che le accomuna agli uomini e l’impossibilità di tradurre tutto ciò in azione eguale, in presenza paritaria, toccando con mano la contraddizione tra partecipazione (alle lotte) ed esclusione (dalla cittadinanza), tra comunanza (di esperienze) e selezione (di privilegi).
A Venezia la partecipazione delle donne al Risorgimento e all’esperienza democratica del ’48 in particolare fu ampia ed estesa a tutte le classi sociali. Le donne si mobilitarono nella propaganda, nella raccolta di fondi, nella cura e nella protezione dei feriti, nella costruzione di reti di relazione, nella preparazione delle divise, delle armi e se non arrivarono all’uso di queste è perché, come vedremo, ciò fu loro impedito. Molte pagarono di persona il loro impegno, con l’arresto ed il carcere, come Maddalena Montalban Comello, Leonilde Lonigo Calvi, Elisabetta Bentivoglio Contarini, Teresa Labia Danielato, Laura Sardi Secondi, Marianna Gargnani Goretti, ecc.; figure che attendono ancora una puntuale ricostruzione storica, ma che non meritano certo la smemoratezza dimostrata anche in recenti celebrazioni(61). In questo contesto storico non abbiamo presenze e rivendicazioni anonime, come nel 1797; al contrario troviamo donne che sottoscrivono manifesti, che si riuniscono in gruppi, che inviano petizioni, segno di un mutato rapporto con la sfera politica, di una più forte identità collettiva, di una crescita di coscienza che si accompagna anche ad un sensibile allargamento della mobilitazione.
Anche il ’48 sembra annunciarsi sotto il segno di una mobilitazione femminile (oltre che studentesca)(62). A gennaio le donne organizzano una colletta a favore dei patrioti di Milano feriti negli scontri con la polizia nel corso delle manifestazioni contro il fumo, mentre in città è tutto uno sventolare di scialli, fazzoletti e nastri tricolori, secondo un uso ‘politico’ dell’abbigliamento e del corpo certamente non esclusivo delle donne, ma di esse molto peculiare, non solo durante il Risorgimento. Coordinano la raccolta due aristocratiche: la contessa Elisabetta Michiel Giustinian e la marchesa Da Mula Bentivoglio D’Aragona, nei confronti delle quali s’indirizzano immediatamente i sospetti degli austriaci. La polizia fa irruzione nel palazzo Giustinian, intimando alla donna di consegnare la lista degli oblatori, sotto la minaccia dell’arresto e della reclusione. Pare che la contessa abbia risposto di preferire una cella qualsiasi a Venezia(63). L’episodio suscita grande clamore in città: alla sera, quando le due donne si presentano alla Fenice, vengono accolte da una vera e propria ovazione: «All’apparire della contessa Giustinian e della marchesa Bentivoglio scoppiò un lungo applauso. Tutto un popolo emise in quel grido le sue aspirazioni, protestando così in modo energico contro la pena inflitta alle coraggiose donne»(64). La protesta cresce a tal punto che il podestà Giovanni Correr minaccia di dimettersi in caso di arresto, inducendo il governatore a desistere dall’intento. La polizia austriaca evitava ancora in quegli anni di perseguire le donne, secondo una consuetudine che consentiva loro maggiori margini di movimento. Un atteggiamento che cambierà negli anni successivi al ’48.
L’episodio mette in luce il carattere di una delle maggiori protagoniste di questa stagione: Elisabetta Michiel Giustinian, «donna fortissima», «di indomito patriottismo», secondo il giudizio dei contemporanei, amatissima dal popolo(65). All’epoca ha solo ventitré anni ed è da poco sposa di Giovanni Battista Giustinian, personaggio centrale del Risorgimento veneziano, amico di Daniele Manin, ufficiale della guardia civica nella Repubblica del ’48 e primo sindaco della Venezia italiana nel 1866. Allo scoppio della rivoluzione la mobilitazione si diffonde: molte donne scendono nelle piazze e partecipano in prima persona agli eventi; un coinvolgimento che si coniuga immediatamente, in alcune di loro, con la rivendicazione di diritti e libertà.
Una delle prime richieste è quella di usare le armi al pari degli uomini, di formare un battaglione di donne, per contribuire alla difesa della città. È avanzata l’8 aprile in una lettera indirizzata al comandante della guardia civica Angelo Mengaldo:
Mentre tutti gl’italiani corrono alle armi per liberare la nostra generosa nazione dal giogo straniero, noi donne italiane non sappiamo resistere al bisogno di servire noi pure ad una causa sì santa. Coi nostri padri, coi nostri mariti, coi nostri fratelli, vogliamo dividere i pericoli; vogliamo dividere con essi l’onore di salvare questa patria comune. Debole è certo il soccorso delle nostre braccia, ma s’è vero che la difesa più tremenda è il coraggio, noi portiamo fiducia di poter in questi gravi momenti giovare alla patria. Cittadino comandante! Alla vostra guardia civica aggiungete un battaglione di donne. Destinate da voi, quando urga il pericolo o a curar i soldati feriti o a formare cartucce, o a trattare le armi, le Veneziane non isdegneranno nessuno ufficio, il quale abbi per fine la indipendenza di tutta Italia(66).
La richiesta, fatta in quanto «donne italiane», è sottoscritta da Elisabetta Michiel Giustinian, Antonietta Dal Cerè, moglie dell’avvocato Bartolomeo Benvenuti (ufficiale della guardia civica) e Teresa Mosconi, moglie del banchiere Spiridione Papadopoli. Sono insomma le stesse mogli dei patrioti e degli ufficiali della guardia civica a farsi portavoce di un’istanza più diffusa, in un momento in cui la guardia si stava organizzando con il concorso di molti cittadini(67). È il caso di sottolineare questi vincoli maritali, non solo perché illuminano i rapporti personali intercorrenti tra mittenti e destinatari, ma perché rendono ancor più evidente la condivisione di sentimenti e di agire politico interna alla rete parentale, sicuramente uno dei fattori che contribuiscono a portare le donne sulla scena pubblica. Non a caso l’espressione più significativa della lettera riguarda la volontà di «condividere» l’onore di salvare una patria che si sottolinea «comune».
Si tratta di una volontà non isolata, ma più largamente condivisa, se solo pochi giorni più tardi, il 10 aprile, un’altra cittadina fa affiggere a sue spese un appello simile, indirizzato questa volta alle donne. Si tratta di Maria Graziani, figlia di Leone Graziani, comandante supremo della marina veneta, membro del triunvirato con Manin e Cevedalis, vedova di Attilio Bandiera(68). Pur nella necessaria stringatezza, anche il suo testo è molto significativo, perché ribadisce che l’amore di patria non è un’esclusiva maschile, come neppure il dovere della sua difesa («La sicurezza della patria, l’amore della libertà sono forse sentimenti esclusivi soltanto degli uomini? Che cosa siamo noi? Incapaci forse di questi nobilissimi affetti?»)(69), e che le donne devono dar prova di patriottismo e fratellanza, formando un battaglione e usando le armi:
Dunque all’armi anche noi e se abbiamo l’amarezza di esser state prevenute, seguiamone almeno l’esempio. La difesa esterna della Patria potrebbe reclamare il braccio della Guardia Cittadina [...]. Accorrano dunque alla pronta iscrizione tutte quelle cittadine che sentono la carità della Patria ed offrano le loro fatiche e le loro vigilie onde conservare l’ordine e la sicurezza pubblica […]. Diamo anche noi un saggio di patriottismo e di fratellanza e diamolo col cuore e si smentisca coll’opere l’assurdo principio che le donne sono nate per la conocchia e l’ago.
La chiusura del manifesto è particolarmente importante perché mette in relazione l’impegno delle donne nella guerra con la modificazione della condizione femminile. La lotta patriottica è vista dunque anche come un’occasione di riscatto ed emancipazione. Queste richieste mettono in dubbio la tesi, sostenuta anche recentemente, dell’assenza di una volontà di impegno anche militare delle donne nel ’48 italiano, a differenza di altri contesti europei, o almeno profilano una realtà veneziana dissonante rispetto al panorama nazionale (anche se la scarsità di ricerche approfondite suggerisce un’opportuna prudenza)(70).
Il comando generale della guardia civica risponde alle richieste, acconsentendo alla formazione di un battaglione di donne, sottoposto al comandante generale, ma significativamente ne riduce i compiti alla sola funzione di assistenza e di supporto all’opera dei soldati. Nella comunicazione pubblica che compare sulla «Gazzetta di Venezia» si precisa che l’«Ufficio delle cittadine inscritte in questo battaglione dev’essere di curare i militi che cadessero feriti, preparare le cartucce e fare quant’altro la carità di patria può domandare»(71). La richiesta avanzata da queste donne suscita infatti una forte reazione, testimoniata dalle prese di posizione di varie persone. Il cittadino Giuseppe Lettizie Bellini, ad esempio, in una lettera Ai miei concittadini e concittadine (12 aprile), afferma di «non biasimare quelle donne e cittadine che offersero la loro prestazione per opera di mano ed ajuto della guerra», di ringraziarle anzi pubblicamente perché «dobbiamo ritenere che dal solo spirito patrio siano animate», ma sottolinea che il concedere loro le armi andrebbe «a sconcertare e capovolgere l’ordine sociale che deve essere il principale punto di vista»(72). C’è chi al contrario ironizza sulle donne-soldato, ipotizzando un mondo alla rovescia e profilando uno scenario in cui la promiscuità sessuale diventa libertà sessuale. Ne «Il Gobbo di Rialto. Giornale critico-politico-umoristico urbano», in un articolo indirizzato A tutte le donne veneziane, si lodano i «premurosi comandanti della guardia civica che finalmente trovarono il modo di rendere meno pesante il servizio militare», scommettendo che «con questo espediente il numero degli arruolati aumenterà più del doppio»(73). Anche la cittadina Irene Ferrari si dichiara perplessa nei confronti della proposta e, rivolgendosi in particolare a Maria Graziani, fa proprie alcune osservazioni maschili, scrivendo che anche l’ago può esser utile alla patria, quando c’è urgenza di preparare le divise per volontari privi di equipaggiamenti: «Potrebbe emergere il caso che anche le donne per la salvezza della patria dovessero gittar da parte la conocchia e l’ago, ma sembra a taluno che in questo momento possano invece le donne prestar un servizio più utile se non colla conocchia almeno con quell’ago che voi testé loro consigliaste di deporre»(74).
Si riapre così, come nel 1797, una discussione sui ruoli sessuali, che vengono puntualmente ribaditi dai liberali, in nome delle leggi della natura, riportando la loro origine e legittimazione al di fuori del campo politico: un modo per non rispondere alla contraddizione rilevata dalle donne, come osserva correttamente Londa Schiebinger(75). Alla «natura» infatti si appella Giuseppe Giuriati, il quale puntualizza che «se le donne hanno ferma intenzione d’ajutare la patria, la ajutino coi mezzi che la natura ed i costumi loro acconsentono», specificando di riferirsi proprio al lavoro di cucito («si arruolino le cittadine di Venezia e dichiarino che tutte le arruolate sapranno […] cucire le vesti della guardia nazionale»)(76). Anche Tommaseo, che pure si compiace del fatto che le donne partecipino attivamente alla causa nazionale, che definisce «eroiche e pietose» le donne che si mobilitano, ribadisce chiaramente che l’intervento che la patria si attende da loro è quello di provvedere ai rifornimenti e di curare i feriti, non certo di mettersi accanto ai soldati sulle barricate(77). Una posizione in linea con la concezione sostanzialmente moderata, soprattutto per quanto riguarda i ruoli sessuali, da lui compiutamente elaborata nel testo La donna (1868)(78). Il modello di patriottismo femminile sostanzialmente delineato dai liberali di ogni corrente è quello della donna che esorta e incoraggia i soldati alla battaglia, che ispira nei loro cuori l’amore per la patria, che porge armi e bandiere, ma che poi aspetta pregando ai piedi dell’altare, come nella poesia Cantata di Arnaldo Fusinato («col vol del pensiero / con voi scenderemo sul campo guerriero; / se debil la mano rifugge dal brando / staremo pregando appiè dell’altar»)(79).
Pur tuttavia gli appelli trovano una pronta risposta tra le donne di tutte le classi sociali. Le fonti parlano di «un gran numero di sottoscrizioni», di «moltissime cittadine» che corrono ad arruolarsi, come sottolinea una anonima «Madre» in un appello rivolto Alle donne veneziane (16 aprile), nel quale invita quante non potessero per ragioni di famiglia prestarsi a questo servizio ad impegnarsi almeno nella raccolta di fondi, organizzando un’apposita commissione(80).
Nonostante ciò la guardia femminile viene poco attivata dai comandi superiori, tanto che le iscritte si lamentano di esser lasciate poco operose, come riferisce Bartolomeo Benvenuti a Niccolò Tommaseo, il 5 maggio, e come esse stesse ribadiscono in una lettera indirizzata alle patriote genovesi, in cui si rammaricano di non aver avuto «la fortuna» capitata alle milanesi ed alle palermitane di «unirsi ai fratelli ed agli sposi e brandire le armi offensive per la libertà della patria»(81). La Pia associazione pel soccorso ai militari, diretta da undici donne, tra cui figurano anche Teresa Manin, Maddalena Montalban Comello, Allegrina Sacerdoti, Maddalena Dal Cerè, si impegna in un’attività diversificata, che va dalla raccolta di offerte al loro impiego concreto: acquisto di equipaggiamenti per le truppe, «allestimento di battaglioni» (battaglione cacciatori del Sile e corpo d’artiglieria marina), confezionamento di cartucce, predisposizione di posti di pronto soccorso, confezionamento di divise ed indumenti, come traspare dai verbali amministrativi conservati da maggio a dicembre(82).
Se la direzione è composta di donne della nobiltà e dell’alta borghesia (in particolare ebrea), come osserva qualcuno, il corpo è invece costituito in prevalenza da donne del popolo. In generale la mobilitazione femminile risulta diffusa e trasversale rispetto alle classi sociali. Molte dame della nobiltà ed alta borghesia sostengono economicamente la Repubblica, impegnandosi ad un contributo mensile, come Rosina Namias, Andriana Correr, Teresa Gidoni, Regina Pincherle Della Vida, Lauredana Morosini Gatterburg(83). Altre, chiusi i salotti, aprono ospedali nei loro palazzi (come la contessa Montalban Comello a S. Cassiano); altre infine fanno delle loro case un punto di riferimento e di accoglienza per i volontari (come Regina Pincherle e la figlia Adele Della Vida). «Moltissime» popolane, secondo le testimonianze, aderiscono alla Pia associazione(84). Le operaie della Manifattura Tabacchi confezionano per conto dell’intendenza dell’armata sacchi di tela e cartocci per la polvere da sparo(85).
Intanto si arriva al maggio del ’48, quando, in occasione del plebiscito di annessione al Regno di Sardegna, si decide l’istituzione di un’assemblea costituente attraverso il voto popolare. Una tappa importante: per la prima volta un’elezione politica e per la prima volta a suffragio universale maschile; segnale di una democratizzazione della politica per quanto riguarda le classi sociali, non ancora i generi: l’inclusione delle donne non è neppure presa in considerazione. Eppure esistevano concrete aspettative femminili in questo senso, come segnala Piero Brunello, documentate ancora una volta dai giornali. Nel «Caffè Pedrocchi. Foglio politico letterario» (27 maggio 1848) compare un interessante Dialogo tra un cittadino ed una cittadina, nel quale si ironizza sull’uso di un concetto di «universalità» che esclude la metà del genere umano («Se escludete le donne cominciate intanto a ridurre a mezzo la vostra universalità»). Una cittadina denuncia con forza le contraddizioni presenti tra i liberali: il loro ritenere le donne uguali e capaci solo quando si tratta di condividere oneri ed obblighi e incapaci quando si tratta di condividere diritti e privilegi:
Per voi le donne sono incapaci quando si tratta di aversi le paghe, gli onori, il comando; ma sono capacissime quando si tratta di sostenere i pesi della società, di pagare le pubbliche imposte, e di assoggettarle a tutti gli obblighi prescritti dalle leggi civili e penali. Ove occorrono opere di carità, bisogno di tener vivo il patrio entusiasmo, le donne divengono angeli; angeli sono quando educano i figli al buon costume, alla religione, al sacro fuoco della patria(86).
È con questa esclusione e con la delusione che suscita tra le donne che va probabilmente collegata la fondazione della rivista femminile, d’ispirazione repubblicana, «Il Circolo delle Donne Italiane. Foglio della sera patriottico, politico, serio-faceto», primo giornale politico delle donne veneziane, uno dei rari fogli femminili del ’48 italiano, nato, come si legge nel primo numero, dalle conversazioni serali di alcune donne «poco numerose», ma accomunate da un «profondo e caldo amore per la patria»(87). L’articolo di apertura, firmato da Adele Cortesi il 26 settembre, è una ripresa complessiva dei temi dell’emancipazione. Il testo è chiaramente ispirato alla Causa delle donne del 1797 a tal punto da riprenderne, in forma quasi letterale (pur senza citarlo), non solo concetti, ma espressioni e frasi, segno evidente di una trasmissione di memoria passata per canali o percorsi diversi. Anche in questo caso alla base del ragionamento sta il nesso differenza-uguaglianza, che equipara le donne agli uomini sul piano dei diritti, senza negare la loro diversità biologica. A questo s’intreccia l’immaginario della rivoluzione come «momento storico» di ridefinizione dei rapporti tra i sessi:
Ora che dappertutto risuona la parola fratellanza e ricognizione dei diritti reciproci e relativi; ora che noi medesime abbiamo dato saggio del nostro retto sentire; ora è giunto il tempo di proclamare l’uomo e la donna per natura egualissimi tra loro, di sostenere l’opera meravigliosa di Dio, che seppe equilibrare nella donna e nell’uomo la differenza e l’uguaglianza(88).
Adele Cortesi riprende il tema dell’alterazione dello stato di natura, equilibrato e perfetto, delle responsabilità degli uomini nell’emarginazione delle donne e perfino quello dell’eventuale superiorità femminile sulla base dell’ordine della creazione. Stranamente però la conclusione si differenzia dal testo del 1797, prendendo una direzione assai più moderata che risulta quasi incoerente rispetto al resto del discorso; i diritti sono rivendicati non a partire dall’essere persone, ma dai crediti acquisiti nella lotta risorgimentale:
Dunque la nostra causa è decisa; ed è perciò che anche noi vogliamo prender parte agli interessi della patria ed istituire il Circolo delle donne italiane. Noi abbiamo già un diritto alla riconoscenza d’Italia: sin dai tempi dell’austriaco fummo esiliate alla campagna od all’estero per le collette raccolte a prò dei martiri […] noi obbligammo gli sposi ed i figli a fuggire i teatri, ad operare da eroi per la nostra redenzione; raccogliemmo le offerte per la patria, vestimmo i militi fratelli, assistemmo agli spedali(89).
Anche l’individuazione dei diritti è meno esplicita: il «prender parte agli interessi della patria» si concretizza in un generico «voler fare di più», nella richiesta di istruzione per le donne («vogliamo educarci noi ed i nostri figlioli») che ripropone alla fine la figura della madre-educatrice di eroi. Questo modello riemerge anche nei numeri successivi della rivista, ad esempio in quello del 1° ottobre dedicato a Teresa Manin, presentata come esempio «alle spose e alle madri», proprio in virtù del suo amore per la patria, che si esplica nell’essere una moglie adeguata all’eroe, che condivide e sostiene la «di lui» battaglia:
Non le virtù casalinghe e il colto ingegno e la modestia onorano voi soltanto: anche sotto il giogo dell’Austria il vostro cuore palpitò sempre di amore per la patria; fra le catene voi eravate italiana e il vostro sospiro alzavasi a Dio pel riscatto della santa patria. Voi confortaste sempre lo sposo alla grande opera di redenzione che meditava la grande anima sua: voi vedevate i pericoli a cui si affacciava, ma forte nel virtuoso proposito, anziché scemarle vigore coll’energia di vostre parole gli raddoppiavate il coraggio(90).
È evidente che Adele Cortesi subisce l’influenza di Mazzini e della sua elaborazione sulla questione femminile, che andava appunto nel senso di una valorizzazione della funzione educatrice e moralizzatrice della donna, importante nella creazione della coscienza nazionale(91). Per il resto il giornale si presenta come un bollettino di notizie e di proposte politiche, uno spazio di discussione che, accanto al commento dei fatti, riporta anche testi di canzoni, poesie, curiosità varie; articoli sottoscritti tutti da donne (che si firmano con i nomi di Annetta, Fanny, Ida M., ecc.), segno evidente di un’impresa interamente femminile. Credo che sia questa, al di là dei diversi orientamenti politici, l’impronta più profonda ed incisiva lasciata dall’esperienza del ’48 nella biografia femminile: l’aver sperimentato a diversi livelli ed in molteplici modi non solo la condivisione di una lotta politica con gli uomini, ma anche la possibilità di una iniziativa autonoma in campo politico, la forza di un impegno collettivo femminile. Esperienza questa che fa maturare in molte la consapevolezza di capacità individuali, la coscienza di poter avere un ruolo politico: insomma una nuova identità femminile.
Per farsi un’idea dei riflessi di questa esperienza nella soggettività femminile basta leggere il romanzo La rivoluzione in casa (1869) della scrittrice Luigia Codemo (1828-1898), nata a Treviso e vissuta a Venezia dal 1851 dopo le nozze con Carlo Gerstenbrand, nel quale le vicende del ’48 sono raccontate appunto da questa angolatura privata, interna alla sfera familiare e personale, ugualmente sconvolta, come suggerisce il titolo, dall’ondata di cambiamento che attraversa l’Europa(92). Traspare in questi scritti una immagine nuova di donna: forte, coraggiosa, consapevole di sé, animata da sentimenti nazionali, che non teme di pagare di persona la propria coerenza, che interpreta il ruolo tradizionale di moglie e di madre in un’ottica di impegno patriottico, che si affaccia con consapevolezza sulla scena nazionale.
È con questo sguardo e con la volontà di «far conoscere a tutta l’Italia, all’Europa tutta» l’impegno patriottico femminile che si apre significativamente uno degli ultimi appelli alla sottoscrizione siglato da ventinove cittadine veneziane(93). Anche nella lettera che Teresa Mosconi Papadopoli ed Elisabetta Giustinian inviano alle genovesi il 6 ottobre 1848 queste caratteristiche sono riaffermate con forza, come attributi di una nuova identità femminile. Accanto al rammarico di non aver potuto usare le armi, esse esprimono la fierezza di aver avuto l’occasione di adoperare almeno le «armi che noi possiamo con orgoglio chiamare femminili […] del sacrificio e della beneficenza» e guardando al futuro di un’Italia indipendente, delineano in questo senso i tratti della nuova italiana, insistendo particolarmente sul compito educativo che competerà alle donne: «La storia dirà che gl’Italiani, come trovarono nelle loro spose e nelle loro sorelle delle ispirazioni continue contro dello straniero durante l’aborrita oppressione, così troveranno nelle medesime delle educatrici pei loro figli, capaci di renderli degni della patria e della libertà»(94).
Anche questo rapporto con patriote di altre città, inedito rispetto all’esperienza del 1797, appare molto importante: la costruzione di una rete di relazioni politiche non solo locali, ma nazionali, oltre a consolidare un’identità nazionale, rinforza questa nuova identità femminile, collegando idealmente tra loro, anche sul piano della rappresentazione, donne di differenti contesti e classi sociali. Lo sguardo al futuro con il quale si chiude questa lettera («la storia dirà che gl’Italiani [...] troveranno») sembra quasi preannunciare il nuovo scenario che si apre all’indomani della formazione dello Stato italiano. Chiusa l’epoca eroica del Risorgimento, è proprio il terreno dell’educazione infatti a costituire uno dei campi cruciali di iniziativa delle donne.
Gli anni che seguono l’annessione al Regno d’Italia registrano un forte impegno delle donne nel campo dell’educazione. Su questo terreno si assiste ad una vera e propria mobilitazione di forze femminili, con una vastità di iniziative nei confronti dell’infanzia che pone Venezia all’avanguardia in ambito nazionale e ne fa una specie di contesto privilegiato di sperimentazione di approcci e modelli educativi a cui guardano con interesse filosofi, pedagogisti e politici non solo italiani. Nel giro di pochi anni nella città vengono aperti ben quattro asili froebeliani, riformati gli asili aportiani del primo Ottocento, inaugurate scuole professionali femminili e corsi di alfabetizzazione, attivato un asilo per lattanti (assunto a modello di successive istituzioni nazionali), pubblicati testi e riviste per l’infanzia. Queste iniziative vanno di pari passo con il consolidamento e la diffusione di un modello femminile in cui il ruolo materno viene enfatizzato e coniugato in modo prioritario con una funzione educativa che assume valenze sociali. È il modello della «madre-cittadina» (espressione coniata proprio dal gruppo veneto), cioè di una donna che interpreta la propria funzione materna all’interno di un impegno formativo rivolto non solo nella direzione dei propri figli, ma dell’intera società. Madre-cittadina perché madre di futuri cittadini, ma al tempo stesso perché responsabile del loro sentirsi tali, prima ispiratrice di sentimenti di identità nazionale: è in questo senso che il ruolo materno trascende i confini della sfera familiare per assumere valenze politiche e diventare missione sociale.
Questa concezione è il denominatore comune che lega tra loro le collaboratrici del giornale «La Donna», uno dei primi e più importanti periodici emancipazionisti del Regno d’Italia, scritto interamente da donne, fondato dalla padovana Guadalberta Beccari, stampato a Venezia negli anni 1869-1877, a cui collaborano attivamente varie veneziane, come Luigia Codemo, Adele Chiminello, Linda Maddalozzo, Angela Nardo Cibele, Anna Mander Cecchetti(95). Tutte sono convinte sostenitrici della centralità del ruolo materno e della missione educatrice della donna, a cui si unisce la rivendicazione della cittadinanza, anche se con posizioni diverse e con esiti che non necessariamente arrivano al suffragismo. Per Erminia Fuà Fusinato, ad esempio, la differenza sessuale si riflette anche in forme differenziate di accesso alla sfera pubblica: la politica rimane ai suoi occhi un ambito maschile, a differenza del patriottismo; una distinzione che in qualche caso si connota di sfumature etiche, con un’implicita svalorizzazione della politica, cui si intreccia un’altrettanto implicita affermazione di superiorità morale femminile(96). L’accentuazione posta sulla differenza fa passare in secondo piano l’uguaglianza, con una rottura dell’equilibrio presente nelle elaborazioni del 1797 e con esiti evidentemente conservatori: non è a partire dalla propria individualità, ma dalla funzione procreativa che le donne avanzano le proprie rivendicazioni ed è in quanto madri che chiedono di esser riconosciute come cittadine. Questo modello femminile, già presente, come abbiamo visto, in alcuni scritti di donne del periodo precedente, viene consolidato a livello nazionale anche attraverso la costruzione letteraria di biografie di donne illustri, galleria di eroine materne, recentemente rivisitata da Rosanna De Longis, nelle quali le madri dei patrioti del ’48 (Mazzini, Cairoli, Ruffini, ecc.) vengono assimilate alle madri romane, volte «al culto della famiglia e della patria», come è scritto nell’Albo Cairoli, compilazione di figure femminili dedicata da Gualberta Beccari ad Adelaide Cairoli(97). A rinforzarlo fino ad imporlo come stereotipo contribuiscono vari fattori, su cui non possiamo in questa sede soffermarci: dalla enfatizzazione della figura materna che dilaga nel corso del secolo all’interno di un rinnovato sentimentalismo familiare, alla distinzione tra pubblico e privato, all’emergere di correnti filosofiche e pedagogiche idealiste e romantiche che attribuiscono alla donna un compito primario nell’educazione(98). Basti pensare, oltre che a Rousseau, a Froebel, l’inventore del metodo di apprendimento attivo e «naturale», basato sul gioco e sull’osservazione della natura. A lui si deve in particolare la diffusione a livello europeo della metafora della «madre/maestra», applicata sia nei confronti della madre (chiamata ad essere anche «maestra»), che in quelli della maestra (chiamata ad essere anche «madre»). Questo spiega forse il successo che le teorie froebeliane ottengono in larga parte dell’intellettualità femminile, con la costruzione di una estesa rete di iniziative femminili che abbraccia molti Stati europei, dalla Germania alla Svizzera, alla Francia, all’Italia.
Accanto a questi fattori gioca un ruolo decisivo la priorità politica che acquista in Italia il terreno dell’educazione del popolo, quel «dover fare gli italiani» che si impone come un obiettivo prioritario del nuovo Stato nazionale, fondamentale per la sua esistenza, oltre che per la sua credibilità internazionale(99). Significativa in questo senso l’analogia che si stabilisce tra il popolo e il bambino, entrambi bisognosi di essere educati: «Si vegli il popolo come si veglia un fanciullo [scrive Angela Nardo nel saggio Istruzione e lavoro] si educhi al bene colla persuasione e coll’esempio»(100), doti eminentemente femminili. Alle donne in sostanza viene affidato un ruolo primario nella formazione della coscienza nazionale e nella «rigenerazione» della società, secondo un’ispirazione fortemente sostenuta, oltre che da Mazzini, da altri liberali. Raffaello Lambruschini, ad esempio, arriva ad affermare che «alla donna è confidato l’avvenire della società» e che tocca a lei «rigenerare la società soccorrendo ed educando il popolo»(101). Un compito di ‘genere’ evidenziato anche dalla femminilizzazione del personale scolastico, dalla figura della maestra pubblica, una categoria professionale nuova destinata ad allargarsi con il varo delle leggi di istruzione obbligatoria, dalla legge Casati (1859) alla legge Coppino (1877)(102).
Questo diventa dunque il nuovo campo di battaglia delle patriote e dei patrioti, campo laico nel quale si gioca, tra l’altro, un difficile rapporto con la Chiesa e le sue organizzazioni ramificate nel territorio, tese in maniera altrettanto forte al rilancio dell’iniziativa cattolica nel campo della cura dell’infanzia(103). La continuità tra lotta insurrezionale e mobilitazione educativa, ma anche tra rivendicazione femminile e impegno pubblico, è evidente nel percorso biografico di alcune protagoniste del ’48 veneziano (Elisabetta Michiel Giustinian, Adele Della Vida Levi, Luigia Codemo), che ritroviamo negli anni Settanta impegnate sul terreno dell’educazione. Anche questo appare come un tratto specifico delle emancipazioniste veneziane, inclini all’iniziativa concreta più che all’elaborazione teorica, anticipatrici quasi di quel «femminismo del fare», come l’ha definito Annarita Buttafuoco, che caratterizzerà il movimento delle donne degli inizi del Novecento(104).
La prima iniziativa pubblica muove da quell’ambiente femminile israelita molto attivo nella rivoluzione del ’48 e impegnato nel processo di integrazione della comunità ebraica. Ne è promotrice Adele Della Vida Levi, appartenente ad una famiglia di primo piano della politica e dell’economia non solo veneziana: figlia di Samuele Della Vida (uno dei fondatori delle Assicurazioni Generali) e di Regina Pincherle, è sorella di Cesare Della Vida, deputato dell’Assemblea costituente, e cugina di Leone Pincherle, ministro della Repubblica del ’48. Diventerà poi suocera di Luigi Luzzatti, deputato e ministro della sinistra, mentre il figlio Ettore salirà ai vertici del sistema bancario italiano negli anni Novanta, diventando vicedirettore generale della Banca d’Italia.
Portata ad occuparsi personalmente dell’educazione dei nipoti dopo la morte di una figlia, entra in contatto con le idee froebeliane attraverso Adolfo Pick, istitutore di tedesco del figlio Ettore. Dopo aver personalmente visitato, nel 1868, alcuni giardini d’infanzia in Germania e Svizzera ed essere entrata in corrispondenza con la baronessa Bertha von Marenholtz Bülow, grande divulgatrice in Europa delle idee di Froebel, progetta di istituire a Venezia un asilo di questo tipo(105). Si impegna attivamente per realizzare questo progetto, con un’opera di intensa divulgazione, scrivendo opuscoli ed appelli indirizzati espressamente alle donne che sollecita all’iniziativa anche in un’ottica emancipazionista: «Facciano dunque di adoperarsi le nostre signore e dimostrino un po’ come sappiano usare saggiamente la sola autorità di valore che ci è concessa senza opposizioni, quella di sorvegliare e di guidare saggiamente i nostri fanciulli»(106). L’invito ha, come si vede, un accento polemico: a differenza di altre donne Adele Della Vida non ritiene che questo interesse sia espressione di una caratteristica ontologica femminile, ma al contrario l’unico spazio d’azione pubblica che la società concede alle donne «senza opposizioni».
L’istituzione da lei progettata appare innovativa da molti punti di vista, sia per il metodo mai sperimentato prima in Italia (al quale apporta alcune variazioni per adattarlo alle caratteristiche dei bambini italiani), sia per gli interlocutori ai quali si rivolge, sia infine per l’impronta laica che la connota. Ella punta infatti alla creazione di un «giardinetto» non confessionale, non indirizzato ai poveri (come quelli esistenti precedentemente nel Ghetto o istituiti dalla Commissione per gli asili di carità), quanto piuttosto ai borghesi, altrettanto bisognosi, a suo avviso, di un’educazione moderna e accurata. Messo insieme un gruppo di intellettuali ebrei (tra cui spiccano i nomi di Anna Righetti Rosada, Adele Trieste Sacerdoti, Angelo Minich e Adolfo Pick), raccolte sufficienti risorse, messa a punto l’organizzazione con l’aiuto di Emilia Froehlich (direttrice del Kindergarten di Berlino), l’asilo viene finalmente aperto il 3 novembre 1869 in località SS. Apostoli(107); Della Vida ne diviene ben presto la direttrice, affiancando all’attività di insegnamento un’opera di pubblicazione di testi ed opuscoli didattici. Accanto a periodiche relazioni sull’andamento dell’asilo, tra le sue pubblicazioni figurano la traduzione del romanzo di Jack London Jerry of the Islands e la raccolta di materiali didattici Educazione nuova. Raccolta di racconti e canzoni ad uso del giardinetto infantile di Venezia(108). Dopo un momento di iniziale difficoltà, l’istituzione ottiene un diffuso consenso, testimoniato dal progressivo aumento degli iscritti. Nel 1872 il ministro della Pubblica istruzione invia a visitarlo l’ispettore Aristide Gabelli che stila una lusinghiera relazione sulla sua attività, a seguito della quale lo stesso ministro invia una lettera di elogio ad Adele Della Vida, invitandola a «perseverare in un’opera che aiutata dal tempo e dal progresso delle opinioni promette un profitto sempre maggiore»(109).
Caratteristiche molto simili per utenza e capienza ha il giardinetto «Vittorino da Feltre», aperto a Rialto nel 1871 da Adolfo Pick, uno dei maggiori divulgatori italiani di Froebel, con il sostegno economico di molte donne veneziane, senza le quali, come egli stesso sottolinea in più occasioni, «una delle più care e simpatiche istituzioni della moderna civiltà educatrice sarebbe ancora per Venezia e forse per l’Italia un pio desiderio»(110).
Diversa invece l’utenza del terzo asilo froebeliano aperto a Venezia nel 1874 per iniziativa di Elena Raffalovich, moglie del filosofo Domenico Comparetti. Pur risiedendo a Pisa, questa ebrea di origine russa decide di investire il proprio capitale e le proprie energie nella fondazione di un asilo a Venezia, proprio in considerazione dell’apertura culturale dell’ambiente veneziano che dava la possibilità di realizzare quanto veniva invece osteggiato nella sua città(111). Socialista convinta, in contatto con gli ambienti della Comune di Parigi dove vive la sorella, si propone di creare un asilo froebeliano espressamente rivolto ai bambini poveri, «per quegli sventurati che la società abbandona ad un così triste destino con una così inesplicabile indifferenza»(112). Il suo obiettivo è quello di offrire ai figli del popolo le stesse opportunità formative delle altre classi sociali, evitando che l’introduzione di un nuovo metodo educativo diventi elemento di ulteriore discriminazione sociale. Per questo vuole un’istituzione assolutamente gratuita («altrimenti sarà chiusa alle ragazze povere, che più ne hanno bisogno»)(113), abbastanza capiente da non configurarsi come il privilegio di pochi e assolutamente non confessionale («bisogna intendersi bene prima di cominciare [scrive in una lettera a Pick] non voglio catechismo»)(114). L’asilo, che porta il suo nome, è inaugurato il 24 ottobre 1874 nel sestiere di Cannaregio, uno dei più poveri della città, dopo la stipula di un accordo con il Comune di Venezia che la impegna a versare la rendita annua di 4.000 lire, a condizione del rispetto delle caratteristiche da lei indicate, a garanzia delle quali si riserva la nomina della direttrice. Con i suoi cento iscritti l’asilo diventa immediatamente il primo della città per capienza. La sensibilità sociale si intreccia, anche in lei, con un impegno sul versante dell’emancipazione, testimoniato, oltre che dagli scritti nei quali denuncia la vacuità della vita della donna borghese, dalla particolare cura posta all’educazione delle bambine e dall’interesse con cui segue il dibattito italiano (è abbonata del giornale «La Donna»). La sua lettura della condizione femminile però si distacca sensibilmente dal contesto italiano. Aderendo all’analisi socialista, Elena Raffalovich è convinta non solo del fatto che l’emarginazione sia trasversale rispetto alle classi sociali, ma che sia intimamente collegata alla loro esistenza e che la liberazione della donna possa realizzarsi non attraverso il conseguimento di diritti civili e politici, ma con la rivoluzione socialista e con la conseguente abolizione di ogni forma di diseguaglianza: «Credo [scrive in una lettera del 1872] che per l’emancipazione della donna il progresso verrà da dove meno lo si aspetta, cioè dalle donne del popolo, spinte dalla necessità di vincere la lotta per l’esistenza […]. Meno disarmate e più energiche delle donne della borghesia esse andranno più diritte allo scopo, senza curarsi dei pregiudizi. In una parola, credo che la causa delle donne sia immediatamente legata a quella della democrazia e che esse trionferanno insieme»(115). Una posizione la sua che verrà ripresa dalle socialiste italiane solo agli inizi del Novecento(116).
Negli stessi anni era attiva a Venezia, sempre nel campo dell’educazione della prima infanzia, un’altra associazione femminile: la Società filiale, collegata all’Associazione nazionale per la promozione degli asili d’infanzia, fondata nel 1867 a Firenze da Ottavio Gigli e da altri illustri liberali, tra cui Gino Capponi, Bettino Ricasoli e Carlo Matteucci. Ne era presidente Luigia Codemo, scrittrice ormai affermata, una delle intellettuali più note in città, molto sensibile, come abbiamo visto, ai temi della condizione femminile che emergono con forza nei suoi romanzi di impronta verista(117). Il comitato da lei presieduto aveva attivato a Venezia una scuola per l’istruzione delle analfabete nella parrocchia di S. Maria Formosa, presso la scuola elementare femminile, ma soprattutto si era impegnato nella fondazione di asili rurali nell’entroterra e nell’estuario veneziano, dove particolarmente grave risultava la carenza di iniziative assistenziali ed educative, a fronte di un analfabetismo più diffuso. In pochi anni e malgrado le scarse risorse, l’associazione era riuscita ad aprire asili a Pellestrina, Chioggia, Dolo, Mirano, Portogruaro, come risulta dagli atti di un’inchiesta promossa dall’Ateneo Veneto nel 1869(118). Di questo comitato faceva parte, in qualità di segretaria, anche Laura Goretti Veruda, altra importante figura nel campo dell’istruzione, prima donna a ricevere dalla commissione per gli asili di carità l’incarico di ispettrice degli asili a Venezia, tradizionalmente riservato ai sacerdoti. Dopo la sua nomina all’asilo di S. Marziale, attua una profonda riforma degli asili aportiani, introducendovi principi freobeliani ed elaborando un metodo che ottiene consensi non solo in Italia: gli elaborati ed i lavori dei bambini vengono premiati sia all’Esposizione di Vienna, sia a quella di Parigi(119). I suoi testi Prime idee sull’uomo, gli animali, le piante e prime nozioni di geografia per i fanciulletti degli asili d’infanzia e Nozioni sulla pesca e sulla nomenclatura navale […] vengono stampati e diffusi a cura del Municipio in tutte le scuole della città(120). Laura Veruda appartiene a quella schiera di donne impegnate nel campo dell’educazione anche da un punto di vista professionale, a quelle educatrici e maestre pubbliche che ormai costituivano un contingente significativo della forza lavoro femminile. Una categoria nuova nel mercato del lavoro, di provenienza piccolo-borghese, segno di una importante trasformazione delle professioni femminili che si impone rapidamente verso la fine del secolo. Secondo i dati forniti da Alberto Errera, nel 1869 a Venezia se ne contavano già trecentododici, ma il numero risulta raddoppiato alla fine del secolo (sono settecentosettanta nel 1901)(121). Le troviamo iscritte alla Società di mutuo soccorso fra maestri e maestre elementari, fondata già nel 1858. L’VIII congresso pedagogico nazionale, che si svolge a Venezia nel settembre 1872, rappresenta per loro un importante momento di conoscenza, di scambio e di visibilità pubblica(122). Affluiscono in questa occasione nella città i più importanti pedagogisti italiani e stranieri, oltre ai politici del settore: Pasquale Villari, Giuseppe Sacchi, Emilia Gould (fondatrice delle scuole americane di Roma), per citare solo alcuni nomi importanti. Per la prima volta le donne sono ammesse al voto ed una di loro, la padovana Erminia Fuà Fusinato, viene eletta vicepresidente di una sessione. Un avvenimento dall’alto valore simbolico, che riconosce la parità professionale, oltre che l’impegno delle donne nel campo dell’educazione, vissuto dalle presenti con profonda emozione e salutato come un implicito riconoscimento «dei diritti femminili», come sottolinea Linda Maddalozzo in un suo articolo sul giornale «La Donna»(123).
Un altro avvenimento importante segna l’inizio degli anni Settanta: la creazione della Scuola normale femminile, fondamentale proprio per la formazione delle future maestre elementari, la cui carenza era uno degli elementi di debolezza del sistema scolastico e dell’istruzione femminile: sorge nel 1873 presso palazzo Vivante e ben presto si arricchisce di un corso specifico per maestre froebeliane, tenuto da Alfonso Pick, grazie al contributo di Elena Raffalovich Comparetti(124). A questa si affianca l’apertura dell’Istituto superiore femminile nel prestigioso palazzo Giustinian, lasciato in dono al Comune da Elisabetta Giustinian alla sua morte (1889). A dirigerlo viene chiamata Rosa Piazza, una delle figure più importanti del movimento emancipazionista veneto, collaboratrice del giornale «La Donna», docente della Scuola normale femminile di Padova, insegnante a Venezia dal 1876, impegnata nella diffusione del metodo froebeliano, autrice del libro Della educazione ed istruzione della donna italiana (1870), nel quale aveva sostenuto con forza la causa dell’istruzione femminile come presupposto di emancipazione(125). Rosa Piazza rappresenta un esempio concreto di quell’incrocio tra convinzione emancipazionista ed impegno educativo che accomuna molte delle donne del tempo, mobilitate sul duplice fronte dell’affermazione dei diritti e della diffusione del metodo froebeliano. Tutte le collaboratrici de «La Donna» sono froebeliane convinte, anche se non impegnate concretamente nell’attività degli asili. Angelina Nardo, ad esempio, scrive Lettera ad una madre sulle idee educatrici di Froebel, un opuscolo divulgativo del metodo, e dà sistematiche notizie sul giornale «La Donna» dell’attività degli asili di Venezia(126). La stessa Gualberta Beccari, d’altra parte, fonda nel 1876 il giornale pedagogico «Mamma», appendice non secondaria, come giustamente osserva Liviana Gazzetta, del periodico emancipazionista(127). A loro volta i froebeliani sostengono attivamente la causa dell’emancipazione femminile, non solo da un punto di vista teorico, ma attraverso iniziative concrete: nel 1871, ad esempio, Adolfo Pick promuove presso il suo giardinetto una serie di conferenze scientifiche gratuite per le donne, tenute da ventisei professori di varie discipline. L’iniziativa ottiene un grande successo, con più di sessanta iscritte. Nel commentarla Angelina Nardo ed Anna Mander Cecchetti, partecipanti al corso, scrivono di ritenere giusto che gli uomini si attivino nella direzione dell’istruzione femminile, riparando così indirettamente alle ingiustizie commesse dal loro sesso in passato(128). Nell’Indirizzo e ricordo offerto al professore Adolfo Pick, testo a stampa sottoscritto da trenta partecipanti, esse si augurano che «il sapere cessi di essere il retaggio di una metà soltanto del genere umano, per venir diviso colla donna, la cui vita si infiorirà così di nuove e sublimi gioie»(129). Anna Mander Cecchetti, poetessa e ‘patrona’ delle scuole primarie femminili, dedica ai professori anche una poesia pubblicata sulla rivista di Pick «L’Educazione Moderna» e su «La Donna», ad ulteriore riprova dell’affinità di intenti e dell’intreccio dei due movimenti(130).
Al di là del campo dell’istruzione propriamente detta, negli anni Settanta vanno segnalate altre due importanti iniziative femminili, entrambe idealmente poste in un territorio di confine tra assistenza ed educazione, tra sostegno al lavoro femminile e cura dell’infanzia: la creazione della scuola professionale del merletto a Burano (1872) e l’apertura dell’Asilo per bambini lattanti e slattati «G.B. Giustinian» (1877).
Con la prima la contessa Andriana Marcello, coadiuvata da Paulo Fambri, si proponeva di rivitalizzare una manifattura femminile in declino, offrendo alle ragazze delle isole lavoro e qualificazione. La scuola, oltre ad addestrare al lavoro artigianale, intendeva infatti rinnovare e riqualificare la produzione, coniugando le antiche tradizioni dell’arte con disegni e manufatti più consoni al mercato dell’epoca, premessa indispensabile per quel rilancio dell’attività su scala industriale che avverrà negli anni Ottanta con la creazione della ditta Jesurum(131). La formazione professionale della ragazze era uno dei temi dibattuti in quegli anni (Rosa Piazza vi dedica una conferenza all’Ateneo Veneto il 5 maggio 1876), anche se la realizzazione concreta di una scuola professionale femminile avviene a Venezia solo nel 1891 (scuola professionale femminile «Vendramin Corner»)(132).
Anche l’apertura di un asilo per lattanti si proponeva di sostenere l’occupazione femminile, ma in un altro senso: offrendo alle madri la possibilità di conciliare la cura dei figli con il lavoro extradomestico, organizzando un ricovero confortevole per i bambini. Un problema posto con forza in quegli anni dalla trasformazione industriale della città, dal diffondersi di manifatture a manodopera femminile, con il conseguente allontanamento delle donne dall’ambito domestico e la separazione dai figli, in assenza di garanzie legislative a protezione della maternità, a stento raggiunte alla fine del secolo. Accanto alla Manifattura Tabacchi sorgevano in quegli anni la fabbrica dei fiammiferi Baschiera (1878), varie conterie e più tardi il Cotonificio veneziano(133).
In questa direzione di sostegno alle madri proletarie si attiva Elisabetta Michiel Giustinian, ricomponendo intorno a sé vari amici di quella aristocrazia e borghesia progressista protagonista del ’48: tra i benefattori dell’iniziativa si ritrovano i nomi delle famiglie Montalban, Coen, Papadopoli, Minich, Treves, con cui aveva condiviso battaglie e impegno patriottico. Malgrado le molteplici attività pubbliche (è anche ispettrice dell’Istituto superiore femminile) si dedica a questa impresa in maniera prioritaria, «anima e corpo», come scrive Adolfo Pick, riuscendo a dar vita ad un asilo d’avanguardia, organizzato secondo i più moderni principi di puericultura e le più rigorose norme d’igiene.
L’impronta laica e femminile è sottolineata dal comitato direttivo, composto esclusivamente da donne. Le finalità dell’istituto risultano articolate, con iniziative rivolte non solo alla cura e all’educazione dei bambini, ma al miglioramento delle condizioni di lavoro delle operaie: nell’asilo vengono tenute lezioni di igiene ed è attivato un ambulatorio gratuito per bambini poveri. Inoltre la direzione riesce ad ottenere dalla Manifattura Tabacchi il diritto delle madri di assentarsi un’ora dal lavoro per allattare i bambini e più tardi garantirà anche la distribuzione di un pasto gratuito(134). In questa attività Elisabetta Giustinian è coadiuvata da Cesare Musatti, medico igienista, fondatore della rivista «L’Igiene Infantile», mobilitato sul fronte della lotta contro la mortalità infantile, altro settore di punta della filantropia femminile, che porta all’apertura di vari ospedali e colonie per bambini, come l’Ospizio marino (1868) e l’Educatorio rachitici (1888)(135).
Cresce intanto in quegli anni anche la battaglia per il diritto di voto: nel 1867 le venete si distinguono nella raccolta di firme promossa da Giulia Caracciolo a sostegno della legge pro-suffragio presentata da Morelli. Nel 1877 la milanese Anna Maria Mozzoni tiene a Venezia una conferenza, pubblicata con rilievo sul giornale «La Donna», a presentazione di un’ulteriore petizione, sottoscritta da donne di varie città(136).
Tutte queste iniziative erano guardate con profondo sospetto dagli ambienti ecclesiastici, sia perché sottratte al controllo della Chiesa, sia perché in odor di socialismo. Anche il movimento emancipazionista e perfino il modello della «madre-cittadina» erano apertamente criticati. Già negli anni Quaranta, in un documento dal titolo Memorie sulle scuole infantili ridotte a stabilimenti e poscia chiamate asili dell’Infanzia, la curia aveva preso le distanze da queste posizioni, denunciando il fatto che in questa ottica le donne erano «quasi divinizzate», all’interno di una specie di «sacerdozio femminile»:
Gli errori poi che leggonsi nell’opuscolo e che meritano principalmente di essere meditati trovansi nella memoria di Raffaele Lambruschini […] volendo far conoscere che le donne bennate devono cooperare all’istruzione del popolo. Arriva a delineare in novo il sesso muliebre, che quasi lo divinizza e si chiamerebbe avventurato se ne’ patronati di carità religiosa potesse introdurre le donne ed iniziarle ai soavi misteri di questo quasi direi sacerdozio muliebre(137).
Un pensiero considerato talmente fuorviante da indurre il patriarca a vietare la circolazione degli opuscoli in questione. Iniziative come quelle di Elisabetta Giustinian e di Laura Goretti Veruda erano dunque guardate con grande sospetto, quando non direttamente criticate. Ad Elisabetta Giustinian si rivolgeva l’accusa di favorire l’allontanamento delle donne dalla famiglia e di incentivare il loro disinteresse verso i figli, come lei stessa ricorda amaramente(138). Anche Laura Goretti Veruda testimonia le sue difficoltà: «i dolori non ci sono mai mancati nel corso di questi dieci anni gli intendimenti vennero fraintesi; gli indirizzi accusati e condannati senza essere conosciuti»(139).
Ma è soprattutto contro i giardini froebeliani che si indirizza l’attacco dei conservatori e dei clericali, sia per il loro carattere laico, sia per quell’educazione ludica e creativa che, rivolta ai figli del popolo (cioè alla futura forza lavoro), si configurava come una minaccia sociale, possibile fonte di disaffezione al lavoro e di rifiuto della gerarchia sociale. Il 22 marzo del 1882 si svolge in consiglio comunale un aspro dibattito sull’asilo Comparetti, in occasione del centenario della nascita di Froebel, con il pretesto di discutere una delibera di adesione alle celebrazioni organizzate in Germania. A guidare l’attacco non è una persona qualsiasi, ma la figura di primo piano del cattolicesimo intransigente: l’avvocato Giovanni Battista Paganuzzi, eletto nelle liste del Veneto Cattolico, futuro presidente del Comitato permanente dell’Opera dei Congressi(140). Egli scende in campo accusando il movimento froebeliano di «materialismo», «ateismo», «socialismo», coagulando intorno a sé un consenso che ottiene la maggioranza in consiglio comunale(141). La bocciatura della delibera assume il significato di una condanna del metodo che costringe la direzione dell’asilo ad una posizione difensiva, vissuta con profonda amarezza dalla fondatrice.
Negli stessi anni viene chiuso anche il corso per la formazione delle maestre froebeliane tenuto da Pick presso la Scuola normale. È il segnale di una controffensiva più generale dei conservatori che si esprime a diversi livelli, ma che corrisponde comunque anche ad una fase di ripiegamento del movimento, all’esaurirsi del suo momento più creativo.
Siamo alle soglie degli anni Ottanta, anni di svolta per Venezia, che vedono mutare sostanzialmente l’assetto economico e produttivo, sull’onda di una trasformazione industriale che ridisegna anche l’assetto urbanistico della città; anni che vedono emergere con forza un proletariato femminile sempre più consapevole, una classe operaia che comincia ad organizzarsi intorno ai sindacati e al partito socialista con nuove prospettive di lotta ed emancipazione. Gli ultimi decenni del secolo sono caratterizzati da grandi scioperi e manifestazioni femminili(142). Sembra quasi che la previsione di Elena Raffalovich Comparetti stia per realizzarsi in una nuova epoca di rivendicazioni e lotte femminili. Ma questa è un’altra pagina della storia delle donne.
1. Cf. Marino Berengo, La società veneta alla fine del Settecento. Ricerche storiche, Firenze 1956. Sulla presenza di Marina Benzon e altre donne cf. Raffaello Barbiera, Nella città dell’amore. Passioni illustri a Venezia (1816-1861), Milano 1923, p. 5.
2. Cf. su questo momento per l’Italia Annarita Buttafuoco, Straniere in patria. Temi e momenti dell’emancipazione femminile italiana dalle Repubbliche giacobine al fascismo, in Esperienza storica femminile nell’età moderna e contemporanea, a cura di Annamaria Crispino, II, Roma 1988, pp. 91-124; Franca Pieroni Bortolotti, Alle origini del movimento femminile in Italia 1848-1892, Torino 1963.
3. Cf. su questo in partic. Anna Rossi Doria, Le idee del suffragismo, in La libertà delle donne. Voci della tradizione politica suffragista, a cura di Ead., Torino 1990, pp. 265-308; Geneviève Fraisse, La démocratie exclusive et la différence des sexes, Aix-en-Provence 1989; Christine Fauré, La démocratie sans les femmes. Essai sur le libéralisme en France, Paris 1985; Michelle Perrot, Les femmes ou le silence de l’histoire, Paris 1998 (in partic. pp. 213-281).
4. Per un’analisi della figura di Olympe de Gouges e del movimento femminile nella Rivoluzione francese cf. Elisabeth G. Sledziewski, Rivoluzione e rapporto tra i sessi, in Georges Duby - Michelle Perrot, Storia delle donne in Occidente. L’Ottocento, a cura di Geneviève Fraisse-Michelle Perrot, Roma-Bari 1991, pp. 34-50; Les femmes et la Révolution française. Actes du colloque, a cura di Marie-France Brive, III, Toulouse 1991; Cahiers de Doléances des femmes en 1789 et autres textes, Paris 1981; Dominique Godineau, Citoyennes tricoteuses. Les femmes du peuple à Paris pendant la Révolution Française, Paris 1988; Paule-Marie Duhet, Les femmes et la Révolution, 1789-1794, Paris 1971.
5. Cf. Simonetta Soldani, Donne della nazione. Presenze femminili nell’Italia del Quarantotto, «Passato e Presente», 46, 1999, pp. 75-102.
6. L’invito ad analizzare i momenti storici di rottura e di cambiamento come situazioni storiche particolarmente importanti nella ridefinizione dei rapporti tra i sessi era partito dalle storiche francesi in un saggio molto discusso e ormai basilare della storiografia di genere: Culture et pouvoir des femmes. Essai d’historiographie, «Annales E.S.C.», 41, 1986, nr. 2, pp. 271-291.
7. Non solo la ricerca di Franca Pieroni Bortolotti trascura la realtà veneziana, di cui si ricorda solo il giornale «La Donna», ma altrettanto fanno quelle di Annarita Buttafuoco e Simonetta Soldani, che appaiono più incentrate su altre realtà, come Milano, Torino, Firenze o Roma. In questa ricostruzione Venezia viene, a torto, considerata una periferia poco degna di nota e questo comporta, come indicherò nel testo, alcuni errori significativi nell’interpretazione e ricomposizione di un panorama nazionale.
8. Sul permanere di queste, cf. Giorgio Ricchi, Sull’influenza che possono avere le donne sullo sviluppo dello spirito pubblico. Discorso pronunciato nella Società Patriottica li 17 pratile, anno primo della libertà, Venezia 1797.
9. Cf. su questo Luciano Guerci, La discussione sulla donna nell’Italia del Settecento: aspetti e problemi, Torino 1987; Id., La sposa ubbidiente: donna e matrimonio nella discussione dell’Italia del Settecento, Torino 1988; Luisa Riccaldone, La scrittura nascosta. Donne di lettere e loro immagini tra Arcadia e Restaurazione, Firenze 1996.
10. Sulla situazione economica e sociale della Venezia di fine Settecento cf. M. Berengo, La società veneta alla fine del Settecento, e Norbert Jonard, La vita a Venezia nel Settecento, Firenze 1985. Sui mestieri femminili tradizionali cf. Perle e impiraperle. Un lavoro di donne a Venezia tra ’800 e ’900, catalogo della mostra storico-documentaria, a cura di Anna Bellavitis-Nadia M. Filippini-Maria Teresa Sega, Venezia 1990; Elena Bertagnolli-Maria Teresa Sega-Rossana Urbani De Gheltof, Perle veneziane, Venezia s.a. [ma 1991]; Doretta Davanzo Poli, Il merletto veneziano, Novara 1998; Ead., Il merletto a fuselli di Pellestrina, in Il merletto di Pellestrina, Venezia 1986, pp. 65-125.
11. Sulle riforme in materia di pubblica istruzione cf. Claudia Salmini, L’istruzione pubblica dal Regno italico all’Unità, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 6, Dall’età napoleonica alla prima guerra mondiale, Vicenza 1986, pp. 59-79; Ead., La scuola elementare tra Stato e Comune. Dalle riforme settecentesche al primo Novecento, in La scoperta dell’infanzia. Cura, educazione e rappresentazione. Venezia 1750-1930, a cura di Nadia Maria Filippini-Tiziana Plebani, Venezia 1999, pp. 113-125.
12. Sulle letture femminili e il pubblico femminile nel secondo Settecento cf. Elena Bertagnolli, Letture e pubblico femminile a Venezia nella seconda metà del Settecento, tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1989-1990.
13. È la tesi sostenuta da Tiziana Plebani nel saggio introduttivo a L’Almanacco delle donne, Venezia 1991.
14. Cf. la ristampa Gioseffa Cornoldi Caminer, La donna galante ed erudita: giornale dedicato al bel sesso (1786-1816), a cura di Cesare De Michelis, Venezia 1983. Per i confronti con altre pubblicazioni europee, in partic. il «Journal des Dames» (1756-1788), cf. Nina Rattner Gelbart, Le donne giornaliste e la stampa, in Storia delle donne. Dal rinascimento all’età moderna, a cura di Natalie Zemon Davis-Arlette Farge, Roma-Bari 1991, pp. 435-454.
15. Cf. sulle musiciste veneziane in partic. Jane Baldauf-Berdest, Women Musicians of Venice: Musical Foundation 1525-1855, Oxford 1993.
16. Sulla figura di Elisabetta Caminer Turra, cf. in partic. Elisabetta Caminer Turra (1751-1796). Una letterata veneta verso l’Europa, a cura di Rita Unfer Lukoschik, Verona 1998; Catherine M. Sama, Elisabetta Caminer Turra (1751-1796), in The Feminist Encyclopedia of Italian Literature, a cura di Rinaldina Russel, London-Westport 1997; Vittorio Malamani, Una giornalista veneziana nel secolo XVIII, «Nuovo Archivio Veneto», 1, 1891, t. II, pp. 251-275.
17. Cinzia Giorgetti, Ritratto di Isabella. Studi e documenti su Isabella Teotochi Albrizzi, Firenze 1992. Sulle figure femminili di fine Settecento cf. Gentildonne artiste intellettuali al tramonto della Serenissima. Atti del seminario, a cura di Elsie Arnold et al., Mirano 1998; Gino Damerini, Settecento veneziano. La vita, i tempi, gli amori e i nemici di Caterina Dolfin Tron, Roma 1938; Id., La vita avventurosa di Caterina Dolfin Tron, Firenze 1929; Eugenio Musatti, La donna in Venezia, Padova 1891.
18. Ute Frevert, Il salotto, in Luoghi quotidiani nella storia d’Europa, a cura di Heinz Gerhard Haupt, Roma-Bari 1993, p. 126 (pp. 126-137).
19. Sui salotti culturali in Italia cf. Mariuccia Salvati, Il salotto, in I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, a cura di Mario Isnenghi, Roma-Bari 1996, pp. 173-195. Per un confronto con l’Europa v. Maurice Agulhon, Il salotto, il circolo e il caffè. I luoghi della sociabilità nella Francia borghese (1810-1848), Roma 1993; Verena Von Der Heyden-Rynsch, Salons européens. Les beaux moments d’une culture féminine disparue, Paris 1993; Luoghi quotidiani nella storia d’Europa, a cura di Heinz Gerhard Haupt, Roma-Bari 1993.
20. «Les plus brillants salons de Paris sont bien insipides et bien secs comparés à la société de madame Benzon» (Stendhal, Rome, Naples et Florence, Paris 1888, p. 394).
21. Giustina Renier Michiel riceveva «semplicemente vestita, con il capo coperto da una cuffia ricamata». Per uno sguardo sul suo salotto cf. in partic. Vittorio Malamani, Giustina Renier Michiel. I suoi amici, il suo tempo, «Nuovo Archivio Veneto», 19, 1889, t. 38, nr. 76, pt. 2, p. 288 (pp. 279-367).
22. Cf. su questo, oltre ibid., anche Rodolfo Renier, Giustina Renier Michiel, Genova 1885.
23. La notizia è riportata in Filippo Nani Mocenigo, Scrittrici veneziane del secolo XIX, Venezia 1887, p. 7.
24. È Annarita Buttafuoco a fare questo bilancio, che tuttavia deve esser assunto con cautela, considerando il fatto che in molte realtà mancano ancora ricerche specifiche (A. Buttafuoco, Straniere in patria, p. 93). Sulle pubblicazioni delle donne italiane nel triennio giacobino cf. anche Luisa Riccaldone, Il dibattito sulla donna nella letteratura patriottica del Triennio (1797-99), «Italienische Studien», 7, 1984, pp. 23-46; Laura Pisano, Giornalismo politico delle donne italiane dalle Repubbliche giacobine al Risorgimento (1796-1860), in Parole inascoltate. Le donne e la costruzione dello stato-nazione in Italia e in Francia (1789-1860), a cura di Ead.-Christiane Veauvy, Roma 1994, pp. 9-77. Sulle pubblicazioni della Municipalità e sul clima politico di questi mesi cf. Giovanni Pillinini, 1797: Venezia giacobina, Venezia 1997, pp. 81-88; Stefano Pillinini, Municipalità Provvisoria (12 maggio 1797-18 gennaio 1798), in Dai dogi agli Imperatori: la fine della Repubblica tra storia e mito, catalogo della mostra, a cura di Giandomenico Romanelli-Chiara Alessandri-Franca Lugato-Camillo Tonini, Milano 1997, pp. 82-101.
25. Pensieri della libera cittadina I.P.M. alle sue concittadine, Venezia 1797, p. 4.
26. Istruzioni d’una libera cittadina alle sue concittadine, Venezia 1797, p. 3.
27. Pensieri della libera cittadina, p. 4.
28. Ibid., p. 5.
29. Istruzioni d’una libera cittadina, p. 19.
30. Discorso al bel sesso veneto. Risposta a I.P.M., Venezia 6 giugno 1797, p. 3.
31. Risposta alli pensieri della libera cittadina alle sue concittadine, Venezia 1797.
32. Ibid., pp. 3-4.
33. Cf. ad esempio la Lettera apologetica scritta dalla cittadina Marianna Carbonara Gambarara alla sua amica M.B.D.B.M., Venezia 1797, dove dal racconto di una penosa vicenda familiare traspare l’insofferenza per usi e consuetudini matrimoniali e familiari discriminanti. Sull’aumento delle cause di separazione alla fine del Settecento e sull’iniziativa delle donne cf. Luca De Biase, Problemi e osservazioni sul divorzio nel patriziato veneto del secolo XVIII: un tentativo di analisi storica seriale, «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», 140, 1981-1982, pp. 143-162; Elisabetta Baldassarre, Il matrimonio sotto processo: il divorzio a Venezia all’inizio dell’Ottocento (1803-1815), tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1990-1991.
34. Giovanni Scarabello, Aspetti dell’avventura politica della municipalità democratica, in Venezia e l’esperienza ‘democratica’ del 1797, a cura di Stefano Pillinini, Venezia 1997, p. 35 (pp. 25-47).
35. G. Ricchi, Sull’influenza che possono avere le donne, p. 16.
36. Verbale della seduta del 16 termidoro in Prospetto delle sessioni della Società d’Istruzione Pubblica di Venezia, Venezia 1797, p. 197. Zalivani era intervenuto sulla questione anche nella seduta del 14 termidoro (ibid., p. 188) e del 19 termidoro (ibid., p. 211).
37. L’informazione relativa agli applausi della sala è data da Annetta Vadori (Discorso della cittadina Annetta Vadori pronunciato nella Società di Pubblica Istruzione in occasione che fu invitata a pronunciare il giuramento solenne: vivere libera o morire, Venezia 1797, p. 2).
38. Sulla figura e il circolo di Vincenzo Dandolo cf. Michele Gottardi, Vicende e destini dei protagonisti politici, in Venezia e l’esperienza ‘democratica’ del 1797, a cura di Stefano Pillinini, Venezia 1997, pp. 141-152.
39. Cit. in Guido Bustico, Il salotto milanese di un’aspasia veneziana del periodo napoleonico, «Nuovo Archivio Veneto», 33, 1917, p. 372 (pp. 370-378). Si tratta di uno dei pochissimi scritti sulla sua biografia, ancora largamente da ricostruire. Guido Bustico è biografo del marito, Mattia Butturini.
40. La vita di Annetta Vadori appare straordinariamente avventurosa, contraddistinta da una grande libertà di scelta e di movimento. Divorzia dal marito nel 1805 per sposare Giovanni Rasori, conosciuto a Pavia, da cui però si separa quasi subito per seguire a Pisa Tommaso Gallino (presidente della Corte d’appello di Venezia). La troviamo tra i rifugiati cisalpini a Parigi, dove frequenta la madre di Napoleone. Poi di nuovo a Milano, dove tiene un importante salotto e dove si ricongiunge con l’amica veneziana Cecilia Tron. Muore a Napoli, in miseria, nel 1832. Sulla figura di Giovanni Rasori cf. Giorgio Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia, Roma-Bari 1987, pp. 257-310.
41. Michela De Giorgio ricorda che ancora alla fine dell’Ottocento per le donne «non è conquista facile prender la parola pubblicamente, su un podio» (Michela De Giorgio, Le italiane dall’Unità ad oggi. Modelli culturali e comportamenti sociali, Roma-Bari 1992, p. 397).
42. Discorso della cittadina Annetta Vadori, p. 3.
43. La lettera si trova in A.S.V., Municipalità Provvisoria, b. 87. Anche in questo caso risulta estremamente difficile identificare la destinataria dello scritto, che viene nominata con il solo cognome, senza alcun altro termine di riferimento.
44. Ibid. Si tratta di un appello che il Comitato d’istruzione pubblica sottopone alla Municipalità provvisoria per la promulgazione, il giorno 9 fruttifero (29 agosto 1797).
45. Per farsi un’idea di quali fantasmi potesse suscitare l’immaginario di un mondo in cui le donne non fossero sottomesse, basta leggere il Discorso sopra li divorzi veneti (Venezia 1797) dove con toni apocalittici si tratteggia un mondo alla rovescia, di «poveri mariti» abbandonati da mogli libere, ricche e dissolute, «ridotti» ad occuparsi dei figli. Ironico e divertente, ma sempre all’interno di questo immaginario di una rivoluzione sessuale che si traduce in una libertà dei costumi e dei rapporti sessuali, è anche il testo della poesia Canzonetta ironica per le cittadine, Venezia 1797.
46. Bruno Rosada, La formazione del pensiero politico di Ugo Foscolo e le origini dell’ideologia patriottica italiana, in Venezia e l’esperienza ‘democratica’ del 1797, a cura di Stefano Pillinini, Venezia 1997, p. 94 (pp. 73-97).
47. La causa delle donne. Discorso agli italiani della cittadina ***, Venezia 1797, p. 16. Per un’analisi di questo testo cf. Annarita Buttafuoco, La causa delle donne. Cittadinanza e genere nel triennio ‘giacobino’ italiano, in Modi di essere. Studi, riflessioni, interventi sulla cultura e la politica delle donne, in onore di Elvira Badaracco, Bologna 1991, pp. 79-106.
48. La causa delle donne. Discorso, p. 2.
49. Ibid., p. 13.
50. Ibid.
51. «L’autore non intende impossibile la riforma delle donne per parte delle medesime, ma bensì per parte degli uomini, i quali o non vogliono o non permettono loro di esser riformate»; cit. in Elisabetta Caminer Turra (1751-1796). Una letterata veneta, p. 51.
52. Di questo parere sono sia G. Pillinini, 1797: Venezia giacobina, p. 91 («Di particolare interesse un opuscolo […] apparso anonimo, ma quasi sicuramente composto da una donna, Annetta Vadori»), sia Pia Zambon, Satire, invettive, discorsi a Venezia durante la Democrazia (1797), «L’Archivio Veneto-Tridentino», 3, 1927, p. 127. Anche nella biblioteca del Museo Correr lo scritto è schedato sotto la voce «Vadori». La Buttafuoco invece prende le distanze da questa attribuzione senza peraltro avanzarne altre: A. Buttafuoco, Straniere in patria, pp. 119-120.
53. Discorso al bel sesso veneto, p. 3 (il corsivo è mio).
54. Cf. su questo passaggio Alvise Zorzi, Venezia austriaca (1798-1866), Roma-Bari 1985.
55. Cf. su questo V. Malamani, Giustina Renier Michiel,p. 24.
56. Le isole della laguna di Venezia rappresentate e descritte, Venezia 1828. Giustina Renier Michiel scrive la parte dedicata a S. Lazzaro degli Armeni.
57. Giustina Renier Michiel, Origine delle feste veneziane, I, Venezia 1817, p. XV.
58. Ibid., p. XXXV.
59. L’episodio è raccontato sia da V. Malamani, Giustina Renier Michiel, che da R. Renier, Giustina Renier Michiel.
60. S. Soldani, Donne della nazione, p. 91.
61. Mi riferisco in particolare al catalogo della recente mostra Venezia Quarantotto. Episodi, luoghi e protagonisti di una rivoluzione 1848-49, a cura di Giandomenico Romanelli-Michele Gottardi-Franca Lugato-Camillo Tonini, Milano 1998. Scarso di informazioni e rilevanze era anche il catalogo della mostra precedentemente organizzata: cf. Adolfo Bernardello-Piero Brunello-Paul Ginsborg, Venezia 1848-49. La rivoluzione e la difesa, Venezia 1979. Per qualche informazione generale su queste donne bisogna risalire allo scritto di Raffaello Barbiera, Donne e madonne dell’Ottocento. Con 55 illustrazioni, Milano 1927.
62. Così scrive anche A. Zorzi, Venezia austriaca, p. 82.
63. Il conte e la contessa Giustinian, «Il Tempo», 6 aprile 1888, ripubblicato in Alla memoria del Conte Giustinian, patrizio veneto, senatore del regno nel primo anniversario della sua morte, Venezia 1889, p. 76 (opera pubblicata in occasione dell’anniversario della morte del conte, primo sindaco di Venezia italiana, che presenta una interessante raccolta di articoli di giornali su Giovanni Battista Giustinian e la moglie Elisabetta).
64. Ibid.
65. «La Perseveranza», 4 aprile 1888, ripubblicato ibid., p. 98, e «Capitan Fracassa», 5 aprile 1888, ibid., p. 164.
66. Cf. Raccolta per ordine cronologico di tutti gli atti, decreti, nomine, ecc. del Governo provvisorio della repubblica veneta, nonché scritti, desideri, ecc. di cittadini privati, I-VIII, Venezia 1848-1849: I, pt. 2, p. 434. Il testo è riprodotto nell’importante raccolta di fonti curata da Piero Brunello, Voci per un dizionario del Quarantotto. Venezia e Mestre marzo 1848 agosto 1849, Venezia 1999, p. 81.
67. Sulla guardia civica cf. Adolfo Bernardello, La Guardia civica, in Venezia Quarantotto. Episodi, luoghi e protagonisti di una rivoluzione 1848-49, catalogo della mostra, a cura di Giandomenico Romanelli-Michele Gottardi-Franca Lugato-Camillo Tonini, Milano 1998, pp. 42-45.
68. Cf. per queste notizie biografiche Pietro Rigobon, Gli eletti nelle assemblee veneziane del 1848-’49, Venezia 1950.
69. Il documento è riportato integralmente in A. Bernardello-P. Brunello-P. Ginsborg, Venezia 1848-49, p. 161.
70. Simonetta Soldani scrive: «A differenza di ciò che era avvenuto nella Francia rivoluzionaria, nel Quarantotto italiano non ci fu nessuna donna che invocasse un corpo di amazzoni o di guardia nazionale femminile» (S. Soldani, Donne della nazione, p. 92).
71. P. Brunello, Voci per un dizionario, p. 82.
72. Raccolta per ordine cronologico di tutti gli atti, I, pt. 2, p. 522.
73. «Il Gobbo di Rialto. Giornale critico-politico-umoristico urbano», 4 marzo 1849, p. 6.
74. La cittadina Irene Ferrari, Alla cittadina Maria Graziani, in Raccolta per ordine cronologico di tutti gli atti, decreti, nomine, ecc. del Governo provvisorio della repubblica veneta, nonché scritti, desideri, ecc. di cittadini privati, I-VIII, Venezia 1848-1849: I, pt. 2, p. 523 (12 aprile 1848).
75. Londa Schiebinger, Nature’s Body. Gender in the Making of Moderne Science, Boston 1993.
76. Giuseppe Giuriati, Un progetto alle cittadine di Venezia, «L’Indipendente. Giornale politico italiano», 14 aprile 1848.
77. «Dite a tutti e singolarmente al gentile sesso vostro: si soffre, accorriamo! Ed avrete letti, lenzuola, calzoni, mantelli, soprattutto di cui abbiamo grandissimo bisogno». Cit. in P. Brunello, Voci per un dizionario, p. 83.
78. Niccolò Tommaseo, La donna. Scritti vari editi ed inediti, Milano 1868. Per un’analisi del pensiero di Tommaseo cf. Giorgio Petrocchi, L’immagine della donna in Tommaseo, in L’educazione delle donne: scuole e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento, a cura di Simonetta Soldani, Milano 1989, pp. 393-404; M. De Giorgio, Le italiane, pp. 8-10.
79. Cit. in P. Brunello, Voci per un dizionario, p. 85. Su questo modello e la sua persistenza nel «canone risorgimentale» cf. anche Alberto M. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Torino 2000.
80. «Le sottoscrizioni sono già in gran numero, di modo che quand’anche, e Dio non voglia, fossero frequenti i feriti, nessuno rimarrebbe senza un affettuoso soccorso. Non tutte però sono iscritte o possono iscriversi in quel ruolo. […] Si propone dunque a queste e ad altre che volessero dimostrar come anche in esse è possente l’amor di patria di spogliarsi di qualche monile o qualunque altro ornamento d’oro, offrendolo al Governo Provvisorio di questa città», Una Madre, Alle donne veneziane, in Raccolta per ordine cronologico di tutti gli atti, decreti, nomine, ecc. del Governo provvisorio della repubblica veneta, nonché scritti, desideri, ecc. di cittadini privati, I-VIII, Venezia 1848-1849: I, pt. 2, p. 581 (16 aprile 1848).
81. Cit. in P. Brunello, Voci per un dizionario, p. 82.
82. Cf. Società Pia delle donne Veneziane. Amministrazione dello scosso e spese pel soccorso di feriti e malati militari per l’indipendenza italiana, dal maggio a tutto dicembre, Venezia 1849. Le tre «preposte» sono Elisabetta Michiel Giustinian, Antonietta Dal Cerè Benvenuti e Giulietta Coen.
83. Questi sono alcuni dei nomi delle ventinove donne che sottoscrivono il 1° febbraio 1849 l’impegno pubblico di sostenere la Repubblica con una sottoscrizione mensile, lanciando un appello in tal senso a tutta la popolazione veneziana (cf. Circolare di alcune gentili pietose donne veneziane per promuovere una sottoscrizione allo scopo di dare alla Patria una offerta mensile, in Raccolta per ordine cronologico di tutti gli atti, decreti, nomine, ecc. del Governo provvisorio della repubblica veneta, nonché scritti, desideri, ecc. di cittadini privati, I-VIII, Venezia 1848-1849: VI, p. 6).
84. «L’animato drappello è composto di poche donne della nobiltà, assorellate a moltissime cittadine anche di mediocre censo, non nobili di nome, ma di fatto; e queste ultime formano il maggior numero della pia schiera confortatrice» (Un Soldato Italiano, Delle donne veneziane, ibid., IV, p. 170).
85. Cf. su questo A. Bernardello-P. Brunello-P. Ginsborg, Venezia 1848-49, p. 63.
86. P. Brunello, Voci per un dizionario, p. 340.
87. «Il Circolo delle Donne Italiane» (1848) veniva stampato tre volte alla settimana; usciva il martedì, il venerdì e la domenica. È conservato in Venezia, Museo Correr. È riproposto anche in L. Pisano, Giornalismo politico delle donne italiane. A proposito delle riviste femminili pubblicate nel ’48 cf. anche Giovanna Fiume, Due giornali femminili del ’48 siciliano, «Nuovi Quaderni del Meridione», 64, 1978, pp. 394-417; S. Soldani, Donne della nazione, pp. 99-100.
88. «Il Circolo delle Donne Italiane», 26 settembre 1848.
89. Ibid.; si noti infatti la ripresa del termine «causa delle donne», come riferimento implicito al testo del 1797.
90. Alla cittadina Teresa Manin, ibid., 1° ottobre 1848.
91. Cf. Maria Pia Roggiero, La donna e la sua emancipazione nel pensiero di Mazzini, Bologna 1986.
92. Luigia Codemo, La rivoluzione in casa, Venezia 1869.
93. «È d’uopo far conoscere a tutta l’Italia, all’Europa tutta che uno solo in questa nostra Venezia è lo spirito e manifesto di ardere tutto quanto sull’altar della patria, piuttosto che veder tutto quanto tra le ugne dello straniero che con amaro sogghigno a noi forse specialmente darebbe in tristo ricambio beffe e offese» (Circolare di alcune gentili pietose donne veneziane).
94. Cit. in P. Brunello, Voci per un dizionario, p. 83.
95. Sul giornale «La Donna», oltre al classico testo della Pieroni Bortolotti, cf. Giovanna Biadene, Solidarietà e amicizia: il gruppo de «La donna» (1870-1880), «Nuova DWF», 10-11, gennaio-giugno 1979, pp. 48-80; Liviana Gazzetta, L’emancipazione giustificata, «Storia e Cultura», 2, 1992, nrr. 7-8, pp. 39-43 e Ead., Madre e cittadina. Una concezione dell’emancipazione alle origini del primo movimento politico delle donne in Italia, «Venetica», 11, 1994, nr. 3, pp. 133-161.
96. Sulla superiorità morale delle donne contrapposta al potere reale cf. M. De Giorgio, Le italiane, pp. 10-28; A. Rossi Doria, Le idee del suffragismo, pp. 291-301. Per un’analisi della svalutazione della politica rispetto alla sfera religiosa nei paesi cattolici e sul legame donne-preti cf. Luisa Accati, Il mostro e la bella. Padre e madre nell’educazione cattolica dei sentimenti, Milano 1998.
97. Albo Cairoli. Ad Adelaide Cairoli le donne italiane, a cura di Gualberta Beccari, Padova 1873. Cf. su questo Rosanna De Longis, Maternità illustri. Dalle madri illuministe ai cataloghi ottocenteschi, in Storia della maternità, a cura di Marina D’Amelia, Roma-Bari 1997, pp. 184-207. Sui medaglioni delle madri e delle mogli di patrioti cf. anche Annarita Buttafuoco, Vuoti di memoria. Sulla storiografia politica in Italia, «Memoria. Rivista di Storia delle Donne», 31, 1991, pp. 61-72.
98. Sull’enfatizzazione della figura materna e la separazione tra pubblico e privato cf. in partic. Yvonne Knibiehler-Catherine Fouquet, L’histoire des mères. Du moyen âge à nos jours, Paris 1980; La vita privata. L’Ottocento, a cura di Michelle Perrot, Roma-Bari 1988; Giovanna Fiume, Nuovi modelli e nuove codificazioni: madri e mogli tra Settecento e Ottocento, in Storia della maternità, a cura di Marina D’Amelia, Roma-Bari 1997, pp. 76-110; Madri. Storia di un ruolo sociale, a cura di Giovanna Fiume, Venezia 1995.
99. Cf. su questo in partic. Fare gli italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, a cura di Simonetta Soldani-Gabriele Turi, I-II, Bologna 1993.
100. Angela Nardo Cibele, Istruzione e lavoro, Venezia 1871, p. 8.
101. Raffaello Lambruschini, Sull’utilità della cooperazione delle donne bennate nel buon andamento asili d’infanzia [1834], in Scritti pedagogici di Raffaello Lambruschini, a cura di Guido Verucci, Torino 1974, pp. 141-150.
102. Cf. su questo Simonetta Soldani, Nascita della maestra elementare, in Fare gli italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, a cura di Ead.-Gabriele Turi, I-II, Bologna 1993: II, pp. 67-129, e Ileana Porciani, Sparsa di tanti triboli: la carriera della maestra, in Le donne a scuola. L’educazione femminile nell’Italia dell’Ottocento, a cura di Ead., Firenze 1987, pp. 170-190.
103. Cf. per la realtà veneziana Liviana Gazzetta, ‘Il ben ammaestrare i fanciulli è riformare il mondo’. Gli istituti educativi cattolici nell’Ottocento, in La scoperta dell’infanzia. Cura, educazione e rappresentazione. Venezia 1750-1930, a cura di Nadia M. Filippini-Tiziana Plebani, Venezia 1999, pp. 127-140. Per uno sguardo più generale cf. Tina Tomasi, L’educazione infantile tra Chiesa e Stato, Firenze 1978.
104. Annarita Buttafuoco, La filantropia come politica. Esperienze dell’emancipazionismo italiano nel Novecento, in Ragnatele di rapporti. ‘Patronage’ e reti di relazione nella storia delle donne, a cura di Lucia Ferrante-Maura Palazzi-Gianna Pomata, Torino 1988, pp. 166-187; Ead., Le Mariuccine. Storia di un’istituzione laica. L’asilo Mariuccia, Milano 1985.
105. Cf., su Adele Della Vida Levi, Valeria Benetti Brunelli, Il primo giardino d’infanzia in Italia. Adele Levi della Vida, «Rivista Pedagogica», 24, 1931, pp. 36-64 e pp. 198-365 (Benetti Brunelli ha avuto l’opportunità di consultarne l’archivio personale, conservato dalla nipote Maria Montesano, oggi perduto), e Nadia M. Filippini, ‘Come tenere pianticelle’. L’educazione della prima infanzia: asili di carità, giardinetti, asili per lattanti, in La scoperta dell’infanzia. Cura, educazione e rappresentazione. Venezia 1750-1930, a cura di Ead.-Tiziana Plebani, Venezia 1999, pp. 91-112.
106. Cit. in V. Benetti Brunelli, Il primo giardino d’infanzia, p. 51.
107. Programma per la fondazione d’un giardinetto infantile, Venezia 1° aprile 1869, in Udine, Biblioteca Civica, Fondo Pick, ms. 1875. Il programma a stampa è sottoscritto da: Maria Zen Brisighella, Luigia Molinelli Franceschi, Anna Righetti Rosada, Adele Trieste Sacerdoti, Antonio Berti, Angelo Minich, Adolfo Pick, Giorgio Politeo, A. Unger.
108. Adele Levi, Educazione nuova. Raccolta di racconti e canzoni ad uso del giardinetto infantile di Venezia, Milano 1873; Ead., Relazione sul giardinetto infantile situato nella contrada dei Santi Apostoli di Venezia, Roma 1873; Jack London, Jerry delle isole (Jerry of the Islands), trad. it. di Adele Levi, Milano 1845. Sulla letteratura per l’infanzia e le sue scrittrici cf. Tiziana Plebani, Il bambino nella storia della lettura. Dalla biblioteca dell’oralità al catalogo delle letture, in La scoperta dell’infanzia. Cura, educazione e rappresentazione. Venezia 1750-1930, a cura di Nadia M. Filippini-Tiziana Plebani, Venezia 1999, pp. 167-181.
109. L’asilo contava, già nel 1872, cinquantuno alunni (cf. A. Levi, Relazione, p. 5). La relazione di Aristide Gabelli e stralci della lettera del ministro sono pubblicati sul giornale «La Stampa» del 25 ottobre 1872.
110. Adolfo Pick, Discorso del X anno, in Duilio Gasparini, Adolfo Pick. Il pensiero e l’opera con una scelta di scritti sull’educazione, II, Firenze 1970, p. 141.
111. Su Elena Raffalovich Comparetti cf. Clotilde Barbarulli, La ricerca ‘straordinaria’ di Elena Raffalovich Comparetti, in L’educazione delle donne: scuole e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento, a cura di Simonetta Soldani, Milano 1989, pp. 325-444.
112. Cit. in N.M. Filippini, ‘Come tenere pianticelle’, p. 100.
113. Cit. in Storia di Elena attraverso le lettere (1863-1884), a cura di Elisa Frontali Milani, Torino 1980, p. 109.
114. Ibid., p. 110.
115. Ibid., pp. 108-109.
116. Sul movimento delle donne socialiste in Venezia cf. Nadia M. Filippini, ‘Su compagne!’. Lavoro e lotte delle donne dall’Unità al fascismo, in Cent’anni a Venezia. La Camera del lavoro 1892-1992, a cura di Daniele Resini, Venezia 1992, pp. 247-262, e Maria Teresa Sega, ‘Compagne di lotta, maestre di civiltà’. Il movimento delle lavoratrici a Venezia nel primo Novecento, «Venetica», 11, 1994, nr. 3, pp. 59-100.
117. Per una rassegna dei romanzi di Luigia Codemo di Gerstenbrand cf. Oscar Greco, Bibliografia femminile italiana del XIX secolo, Milano 1875 e Anita Zagaria, Codemo, Luigia, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXVI, Roma 1982, pp. 583-585.
118. Gli atti dell’inchiesta sugli asili, promossa dopo una conferenza di Adolfo Pick all’Ateneo del 1868, sono conservati nel fondo archivistico dell’Ateneo Veneto, Memorie e Studi, cat. IV, 1869-70, fasc. 24, b. 35.
119. Cf. N.M. Filippini, ‘Come tenere pianticelle’, p. 100.
120. Laura Goretti Veruda, Nozioni sulla pesca e sulla nomenclatura navale ad uso delle scuole elementari del Comune, Venezia 1873; Ead., Prime idee sull’uomo, gli animali, le piante e prime nozioni di geografia per i fanciulletti degli asili d’infanzia, Venezia 1870. Cf. anche N.M. Filippini, ‘Su compagne!’, p. 250.
121. Comune di Venezia, Rilievo degli abitanti di Venezia 1869 per religione, condizioni, professioni, arti e mestieri, Venezia 1871. Cf. anche N.M. Filippini, ‘Su compagne!’, p. 250.
122. Cf. Atti dell’VIII Congresso pedagogico e della IV esposizione didattica, pubblicati a spese del Municipio, Venezia 1873.
123. «La signora Fusinato accettando quel seggio acconsentiva tacitamente di farsi difenditrice dei diritti femminili», cit. in L. Gazzetta, Madre e cittadina, p. 149.
124. Nel contratto sottoscritto con il Comune per la creazione del giardino d’infanzia, Elena Raffalovich Comparetti aveva inserito anche la clausola relativa all’attivazione di questi corsi per maestre ‘giardiniere’ presso palazzo Vivante (cf. N.M. Filippini, ‘Come tenere pianticelle’, p. 101).
125. Rosa Piazza, Della educazione ed istruzione della donna italiana, Padova 1870 (la copia conservata presso l’Ateneo Veneto è quella da lei donata ad Elisabetta Michiel Giustinian, come risulta dalla dedica scritta in copertina, ad ulteriore dimostrazione dei rapporti intercorrenti tra queste donne impegnate sul terreno dell’emancipazione). Sul metodo froebeliano aveva scritto I giardini froebeliani, Padova 1874, adoperandosi per la fondazione di un giardinetto a Padova. Nel 1876 aveva scritto anche La strenna delle giovanette. Anno I, Venezia 1876. Su Rosa Piazza cf. l’interessante saggio di Maria Pezzè Pascolato, Rosa Piazza, Venezia 1914.
126. Angelina Nardo, Lettera ad una madre sulle idee educatrici di Froebel, Venezia 1878; Ead., Una festa al giardinetto infantile ‘Vittorino da Feltre’, «La Donna», 25 agosto 1874; Ead., Inaugurazione in Venezia del II giardinetto infantile, Lettera, 12 febbraio 1871. Anche Adele Cairoli aveva dato vita ad un asilo froebeliano a Roma nel 1872. Sull’impegno delle donne a livello nazionale nella fondazione degli asili froebeliani cf. anche T. Tomasi, L’educazione infantile, pp. 80-94.
127. «Mamma. Giornalino educativo per i nostri ragazzi» (1876-1892). Cf. su questo L. Gazzetta, Madre e cittadina, p. 146.
128. Angelina Nardo Cibele, Conferenze gratuite per l’istruzione femminile in Venezia, Treviso 1871 (estratto da «L’Archivio Domestico»).
129. Indirizzo e ricordo offerto al professore Adolfo Pick dalle signore che frequentarono il corso delle conferenze scientifico-letterarie, in Udine, Biblioteca Civica, Fondo Pick, ms. 1974.
130. Anna Mander Cecchetti, Agli onorevoli professori che impartirono le lezioni di scienza popolare nel giardino froebeliano ‘Vittorino da Feltre’, «La Donna», 15 agosto 1871. Mander Cecchetti appartiene al filone fecondo delle patriote-poetesse (cf. su questo Giulia Sanson, Il risorgimento italiano e la poesia patriottica femminile, «Rassegna Nazionale», 1, 16 maggio 1913, pp. 196-226; 1° giugno 1913, pp. 391-418).
131. Sulla scuola del merletto di Burano cf. Alessandra Mottola Molfino, I merletti della scuola di Burano tra Ottocento e Novecento, in Comune di Venezia - Consorzio dei merletti di Burano - Fondazione A. Marcello, La scuola dei merletti di Burano, catalogo della mostra, Venezia 1981, pp. 37-56.
132. Cf. M. Pezzè Pascolato, Rosa Piazza, p. 5.
133. Le leggi del mercato imponevano una logica assai diversa da quella suggerita dal modello femminile borghese, così mentre da un lato si codificavano i doveri materni all’interno di un più stretto legame madre-figlio, dall’altra si impiegavano le madri povere nelle fabbriche, caricando l’occupazione extradomestica di elementi di colpevolizzazione che meriterebbero una più attenta analisi storica. Sullo sviluppo industriale e le fabbriche femminili a Venezia cf. N.M. Filippini, ‘Su compagne!’, e il saggio di Maria Teresa Sega in questi volumi.
134. Su iniziativa e con il sostegno economico di Paolo e Nella Errera, nel 1910 (cf. Asilo per i bambini lattanti e slattati G.B. Giustinian in Venezia. Memoria presentata alla esposizione internazionale di igiene sociale in Roma, Venezia 1911). Cf. su questo N.M. Filippini, ‘Come tenere pianticelle’, pp. 103-108.
135. Sulle colonie e gli ospizi marini a Venezia cf. Donatel;la Bartolini, I luoghi dell’infanzia malata. Istituti di cura e di assistenza, in La scoperta dell’infanzia. Cura, educazione e rappresentazione. Venezia 1750-1930, a cura di Nadia M. Filippini-Tiziana Plebani, Venezia 1999, pp. 77-87.
136. Cf. su questo F. Pieroni Bortolotti, Alle origini del movimento femminile, pp. 104 e 166.
137. Si tratta di un documento manoscritto, senza data né firma, ma sicuramente steso dal patriarca, vista la delibera finale. È conservato in mezzo ad altri incartamenti dell’anno 1839 nel fascicolo degli asili di carità presso l’Archivio della curia di Venezia. Vi si commenta un testo anonimo sugli asili premesso ad una riedizione dello scritto di Lambruschini (Venezia, Archivio Storico del Patriarcato, Opere Pie, b. 13).
138. «Sotto il pretesto che le madri popolane vengono in questa guisa abituate a non curarsi della loro prole» (Elisabetta Michiel Giustinian-Cesare Musatti, L’asilo lattanti in Venezia nell’anno 1880, «L’Igiene Infantile», 3, 1° febbraio 1881, nr. 13, pp. 97-99).
139. Cit. in N.M. Filippini, ‘Come tenere pianticelle’, p. 101.
140. Giovanni Battista Paganuzzi era presidente del circolo della Gioventù Cattolica, prima di essere eletto consigliere comunale. Dal 1889 al 1902 è presidente del Comitato permanente dell’Opera dei Congressi. Sulla sua figura cf. Bruno Bertoli, Le origini del movimento cattolico a Venezia, Brescia 1965, pp. 325-385, e Id., Il movimento cattolico, in La Chiesa veneziana dal 1849 alle soglie del Novecento, a cura di Gabriele Ingegneri, Venezia 1987, pp. 165-188.
141. «Paganuzzi lo crede pericoloso [il metodo froebeliano] per le sue tendenze ed a riprova di ciò afferma che nella Prussia e nella Sassonia le scuole fondate con quel sistema furono abolite. I motivi pei quali lo ritiene pericoloso sono nel fondo le tendenze al materialismo ed ateismo, quantunque inorpellate in alcuni giardini e da alcuni maestri con qualche formula religiosa perché la cosa passi inosservata e così si faccia strada la teoria nella quale si personifica il concetto fondamentale nella sua purezza, ciò che costituisce pericolo grave per l’educazione» (Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Verbale di deliberazione del Consiglio Comunale di Venezia. Sessione ordinaria di primavera. Seduta del 24 marzo 1882, p. 96).
142. Cf. su questo N.M. Filippini, ‘Su compagne!’.