fatica
La fatica come conseguenza necessaria del movimento
Il termine fatica è solo in parte scientifico: nella quotidianità è infatti così utilizzato da sovrapporsi nei suoi significati a quelli strettamente medici e risultare quindi ambiguo nella descrizione dei sintomi da parte di un paziente. Esiste infatti una percezione di fatica intesa come debolezza dovuta ad attività sia fisica che mentale, e una fatica come oggettiva espressione di un declino della capacità di produrre forza a seguito di attività muscolare. In questo senso si distingue la fatica dalla debolezza: la prima deriva da un declino, durante l’attività fisica, della forza prodotta, la seconda esprime una ridotta capacità di produrre forza, indipendente dall’attività fisica precedentemente prodotta. Inoltre, va anche distinta la fatica dall’astenia, in cui il paziente mostra una scarsa inclinazione all’attività fisica e mentale. Si può quindi caratterizzare il concetto di fatica come indissolubilmente legato allo svolgimento di attività fisica, il cui procedere si accompagna a un diminuire della performance muscolare. Situazioni in cui la fatica si manifesta in modo eccessivo e dunque patologico sono stati di malattia legati a disturbi neurologici o muscolari, oppure a problemi neuromuscolari, quali la miastenia, in cui la grande affaticabilità è dovuta a un difetto della giunzione neuromuscolare.
La fatica è causata da molteplici cause che si possono verificare a livello della cellula muscolare, della superficie cellulare, del liquido interstiziale extracellulare (per l’accumulo di particolari sostanze prodotte dall’attività muscolare stessa),della giunzione neuro-muscolare, oppure durante la conduzione dei segnali nervosi lungo gli assoni o la formazione di segnali nervosi a livello di circuiti del sistema nervoso centrale.
In tempi recenti, l’attenzione sui fenomeni che generano fatica si è focalizzata sulle sostanze prodotte dall’attività muscolare e che si accumulano, quali acido lattico, potassio e altri elettroliti. Tuttavia, un’attenzione particolare meritano i prodotti di lesione delle fibrocellule muscolari stesse. Durante il movimento appare infatti inevitabile il realizzarsi di microlesioni muscolari, soprattutto con il procedere dell’attività fisica nel tempo e in soggetti non allenati al particolare atto motorio.
Causa prima di queste lesioni sarebbero le contrazioni eccentriche. I nostri muscoli, nel corso della contrazione, tendono ad accorciarsi: per sollevare una valigia si deve contrarre il muscolo bicipite brachiale, che si accorcia, avvicinando così l’avambraccio al braccio e piegando il gomito. Tale contrazione è detta concentrica. Tuttavia ci sono situazioni in cui il muscolo che si contrae deve allungarsi. Situazione tipica e chiara di tale condizione si ha quando si deve posare a terra un oggetto pesante. In questo caso si deve estendere il gomito, così da stendere il braccio e posare l’oggetto. Il movimento è favorito dallo stesso peso che si deve posare, quindi i muscoli (soprattutto il tricipite brachiale) devono lavorare per impedire che l’oggetto cada violentemente trascinato dal suo stesso peso. In questa condizione si utilizza il muscolo come un freno e, nel contrarsi, questo si allunga: si ha quindi una contrazione eccentrica.
Quando un muscolo si accorcia, contraendosi, di solito non ci sono problemi, ma quando si contrae e contemporaneamente si allunga, se la contrazione è eccessiva e la velocità di allungamento elevata, si possono avere lesioni a carico delle fibre muscolari. Queste lesioni possono consistere in microlesioni, distrazioni muscolari, o strappi muscolari.
Le contrazioni eccentriche sono presenti in ogni nostro movimento per ragioni diverse dall’esempio riportato. Ogni movimento utilizza muscoli agonisti in quanto determinano il movimento e muscoli antagonisti in quanto la loro contrazione si oppone al movimento. Se si solleva un peso, il bicipite è agonista, mentre il tricipite è antagonista: il primo flette il gomito, il secondo lo estende. Nel caso di estensione del gomito avviene il contrario: il bicipite diventa antagonista e il tricipite agonista. Durante un qualsiasi movimento l’agonista dovrà compiere il lavoro contraendosi, mentre l’antagonista dovrà essere rilasciato per non ostacolare il movimento. Nella realtà però non è così. È certamente vero che l’agonista compie il lavoro, ma l’antagonista deve, sia pure a bassi livelli, essere attivato per stabilizzare l’articolazione ed evitare che i capi articolari si tocchino o si comprimano, generando così, nel tempo, fenomeni infiammatori (artriti) o fenomeni degenerativi (artrosi). Quindi ogni movimento sarà garantito da muscoli agonisti e dall’attivazione di una vera e propria rete di altri muscoli che controllano la posizione dei capi articolari, anche se in tal modo creano un ostacolo al movimento. Gli agonisti producono una contrazione concentrica, gli antagonisti produrranno una contrazione eccentrica. Se la contrazione degli antagonisti non è ben dosata dal sistema nervoso centrale nel corso del tempo in cui si svolge il movimento e nell’intensità della contrazione, si hanno problemi articolari o muscolari. In quest’ultimo caso, in partic., si ha liberazione di prodotti di lesione, tali da indurre fatica. La stabilizzazione articolare, per la sua complessità di azione, per le conseguenze che può indurre (fatica o, peggio, lesioni articolari o muscolari), costituisce il compito più difficile del sistema nervoso centrale nel gestire il movimento. Ecco dunque la possibilità di errori che aumentano con il progredire dell’attività e della fatica. È anche facilmente intuibile come questi errori siano maggiori nei soggetti inesperti, quindi non allenati in un determinato movimento. Parimenti questi errori diminuiscono in soggetti allenati, con conseguente minore fatica e anche minori rischi di danni muscolari o articolari.