FARSA (fr. farce; sp. farsa; ted. Posse, Schwank; ingl. farce, mimic)
Adoperata per il passato nei più varî significati, la parola oggi designa abitualmente un breve componimento teatrale senza pretese artistiche e che esaurisce il suo compito nel provvedere al fondamentale bisogno umano di alleviare i guai dell'esistenza con momenti di riso spensierato.
Origine del termine. - "Farsa" deriva, attraverso il francese farce, dal lat. farcire: farce (analogamente al lat. satura nel suo significato primitivo) vuol dire altresì mélange de viandes hachées et epicées que l'on met dans l'intérieur de quelque animal rôti, dans des viandes, dans des øufs, ecc. (Littré). Primamente, e ce n'è esempî del sec. VII, la parola farsa o farsia fu adoperata nel latino ecclesiastico di Francia per indicare certe interpolazioni o "infarciture" che in particolari solennità s'introducevano in taluni punti della messa (Kyrieeleison cum farsa, Epistola cum farsia, Epistola farcita), o anche, e ce n'è esempî del sec. VIII, preghiere o inni il cui latino era "infarcito" di parole o versi volgari, come, tra altri, l'"inno all'asino" cantato in parecchie chiese francesi nel celebrare la "festa dell'asino" su cui la Sacra famiglia fuggì in Egitto.
Circa il trapasso della parola dalla chiesa al teatro profano, avvenuto al più tardi nel sec. XIII, per il quale si hanno già notizie di componimenti drammatici recitati da studenti francesi in "latino farcito", esso fu tanto più spontaneo in quanto sul teatro profano appunto si rifugiarono molti ludi via via banditi dai templi (per es., la "festa dei pazzi").
Francia. - Fin dal sec. XII s'incontrano débats, dits, jeux partis, pastourelles e altre sorte di poemetti comici dialogati o, come li si chiamava comprensivamente, jeux (ludi, lusus) - ossia nella sostanza, se non ancora nel nome, farse - i quali, cantati dai trouvères, erano recitati talora all'aria aperta e sotto un albero (jeux de la feuillée). Recitati, per es., ad Arras e altrove furono nel sec. XIII i varî Jeux del poeta, musicista e attore Adam de la Halle (1240 circa-1288 circa), tra i quali spicca l'autobiografico Jeu de la fueillée, in cui - lontano progenitore di Arlecchino - buffoneggia in stile più che farsesco il diavolo chiamato Herlequin Croquesots. A codesti jeux s'aggiunsero e talora si sostituirono nel sec. XIII altri componimenti drammatici, tra i quali - anch'essi, sostanzialmente, farse a spiccate tendenze satiriche - i fabliaux, dai quali si sogliono far derivare, nel sec. XIV, le sotties, le moralités comiche e le farces propriamente dette. Soli caratteri discriminanti (giacché una differenza intrinseca non s'è riuscita mai ad additare), sono, per le sotties, l'essere esse recitate abitualmente dagli Enfants sans souci, vale a dire dai componenti la gaia confraternita dei Sots; per le moralités comiche, l'esplicita confessione d'un fine edificante, il più delle volte appiccicato artificiosamente all'azione; e per le farces o fabulae farcitae, recitate per lo più dai basochiens - ossia dalle corporazioni, non soltanto gaie, dei clercs dei procuratori presso il parlamento di Parigi e altri parlamenti di provincia - l'essere materiate originariamente di continue contaminazioni o "farciture" del latino del Palazzo di giustizia col linguaggio delle strade. E appunto a ignoti basochiens del sec. XV appartengono, fra innumeri farces, Le franc arcier de Bagnolet (stampato, non si sa perché, fra le opere del Villon), i Trois galants et Phlipot (un soldato vigliacco a cui risale il motto proverbiale Vivent les plus forts!) e particolarmente Patelin (1ª ed. conosciuta, Parigi 1490), del quale, è stato detto a ragione che non è farsa, giacché è vera e propria opera d'arte, dotata di vitalità così tenace che, cento volte rifatta, tradotta, adattata, espurgata e guastata, ancora trenta o quarant'anni fa si recitava a Napoli.
L'illimitata libertà di parola concessa da Luigi XII ai basochiens concorse non poco all'immensa diffusione delle farces, che, soppiantate moralités e sotties, passate, tra la seconda metà del secolo decimosesto e la prima metà del decimosettimo, nel dominio di comici di professione e spesso di autori-attori (Gros Guillaume, Gualtier Garguille, Turlupin, Tabatin, ecc.) e accorciatesi definitivamente a un atto solo, cominciarono a vacare all'ufficio, sostenuto in tutta Europa per oltre tre secoli, di mandare esilarati gli spettatori a casa con l'essere soggiunte alle tragedie e anche alle commedie a pretese letterarie. Più volte è stato asserito che il Molière, il quale cominciò la sua vita teatrale con lo scrivere in provincia brevi farse di cui restano titoli e canovacci, restò prevalentemente un farceur, ché farse sono i suoi primi capolavori (Le précieuses, Sganarelle), ché sulla falsariga tracciata dai conteurs e dai farceurs sono composte perfino L'école des maris e L'école des femmes, e via continuando in altrettali affermazioni, nelle quali salvo che non si voglia interpretarle nel senso che il Molière fu il meno "letterato" dei commediografi, si può convenire tanto meno in quanto, se c'è autore comico in cui la comicità si fa umanità e talora tragicità, è precisamente l'autore del Misanthrope e di Tartuffe. Circa la posteriore storia della farsa francese, basterà dire che le farse non furono cacciate dai teatri né nel sec. XVIII dalle commediole di costumi in un atto, allora tanto in voga, né, lungo il sec. XIX, da quel più moderno surrogato della farsa che fu il vaudeville con tutte le sue derivazioni, amplificazioni e degenerazioni (operetta, "rivista", ecc.). Si ricordi, tra le centinaia, La consegna è di russare, recitata per decennî sui palcoscenici di tutta Europa e delizia della nostra fanciullezza.
Italia. - Vi s'incontra primamente la parola "farsa" (importatavi indubbiamente dalla Francia) proprio nella parte che più tardi di altre cominciò ad avere spettacoli teatrali e quasi nel momento stesso che vi si introdussero, vale a dire a Napoli, ove "farsa" fu quasi titolo generico dei non molti componimenti drammatici di cui si ha notizia per la seconda metà del Quattro e la prima del Cinquecento. Tali: 1. le "farse spirituali", ora disperse (probabile imitazione dei "ludi cristiani" della Toscana), recitate in alcune chiese napoletane negli ultimi anni di Alfonso I d'Aragona (1452 segg.); 2. le "farse" allegorico-cortigiane (per lo più un prologo, seguito da monologhi, in endecasillabi col rimalmezzo) scritte per la corte aragonese da anonimi, da un Giosuè Capasso e sopra tutti dal Sannazaro: tipo di farsa che il meridionale Serafino Aquilano portò alla corte mantovana e il napoletano Antonio Ricco a Venezia e forse anche in altre città dell'Italia settentrionale; 3. le "farse" giocose, semidialettali e dialogate di altri napoletani, anonimi tutti, salvo un Pietro Antonio Caracciolo, di cui, tra parecchi frammenti, resta intero Il magico (mago); 4. le "farse cavaiole" (per es., La ricevuta dell'imperatore alla Cava, La maestra dî cucito e, popolarissima, Lo masto de scola, donde derivò la frase, ancora viva, "scola cavaiola"), che fin quasi alla fine del Cinquecento presero a materia comica gli abitanti di quella sorta di Beozia dell'Italia meridionale del tempo che era Cava dei Tirreni, e trovarono un rielaboratore e prosecutore nell'"anticavaiuolo" Vincenzo Braca da Salerno (nato nel 1566, morto dopo il 1625). Farse, del resto, ora buffonesche ora sacre, ora di istrioni popolari ora di letterati, ora senza divisioni sceniche ora ripartite in tre e perfino cinque atti, si ebbero, poco dopo che a Napoli, iri tutta Italia: a Trento, nel 1482, la versione in un volgare semilatino e semiveneto (ricalcato probabilmente sul "latino farcito" dei basochiens) del Ludus ebriorum di Sicco Polentone; a Firenze (ultimi anni del Quattro e primi del Cinquecento) le farse popolari degli autori-attori Bentina, Araldo, Ottonaio, Borlachia e altri, che, come scriveva già il Borghini, "a leggerle non valgono nulla, e in bocca al Borlachia parvero miracoli"; a Siena, le tante recitate nei primi decennî del Cinquecento dalle accademie, con annessi teatri, degl'Intronati, degli Attoniti e segnatamente dei Rozzi; a Pistoia, la Farsa satim morale di Venturino Venturini, anteriore forse all'anno della stampa, che è il 1521; in Piemonte, dirette derivazioni dalle farces francesi, la Farsa di Zoan Zavatino et de Beatrix soa mogliera et del prete ascoso sotto el grometto e altre otto composte sul cadere del sec. XV dall'astigiano G. G. Allione (ristampate nel 1865 dal Daelli); e, sorvolando sulle tante di altre parti d'Italia, e per ricordare, invece, almeno un esempio di farse letterarie, a Firenze ancora, le posteriori farse "spirituali" e "carnevalesche" del Cecchi (I malandrini; La pittura, ecc., e particolarmente La romanesca nel cui prologo è altresì una definizione della farsa). Farsesca nelle apparenze, magari nelle intenzioni dell'autore (e anche principale attore) e, fino a qualche anno fa, nei giudizî degli storici della letteratura, fu l'opera teatrale del Ruzzante, e particolarmente quella del molto più felice primo periodo (1520-1530 circa), consacrato, come tanta parte delle farces francesi del tempo, alla rappresentazione dei costumi dei villani e contadini: salvo che ciò che nelle farces è mera buffoneria e talora satira spietata, diventa in lui fine oggettivazione artistica, nella quale è rivissutto, con profondità pari alla simpatia, quanto, nella pur goffa e comica psicologia contadinesca e villanesca, è umanità, ineluttabilità e qualche volta tragicità. Di codesta umanità mancarono del tutto quei cosiddetti prosecutori del Ruzzante, che, dalla seconda metà del Cinque alla fine del Settecento, furono gl'innumeri attori-autori della commedia dell'arte (v.), la quale, sia nella sua forma primitiva di semplici "ludi zanneschi", sia nell'altra, più progredita, di commedie, improvvisate o semimprovvisate bensì, ma regolarmente sceneggiate, altro non fu che un immenso repertorio (imponente, al certo, per la mole) di farse o, se piace meglio, di commedie buffonesche, prive d'ogni alone di poesia e vivificate soltanto dal virtuosismo, particolarmente mimico, e talvolta, magari, arte, di attori insuperati. Caratteristiche restate in quei surrogati della commedia dell'arte che, cessata questa, divennero generalmente, lungo il sec. XIX (le eccezioni, sebbene talora cospicue, confermano la regola), i teatri dialettali delle varie parti d'Italia con e senza maschere: vivaio abbondantissimo tanto di farse propriamente dette quanto, farse anch'esse, di "commedie tutte da ridere".
Bibl.: Oltre le trattazioni generali sul comico (per es., la Geschichte des Grotesk-Komischen di K. F. Flögel, nuova ed. M. Bauer, Monaco 1914) e sul teatro (per es., la Geschichte der neuern Dramas di W. Creizenach) e quelle sulla storia letteraria e il teatro francesi (per es., l'Histoire de la littérature française di G. Lanson), vedere più particolarmente per l'Italia: A. D'Ancona, Origini del teatro italiano, 2ª ed., Torino 1891; F. Torraca, Studi di storia letteraria napoletana, Livorno 1884; id., Teatro italiano dei secoli XIII, XIV e XV, Firenze 1885; B. Croce, Teatri di Napoli, 3ª ed., Bari 1926, capp. I e II; id., Sul significato storico e il valore artistico della commedia dell'arte, Napoli 1929; id., Intorno alla commedia italiana del Rinascimento, in Critica, XXVIII (1930); id., Conversazioni critiche, III serie, Bari 1932, pp. 169-70, 376-7; F. Nicolini, in F. Galiani, Dialetto napoletano, Napoli 1923; p. 128 segg.