farmacologia
Farmaci equivalenti o generici
I farmaci che entrano in commercio hanno in generale un doppio nome: quello del principio attivo e quello del prodotto. Durante tutto il periodo in cui per un nuovo farmaco è in vigore il brevetto – in generale 20 anni dal riconoscimento del brevetto stesso – esiste un solo prodotto, a meno che la ditta che possiede il brevetto non conceda una licenza ad altre case farmaceutiche. In Italia la prescrizione del farmaco da parte del medico viene fatta con il nome commerciale. Quando il brevetto scade, tutte le case farmaceutiche interessate hanno la facoltà, se lo desiderano, di produrre e vendere lo stesso farmaco utilizzando o meno altri nomi commerciali, oppure possono utilizzare il nome del principio attivo insieme al nome della ditta responsabile della commercializzazione.
I farmaci generici sono così chiamati dall’ingl. generics, che però in italiano dà l’impressione non corretta di un farmaco poco specifico e comunque meno efficace. La traduzione più logica del termine generic dovrebbe essere «equivalente»; si dovrebbe dunque parlare di farmaci equivalenti. Questi devono essere eguali – nei limiti della variabilità analitica – ai farmaci con il marchio; in partic., devono prevedere la stessa dose di principio attivo e la stessa posologia; il principio attivo deve avere la stessa purezza e le impurezze devono essere caratterizzate. Se si tratta di compresse o comunque di preparazioni per via orale, la velocità di dissoluzione deve essere simile a quella dei prodotti di riferimento. Infine, i farmaci equivalenti devono essere sottoposti a prove di bioequivalenza: la somministrazione per via orale deve dar luogo a concentrazioni ematiche del principio attivo sovrapponibili a quelle ottenibili con il prodotto standard; deve esserci esatta corrispondenza tra i metaboliti, nel caso in cui questi siano responsabili dell’efficacia del principio attivo. Per diminuire la variabilità individuale, i paragoni fra farmaco equivalente e farmaco di riferimento devono essere eseguiti sugli stessi soggetti. Se il principio attivo ha la stessa purezza e il prodotto farmaceutico mostra la stessa velocità di dissoluzione e dà luogo alle stesse concentrazioni ematiche, l’efficacia del farmaco equivalente è identica a quella del prodotto originale. Il vantaggio del farmaco equivalente è rappresentato dal minor costo che, secondo la legge italiana, deve essere almeno del 20% rispetto al prodotto originale. Si tratta di una importante riduzione della spesa farmaceutica a carico del Servizio sanitario nazionale ed anche del cittadino, nel caso di farmaci non rimborsabili.
In Italia, per varie ragioni, i farmaci equivalenti hanno grande difficoltà ad affermarsi, contrariamente a quanto è avvenuto in altri Paesi. In primo luogo esiste un preconcetto, sostenuto dalle parti interessate, riguardante il costo, secondo il discutibile criterio che «se costa di meno deve essere meno attivo», un preconcetto che assume particolare significato quando si tratta della salute. Le parti interessate sono: l’industria farmaceutica, che vede diminuire i suoi margini di profitto perché perde frazioni di mercato ed è quindi obbligata a diminuire il prezzo del prodotto di marca per non perdere di competitività; il farmacista che, essendo retribuito sulla base di una percentuale del prezzo, vede diminuire i suoi guadagni, il medico, che vede scalfito il suo diritto di decidere quale prodotto debba essere assunto dal paziente.
È anche diffusa la credenza che i pazienti che usano il farmaco generico non trovino gli stessi benefici. È molto difficile che questo preconcetto abbia un riscontro oggettivo, per le ragioni sopra ricordate; è tuttavia possibile che, soprattutto nei soggetti anziani, l’abitudine – per i farmaci prescritti in modo cronico – ad assumere un prodotto di una certa forma, di un certo colore, contenuto in una confezione bene definita, possa indurre la sensazione di una minor efficacia o di un maggior numero di effetti collaterali qualora cambino l’etichetta e la confezione del prodotto. A volte si invocano, a giustificazione di supposte differenze con il prodotto di marca, le caratteristiche fisiche del principio attivo, oppure le caratteristiche degli eccipienti, come fattori che influiscono nella diminuzione dell’efficacia del generico. In realtà, spesso il principio attivo per i farmaci equivalenti deriva dallo stesso produttore che fornisce il prodotto di marca. Recentemente sono stati eseguiti alcuni studi sulla intercambiabilità di farmaci di uso comune, comparando non solo le concentrazioni ematiche di farmaci equivalenti e di marca, ma anche gli effetti farmacologici. Gli studi condotti in doppio cieco, in modo che né pazienti, né medici fossero al corrente del farmaco assunto, hanno stabilito che non esistono differenze statisticamente significative fra i due tipi di prodotto.
Infine, una ragione per cui i farmaci equivalenti non hanno ancora un ruolo importante nella spesa farmaceutica in Italia dipende dalla presenza dei cosiddetti certificati complementari di prolungamento che negli anni Novanta del secolo scorso hanno prolungato la durata dei brevetti farmaceutici per risarcire le industrie del settore dalla mancata applicazione dei brevetti in Italia per alcuni decenni del dopoguerra. Questo provvedimento ha determinato uno squilibrio fra il numero di farmaci equivalenti degli altri Paesi europei, in cui i brevetti erano scaduti, e l’Italia. Oggi esistono le condizioni legislative per non considerare i farmaci equivalenti diversi dai farmaci di marca. Ferma rimanendo la necessità di eseguire adeguati controlli perché sia i farmaci equivalenti sia quelli di riferimento abbiano, a garanzia dei pazienti, caratteristiche di efficacia e di sicurezza.