Farmacologia clinica
La farmacologia clinica (FC) è una disciplina scientifica che è parte integrante della farmacologia e si occupa dello studio dei farmaci e dei fenomeni che regolano gli effetti da essi indotti nell'organismo umano, con particolare attenzione sia ai meccanismi con cui le variazioni hanno luogo sia agli effetti sulla salute. In conseguenza dell'enorme aumento delle conoscenze accumulatesi sulle cause genetico-molecolari e ambientali delle malattie, e in accordo con le nuove definizioni di salute e malattia che ora inglobano concetti relativi al benessere dell'individuo e alla sua posizione nella società, il ruolo della FC nella ricerca è cambiato, come sono mutati i suoi campi di applicazione e i rapporti con altre discipline. La FC si deve ormai occupare non solo delle leggi e dei meccanismi con cui un farmaco è assorbito, metabolizzato ed eliminato nell'organismo di un singolo individuo, o di quali siano gli effetti sulla salute in selezionati membri di un determinato campione, ma deve studiare l'intero cammino e gli effetti complessi dei farmaci nell'intera popolazione, nell'ambiente e nella società. Quindi la definizione di FC si articola in modo complesso con i nuovi obiettivi e il nuovo contesto.
La farmacologia clinica si occupa della valutazione dell'intera storia di un farmaco, dalla prima somministrazione in un individuo nel suo organismo (farmacocinetica), alla descrizione della frequenza, distribuzione ed effetto nell'intera popolazione (farmacoepidemiologia), passando attraverso la valutazione comparativa del rapporto costo-beneficio di farmaci (ricerca clinica e farmacoeconomica). Estendendo tale concetto dalla popolazione all'ambiente in cui questa vive, sta ora emergendo una nuova disciplina, la ecofarmacologia (EF), che ha già dimostrato di essere in grado di fornire utili informazioni sull'interazione dei farmaci con l'ecosistema in cui viviamo. Infatti, un farmaco, dopo essere stato assunto e metabolizzato, viene escreto ed eliminato nell'ambiente in forma inalterata o attraverso alcuni suoi metaboliti, ed è quindi reperibile in taluni luoghi come il sistema fognario, i fiumi e i laghi. Attraverso analisi campionarie è quindi possibile non solo identificare e quantificare la presenza di un farmaco in luoghi dove dovrebbe o meno essere presente, ma anche, e soprattutto, stimare, attraverso la valutazione della sua quantità e concentrazione, alcuni fenomeni altrimenti difficilmente misurabili. Si veda per esempio il problema della stima dell'abuso di droghe, come la cocaina, nella popolazione generale; data la natura del fenomeno, queste valutazioni sono di solito effettuate attraverso stime indirette, utilizzando dati e informazioni provenienti da fonti diverse, spesso poco affidabili, come statistiche medico-sanitarie, giudiziarie o sociali. Partendo da dosaggi di cocaina e di un suo metabolita, eliminati attraverso le urine, effettuate con tecniche di spettrofotometria di massa in campioni di acqua del fiume Po e da impianti di purificazione di alcune città del Nord dell'Italia, è stato possibile stimare la quantità assoluta di cocaina consumata nel bacino di utenza, il numero di dosi per 1000 abitanti, e il numero di dosi giornaliere per determinate categorie (giovani adulti). Si tratta certamente di una disciplina che, per quanto in evoluzione, ha enormi possibilità di applicazione nella nostra società.
La farmacocinetica studia l'intera vita di un farmaco nell'organismo, dall'assunzione, all'assorbimento e all'escrezione, passando per il suo metabolismo. Questa fase è necessaria in quanto, perché si abbia una risposta appropriata a un farmaco, è necessario che esso sia presente, e in concentrazione adeguata, a livello del sito di azione. La concentrazione appropriata, e quindi la dose e la via di somministrazione, dipendono da molti fattori, alcuni legati al farmaco e altri all'individuo. Mentre i primi si possono variare sperimentalmente, i secondi vanno attentamente presi in considerazione e studiati, in quanto vi è naturalmente una grande specificità tra individui in termini di variabili personali non cliniche, come l'età, il genere sessuale, il peso corporeo, le abitudini alimentari. Divergono inoltre le condizioni cliniche (numero e gravità delle malattie, uso di altri farmaci, ecc.), e spesso vi è anche una notevole variabilità all'interno dello stesso individuo in momenti diversi della giornata o, più in generale, della sua vita.
In pratica, la farmacocinetica studia l'andamento delle modificazioni cui un farmaco e i suoi metaboliti vanno incontro all'interno dell'organismo, dopo l'assunzione attraverso qualunque via di somministrazione, con particolare attenzione al suo assorbimento e disposizione (distribuzione ed eliminazione), in piccoli gruppi di individui, siano essi volontari senza alcuna malattia o pazienti con particolari condizioni morbose. Dopo una precedente valutazione condotta nella fase preclinica in vitro e in vivo, nel contesto di studi di fase 1, in individui molto ben caratterizzati da ogni punto di vista (personale, clinico e sociale), un farmaco viene somministrato sulla base dell'assorbimento e della disposizione che si prevede esso abbia in quel tipo di soggetti, e la posologia può essere regolata controllando la concentrazione plasmatica del farmaco e i suoi effetti farmacologici. Talvolta il dosaggio viene modificato empiricamente finché non si raggiunge l'obiettivo farmacologico o terapeutico desiderato, oppure non compaia una inaccettabile tossicità. Il primo approccio è tipico delle valutazioni di farmacocinetica condotte in volontari sani, il secondo viene invece utilizzato nelle situazioni in cui i volontari appartengono a categorie speciali di pazienti con gravi malattie, come le forme tumorali.
Le valutazioni di tipo farmacocinetico implicano quindi la necessità di disporre di molti e ripetuti campioni biologici, come sangue, siero, urine, ecc. La disponibilità di questi campioni permette, per ciascuna delle tre categorie di interesse (assorbimento, distribuzione ed eliminazione), di definire diversi parametri farmacocinetici utilizzando formule particolari. Per esempio, per studiare l'assorbimento si valutano due parametri, la costante di assorbimento e la biodisponibilità. Talvolta è anche necessario applicare tecniche particolarmente invasive (come il prelievo di materiale bioptico), mentre va anche segnalato il fatto che sta sempre più affermandosi la possibilità di utilizzare tecniche non invasive, basate sull'uso di metodologie diagnostiche di imaging, come la tomografia computerizzata (TC) e la tomografia a emissione di positroni (PET).
La farmacodinamica studia se e come una molecola interagisca con un organismo umano ed è quindi interessata a valutare gli effetti biochimici e fisiologici dei farmaci e dei loro meccanismi di azione. I farmaci, per espletare la propria efficacia, devono interagire con alcuni bersagli (target) che si trovano all'interno o all'esterno delle cellule. Nella maggior parte dei casi si tratta di componenti cellulari denominati , macromolecole implicate nella trasmissione chimica dei segnali tra una cellula e l'altra, e all'interno delle cellule. Alcune volte i farmaci interagiscono direttamente con altri tipi di bersagli, come per esempio il DNA nel nucleo cellulare, o elementi minerali presenti nel sangue, quali il calcio o il ferro, o alcune secrezioni del nostro organismo, come il succo gastrico. Quando un farmaco si lega a un recettore, la funzione cellulare viene modificata in quanto ogni recettore regola specifici processi biochimici cellulari. A seconda degli effetti indotti dal farmaco sui recettori, essi vengono classificati in due categorie: sono definiti farmaci che interagiscono con i recettori in modo da stimolare o aumentare la proporzione dei recettori attivati, mentre sono definiti che interagiscono selettivamente con i recettori, ma non determinano un effetto osservabile; essi riducono l'azione di un'altra sostanza (l'agonista) a livello del sito recettoriale interessato.
In pratica, nel contesto di studi prevalentemente di fase 1, la farmacodinamica si occupa di studiare per lo più due fenomeni, l'interazione farmaco-recettore, attraverso misurazioni a livello molecolare, cellulare, tissutale, o dell'intero organismo, e la relazione dose-risposta, con appropriati parametri. La funzione recettoriale è influenzata da molti fattori, alcuni esterni, altri di tipo intracellulare. Da ciò deriva che si può osservare, o indurre, nei recettori, causa di fenomeni di adattamento ai farmaci con importanti implicazioni cliniche come desensibilizzazione, tachifilassi, tolleranza, resistenza acquisita. La teoria recettoriale dei farmaci include due concetti importanti, quello di affinità, definito come la probabilità che un farmaco occupi un recettore in un determinato momento, e quello di attività intrinseca, che esprime le complesse associazioni tra la concentrazione del farmaco, gli stati di attivazione dei recettori e la risposta funzionale cellulare, o tissutale. La valutazione della relazione dose-risposta ha un ruolo molto importante nella moderna farmacologia clinica, in quanto si tratta di uno dei primi dati che sono utilizzati nella farmacologia sperimentale per identificare le posologie da utilizzare negli studi di attività ed efficacia clinica. Per effettuare una valutazione di questo tipo è necessario disporre di stime, ripetute nel tempo, riguardo l'effetto della somministrazione di dosi diverse del farmaco. Poiché un effetto farmacologico è una funzione della dose e del tempo, la relazione dose-risposta è solitamente rappresentata da un grafico dove l'effetto misurato (risposta) viene riportato sull'asse delle ordinate e la dose viene riportata sull'asse delle ascisse. Gli effetti misurati sono di solito sintetizzati come punti al momento dell'effetto di picco o allo stato stazionario.
La farmacogenomica e la farmacogenetica si occupano di studiare se e come le variazioni genetiche individuali possano influenzare il metabolismo, la sicurezza, l'attività e l'efficacia del farmaco introdotto nell'organismo. La differenza essenziale tra la farmacogenetica e la farmacogenomica sta nel fatto che, dopo la mappatura completa del genoma umano e in seguito agli importanti progressi nella tecnologia e nella bioinformatica, che hanno reso disponibili tecnologie () che consentono di sottoporre contemporaneamente a screening genetico centinaia di campioni diversi per una singola mutazione (o un solo campione per centinaia di mutazioni), si possono considerare le interazioni di moltissimi geni (teoricamente anche tutti) con il medicinale e non la semplice relazione un gene-un effetto. È noto da tempo, grazie a osservazioni occasionali o ad analisi formali in vaste popolazioni, che esiste un'ampia variabilità individuale nella risposta alla somministrazione di molti farmaci. Questo fenomeno ha importanti implicazioni mediche e cliniche, in quanto la stessa dose di farmaco può essere del tutto inefficace in un paziente o particolarmente tossica in un altro. Numerosi studi condotti su gruppi familiari o popolazioni particolari hanno dimostrato che i fattori genetici sono i principali responsabili di queste ampie variazioni osservabili tra un individuo e l'altro. D'altra parte, esistono numerosi fattori che possono interagire fra loro e con fattori genetici per influenzare la risposta ai farmaci, come per esempio le età più avanzate.
Il vero valore aggiunto della farmacogenomica dipende dalla capacità di identificare, in modo valido e, possibilmente, rapido ed economico, le variazioni genetiche che sono pertinenti e importanti per la salute della popolazione. Questo fatto è essenziale in tutte le fasi della farmacologia clinica, dagli studi iniziali in piccoli campioni di individui, allo in ampie popolazioni. È noto che molta della variabilità osservata tra individui in termini di capacità di metabolizzare ed eliminare alcuni farmaci, talvolta attribuita a fattori razziali, è invece dovuta a fattori genetici che regolano alcuni importanti meccanismi fisiologici, ed è quindi possibile parlare di una variabilità sia farmacocinetica sia farmacodinamica, che sono in effetti geneticamente predeterminate. Per esempio, circa il 50% della popolazione degli Stati Uniti richiede un tempo più lungo per metabolizzare i farmaci eliminati per acetilazione; questi pazienti, definiti acetilatori lenti, sono quindi più suscettibili agli effetti indesiderati dei farmaci che vengono metabolizzati per questa via e hanno una probabilità più elevata di manifestare effetti collaterali.
Inoltre, recentemente taluni insuccessi nella resa terapeutica di alcuni nuovi farmaci antitumorali, dotati di un meccanismo di azione molto specifico verso recettori cellulari coinvolti nella replicazione e apoptosi cellulare, sono stati spiegati da successive analisi di tipo farmaco-genomico. Queste analisi hanno dimostrato che i motivi di insuccesso potevano essere attribuiti alla complessità e alla eterogeneità genica dei tumori studiati; inoltre la differente espressione poteva spiegare il mancato effetto in una buona proporzione della popolazione coinvolta negli studi clinici comparativi. La disponibilità, infine, di questi nuovi dati sta comunque permettendo una ridefinizione delle popolazioni eleggibili ai farmaci in questione e sta indirizzando studi di fase 3 su popolazioni meglio caratterizzate dal punto di vista genetico e molecolare. Queste informazioni hanno anche reso possibile la conduzione di studi di tipo epidemiologico, per valutare la prevalenza e l'effetto di specifici profili genetici a livello della popolazione generale.
Un farmaco, prima di essere introdotto in commercio e prescritto alla popolazione, deve dimostrare di essere sicuro, attivo ed efficace e di avere un rapporto rischio-beneficio favorevole. La responsabilità di accumulare questo tipo di prove spetta alla società proprietaria del prodotto che nella stragrande maggioranza dei casi è rappresentata da un'industria farmaceutica. Lo sviluppo di un farmaco richiede quindi una lunga serie di studi, prima preclinici e poi su soggetti umani, che nell'insieme possono anche richiedere da 7 a 10 anni. Date le possibili implicazioni per la salute dei cittadini, negli Stati Uniti e in Europa la ricerca in ambito farmacologico è regolata dalla Food and Drug Administration (FDA) e dall'Agenzia Europea per la Valutazione dei Medicinali (EMEA). In Italia vi è da qualche anno l'Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA). I dati relativi agli studi sugli animali (preclinici) e quelli che si riferiscono agli studi sui soggetti umani (clinici) vengono sottoposti alle agenzie al fine di ottenere l'approvazione per l'introduzione nella pratica clinica di un nuovo farmaco sperimentale. In genere, la fase clinica della sperimentazione comprende una serie di studi che sono classificabili in funzione degli obiettivi (farmacologia umana, terapeutica esplorativa, terapeutica confermativa, uso terapeutico) o della fase temporale in cui si collocano le varie fasi, successive l'una all'altra, denominate appunto fasi 1, 2, 3 e 4. Indipendentemente dalla tassonomia utilizzata, l'insieme degli studi fornisce dati complementari sul valore di un determinato farmaco, e le fasi si distinguono l'una dall'altra per gli obiettivi, il disegno sperimentale e la tipologia dei pazienti coinvolti.
Fase 1. Gli studi condotti in questa fase rappresentano per definizione le prime applicazioni nell'uomo di farmaci che sono stati testati, fino ad allora, solo su animali. In Italia, alla fine della fase preclinica, è necessario chiedere e ottenere l'autorizzazione alla sperimentazione dal Ministero della Salute e il parere dell'Istituto Superiore di Sanità. Lo scopo di questa fase della sperimentazione è quello di fornire una prima valutazione della sicurezza e della tollerabilità del principio attivo, destinato a diventare eventualmente un farmaco. In genere, per i comuni farmaci, questi studi vengono condotti in pochi centri selezionati, su un limitato numero di volontari sani (qualche decina di soggetti, in età non avanzata, in cui si è documentata l'assenza di malattie e predisposizioni, di sesso preferibilmente maschile), che in un ambiente monitorato e sotto stretto controllo medico assumono dosi singole o ripetute del farmaco in sperimentazione, secondo precisi protocolli. L'obiettivo principale è la valutazione degli effetti collaterali che si prevede di avere in relazione alle precedenti sperimentazioni sugli animali e alla valutazione di farmacocinetica e farmacodinamica. Quando possibile, nonostante l'esiguità del campione, si cerca anche di identificare i possibili effetti del farmaco a carico di altri organi e altre funzioni dell'organismo. Alla fine di una fase 1 ben condotta si è identificata una limitata serie di possibili posologie, si sono esclusi rischi maggiori per la salute dei pazienti, si sono identificati alcuni ipotizzabili effetti negativi del farmaco e si sono prodotti dati sulla farmacocinetica e dinamica del principio attivo. In malattie particolari, come le neoplasie maligne dove i farmaci sono intrinsecamente molto tossici e troppo dannosi per la salute dei volontari sani, la fase 1 è condotta su volontari a uno stadio molto avanzato di malattia, dove si sono esaurite tutte le possibili opzioni terapeutiche.
Fase 2. Al termine degli studi di fase 1, con i dati disponibili dalle valutazioni di farmacologia clinica, si passa alla fase successiva che è orientata a fornire le prime valutazioni sull'efficacia esplorativa (attività) del principio attivo. In questa fase si è interessati a confermare in campioni più ampi il profilo di sicurezza e tossicità del farmaco, a identificare la migliore dose da utilizzare nelle fasi successive di sperimentazione, a determinare l'attività del farmaco su alcuni parametri della malattia che sono considerati predittori della salute del paziente. Per esempio, nel caso di un principio attivo per controllare l'ipertensione arteriosa, gli indicatori di efficacia non saranno la sopravvivenza o la qualità della vita, ma indicatori di gravità della malattia, come il livello della pressione arteriosa. Gli studi di fase 2 sono solitamente condotti in qualche centinaio di pazienti, selezionati tra quanti hanno livelli non gravi della patologia in studio, reclutati in grandi centri ospedalieri. Quando eticamente accettabile, il disegno dello studio prevede la presenza di un gruppo di controllo che non assume alcun farmaco o solo un ; inoltre, si valuta la resa di dosi diverse del farmaco. Al fine di ottenere una completa comparabilità dei casi in studio, il tipo di trattamento (farmaco attivo o placebo) e le dosi non sono decisi dal medico o dal paziente, ma sono assegnati su base casuale (randomizzazione). Al fine di evitare valutazioni che siano viziate dalle aspettative dei partecipanti, in caso sia prevista la somministrazione del placebo, le valutazioni dei parametri di attività e sicurezza sono condotte in cieco, cioè il medico e il paziente non conoscono il tipo di trattamento somministrato o ricevuto. Al termine della fase 2 si saranno confermati i dati sulla sicurezza del principio attivo con le prime stime sulla frequenza dei fenomeni identificati come possibili in fase 1, si sarà identificata la migliore dose da portare in fase 3 e si saranno individuati i migliori candidati, in termini di età, tipologia e gravità della malattia, da coinvolgere nelle successive sperimentazioni.
Fase 3. L'obiettivo di questa fase, cruciale per confermare il valore terapeutico del candidato farmaco, è quello di definire al meglio il rapporto sicurezza/rischio-efficacia, anche attraverso un confronto con un altro farmaco di riferimento. Negli studi di fase 3, infatti, si analizzano centinaia o migliaia di soggetti, utilizzando come indicatori di efficacia misure di beneficio clinico, quali la sopravvivenza, il controllo dei sintomi o la qualità della vita, e si confronta formalmente il nuovo farmaco con il più appropriato comparatore, un placebo, nessun trattamento, un altro farmaco. Lo studio di riferimento in questa fase è lo studio clinico controllato (dotato cioè di un gruppo di controllo con cui confrontare i risultati) e randomizzato (cioè ai pazienti viene assegnato casualmente o il nuovo principio attivo, oppure il farmaco standard per quella patologia). La durata della terapia è variabile a seconda degli obiettivi che la sperimentazione si pone, ma in genere dura mesi. Il periodo di monitoraggio degli effetti delle terapie è invece spesso più lungo, arrivando in qualche caso ai 3-5 anni. Durante questa fase vengono sempre controllate con molta attenzione l'insorgenza, la frequenza e la gravità degli effetti indesiderati. Terminata questa fase di sperimentazione, tutti i dati derivati dalle valutazioni precliniche e cliniche sono raccolti in un dossier che viene sottoposto alla competente autorità (FDA, EMEA o AIFA), per ottenere l'autorizzazione alla commercializzazione della nuova specialità farmaceutica (il medicinale vero e proprio).
Fase 4. Questa fase inizia per definizione quando il nuovo farmaco entra in commercio e ha l'obiettivo di confermarne le caratteristiche durante il suo utilizzo nella pratica corrente, con particolare attenzione alla sicurezza e tollerabilità a lungo termine e al suo valore terapeutico in condizioni reali. Alla fase 4 appartengono formalmente tutti gli studi condotti sul farmaco in commercio, somministrato in accordo alle indicazioni fornite dalle autorità competenti, e quindi sono possibili tutti i disegni, da valutazioni di farmacocinetica in popolazioni speciali a studi randomizzati e comparativi in ampie casistiche. In questo contesto sono particolarmente utili studi condotti sull'utilizzazione dei farmaci, sia di tipo osservazionale che di esito.
I primi sono anche definiti studi di farmaco-vigilanza post-marketing, in quanto hanno l'obiettivo di valutare, attraverso un sistema di vigilanza attivo, che implica la partecipazione di ampie reti di medici e centri, la frequenza e l'effetto sulla salute dei cittadini di farmaci che, dopo l'introduzione nel mercato, meritano una particolare vigilanza per ciò che riguarda il loro effettivo profilo di sicurezza. Il motivo di questo tipo di studi, spesso concordati tra l'industria che li commercializza e le agenzie che hanno valutato i dati relativi allo sviluppo del farmaco, deriva dal fatto che nella maggior parte dei casi i nuovi farmaci vengono commercializzati, e quindi vengono prescritti a centinaia di migliaia di soggetti, dopo essere stati somministrati solo a poche centinaia o migliaia di casi. Quindi non è stato possibile durante le fasi 1-3 documentare con certezza l'effettiva frequenza di effetti negativi che sono poco frequenti (per es., accadono in un caso su 1000 o 10.000) e quindi non osservabili in limitate casistiche. Inoltre, un attento monitoraggio delle prescrizioni può permettere di identificare possibili effetti negativi in tipologie di pazienti mai o poco studiati negli studi preregistrativi, come per esempio gli anziani, i casi con patologie multiple, ecc.
Gli studi di esito, anche definiti 'studi di outcome' hanno invece l'obiettivo di valutare la concreta resa di un farmaco di cui è stata documentata l'efficacia durante gli studi clinici, ma di cui non si conosce l'effettivo impatto riguardo aspetti importanti della salute in un contesto reale. In questo caso si parla di studi osservazionali di non intervento, in quanto le valutazioni sugli effetti della terapia sono condotte su ampie casistiche poco selezionate, dove i trattamenti sono scelti dal medico e dal paziente alla luce di quella che è ritenuta la migliore cura per il singolo caso. I risultati finali sono poi confrontati con quanto atteso, dati i risultati delle precedenti sperimentazioni, sia informalmente sia dopo le applicazioni di particolari tecniche di standardizzazione.
L'epidemiologia, in accordo all'origine del termine (epí, dèmos e lógos), è la disciplina scientifica che si occupa di cosa succede alla popolazione per quanto concerne la salute. In altre parole, si dedica allo studio della frequenza, della distribuzione, delle cause e degli effetti delle malattie nella popolazione. L'aggiunta del termine farmaco chiaramente restringe l'obiettivo dell'epidemiologia a quegli aspetti della salute e delle malattie che sono pertinenti al farmaco, che diventa la causa principale di salute e malattia. La farmacoepidemiologia (FE), o epidemiologia del farmaco, utilizza, per descrivere e quantificare i fenomeni di interesse, gli strumenti e i metodi della epidemiologia, e quindi possiamo distinguere studi retrospettivi e prospettici, tipo caso-controllo, e di coorte, con o senza controlli. Inoltre, può utilizzare diversi tipi e fonti di dati, come interviste al paziente, la cartella clinica e altri documenti sanitari, dati di vendita, dati di consumo, dati di prescrizione, segnalazioni spontanee o raccolte nel contesto di studi disegnati ad hoc.
Può anche essere classificata a seconda degli obiettivi e delle strategie, e quindi distinguiamo una FE descrittiva, che studia la frequenza e la distribuzione geografica, a livello nazionale, regionale o locale, dell'utilizzazione (ma anche di prescrizione, vendita o consumo) dei farmaci, e una FE analitica, che studia le cause e gli effetti dell'esposizione al farmaco di un'intera popolazione, o di alcuni suoi sottogruppi rilevanti. In pratica, un quadro generale, che combina sia le strategie sia i metodi, permette di identificare studi di farmacoepidemiologia che mirano a valutare l'utilizzazione del farmaco nella popolazione, per studiare l'offerta, il consumo, la qualità dei consumi e delle prescrizioni, la pazienti, e studi sul monitoraggio o farmacovigilanza sull'intera popolazione o su sottogruppi specifici, al fine di fornire dati e informazioni quantitative e qualitative sugli effetti dei farmaci su alcuni determinanti diretti o indiretti di salute (efficacia, tossicità, qualità, appropriatezza, costi).
La decisione di prescrivere o assumere un farmaco non solo causa effetti positivi e negativi sulla salute di un individuo, di gruppi particolari o dell'intera popolazione, ma ha anche chiare e dirette implicazioni sui costi economici che gravano sul singolo individuo, su parti del sistema sanitario o sull'intera società. La farmacoeconomia è la disciplina che ha l'obiettivo di identificare i trattamenti farmacologici che possono essere adottati da un medico o da un sistema, in modo da ottimizzare l'utilità complessiva degli interventi, date le risorse economiche disponibili. In pratica, si occupa dell'identificazione, quantificazione, attribuzione dei costi ascrivibili al farmaco, ma anche alla malattia, e di altri determinanti di costo, e di valutarli in funzione dei risultati attesi o osservati. Studi e valutazioni di farmacoeconomia sono quindi pertinenti a diversi tipi di decisioni in medicina e sanità, essendo collegati con la decisione di sviluppare un nuovo farmaco, di stabilirne il prezzo, di inserirlo in un determinato prontuario, di raccomandarne l'uso. Qualsiasi esercizio di farmacoeconomia passa prima di tutto attraverso la disponibilità di informazioni sulla frequenza della malattia e sull'efficacia dei trattamenti, e poi implica la raccolta di informazioni sulla natura e sulla quantità dei costi, che sono poi valorizzati in termini monetari. Rispetto alla natura, i costi sono distinti in certi o aleatori, diretti o indiretti, sanitari e non sanitari. Si definiscono invece costi intangibili quei costi che attengono alla sofferenza dell'individuo, come il dolore fisico, l'angoscia, l'ansia, e quindi, pur essendo molto importanti, è impossibile esprimerli in termini monetari.
Per quanto riguarda i metodi, si riconoscono cinque tipologie di analisi farmacoeconomiche: (a) analisi costo-conseguenza: si tratta del più semplice tipo di approccio e, in un certo senso, del primo livello di analisi economica, che dovrebbe essere condotta nel maggior numero possibile di casi dove esista un debito informativo sulle conseguenze di alcune scelte terapeutiche; si tratta infatti di riportare i costi e le conseguenze di uno o più trattamenti farmacologici, indicati per una determinata condizione morbosa, elencandoli nel modo più disaggregato possibile, senza alcun tentativo di sintetizzare i risultati o di indirizzare le conclusioni; in pratica, si tratta di raccogliere informazioni sugli esiti clinici ed economici in un determinato campione, eventualmente stratificato per sottogruppi o per possibili trattamenti alternativi; (b) minimizzazione dei costi: è un'analisi che si può condurre quando si vogliono confrontare i costi complessivi di trattamenti farmacologici, di cui si è certi che hanno la stessa efficacia terapeutica; in questo caso, a fronte di una pari efficacia clinica, può diventare dirimente, per la scelta del trattamento da raccomandare o rimborsare, identificare quale farmaco abbia il minor costo; si conduce pertanto un'analisi sui costi complessivi, che comprendono quelli direttamente attribuibili al farmaco, al trattamento degli effetti collaterali, ecc.; (c) analisi costo-efficacia: è un tipo di analisi che viene applicata nel caso ci si trovi di fronte a situazioni dove esistono differenze importanti nell'efficacia, in termini di beneficio clinico, tra diversi trattamenti farmacologici; in questa evenienza, si identifica un'unità di misura di efficacia comune ai due trattamenti, come per esempio un caso di morte evitato, un anno di vita guadagnato, e la si valuta in termini di risorse o costi attribuibili a ciascun evento; in questo modo, si possono confrontare i risultati che saranno interpretabili in termini di costo medio (anche monetario) che è stato attribuito a ogni evento osservato, per ciascuno dei due trattamenti in valutazione. Per esempio, consideriamo il caso di un trattamento che induca una sopravvivenza media di 16 mesi, e un altro di 10 mesi; nel primo caso l'insieme dei costi attribuito al trattamento è stato di 320, nel secondo caso di 140; i corrispondenti rapporti costo-efficacia saranno di 320/16=20 e di 140/10=14; il costo medio per ogni mese sarà di 20 e 14, rispettivamente, e quindi il secondo trattamento sarà, dal punto di vista economico, più vantaggioso; (d) analisi costo-utilità: è simile a quella precedente, ma in questo caso non si utilizza una misura di efficacia clinica, bensì una stima dell'utilità che l'efficacia può generare per il paziente, di solito misurata attraverso interviste dirette che producono valutazioni soggettive di preferenza, qualità della vita, ecc. L'assunto è che un miglioramento dell'efficacia si estrinseca non solo in termini quantitativi, ma anche qualitativi, e quindi si deve utilizzare come denominatore nel rapporto costo/utilità non una quantità di vita o di salute, ma una quantità regolata per la qualità percepita; una delle tecniche più utilizzate in questo contesto è quella dei QALY (Quality adjusted life years); (e) analisi costo-beneficio, peraltro poco utilizzate, dove sia i costi che i benefici sono espressi e analizzati in termini monetari; in questo caso la difficoltà principale è di stimare in maniera valida e affidabile i benefici in termini monetari; la letteratura propone due metodi, l'uno basato sulla valutazione del capitale umano e l'altro sulla disponibilità a pagare (willingness to pay). Va ricordato comunque che, indipendentemente dalle tecniche utilizzate, le analisi di tipo farmacoeconomico servono a completare valutazioni comparative sul valore, in termini di beneficio globale, di diversi e alternativi trattamenti farmacologici e che hanno un ruolo importante soprattutto in contesti dove i dati derivino da validi e generalizzabili studi comparativi.
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