Fare la carita: attivita e attivismo
Intervenendo al Troisième Congrès scientifique international des catholiques, tenutosi a Bruxelles dal 5 all’8 settembre 1894, Giuseppe Toniolo afferma: «la carità presso di noi fu sempre […] fortemente religiosa nelle sue fonti, nei suoi organi e nei suoi aiuti; e, per questo motivo essa fu soprattutto ecclesiastica»1 e conclude: «Proprio per il suo carattere religioso e sociale la carità ha avuto sempre, in Italia, una funzione educativa per eccellenza, cioè essa fu sempre per noi un fattore del progresso intellettuale della nazione»2, per questo «scrivere la storia della carità in Italia sarebbe un atto meritorio di religione»3.
Nonostante questa ed altre successive sollecitazioni, a più di un secolo di distanza, manca ancora, nella storiografia italiana, uno studio dedicato sistematicamente a tale argomento. In questa occasione saranno indicate solo alcune sintetiche linee interpretative.
Una svolta decisiva nell’atteggiamento e nel rapporto con i poveri in età contemporanea si ha, in Italia, come nel resto del continente europeo, con la pubblicazione dell’enciclica Rerum novarum che sancisce la nascita della dottrina sociale cattolica e stabilisce le linee guida che ispireranno, l’atteggiamento della Chiesa verso i poveri, sino al concilio Vaticano II.
Sono tanti gli uomini e i gruppi che, all’interno del cattolicesimo internazionale e italiano, maturano una nuova consapevolezza rispetto alle drammatiche condizioni in cui vive il mondo operaio. È consuetudine citare tra coloro che prepararono ‘i tempi’ della Rerum novarum, secondo la felice espressione adoperata da Alcide De Gasperi, un lungo elenco di persone e istituzioni4.
Redatta dal padre Matteo Liberatore, gesuita italiano e, successivamente, rivista dai cardinali Tommaso Maria Zigliara e Camillo Mazzella, l’enciclica, resa nota da Leone XIII nel 1891, è il primo documento pontificio che affronta in modo organico la questione operaia e che offre una nuova cornice teologica e dottrinale al rapporto con i poveri. Quando è pubblicata, nella coscienza europea la povertà ha ormai assunto il volto prevalente dell’operaio di fabbrica. Quella povertà tradizionale composta di vecchi, malati, invalidi e vagabondi, il cosiddetto sottoproletariato, scompare dall’orizzonte culturale, sociale ed economico della società politica e civile del tempo. D’ora in poi il povero sarà identificato con l’operaio. La fine del secolo segna l’apogeo dello sviluppo industriale e l’acuirsi dello scontro di classe e del conflitto sociale. Con la rivoluzione industriale, l’avvento della borghesia, il riconoscimento del libero pensiero, la libertà di culto e la democrazia, la ‘modernità’ irrompe nella storia. La tragica conclusione della rivoluzione del 1848, la morte di monsignor Denis-Auguste Affre, sulle barricate di Parigi, la pubblicazione del Manifesto del Partito comunista di Marx e Engels, uscito a Londra, proprio nello stesso anno e l’avvento della I e della II Internazionale, sono le tappe attraverso cui si produce una profonda frattura tra Chiesa e mondo operaio. Questa non coglie l’importanza dello sviluppo industriale e la novità rappresentata dalla nuova classe emergente: il mondo operaio. Con l’avvento di quello che il padre Henri de Lubac ha definito «il dramma dell’umanesimo ateo», la religione è bandita dalla storia. Si desidera ardentemente rompere con il passato, inaugurando nuove strade, alla ricerca del sogno utopico di creare un «uomo nuovo». Il movimento socialista assume sempre più caratteristiche profondamente anticlericali e spesso anticristiane. La Chiesa è posta sul banco degli accusati, per la sua complicità nell’aver insegnato ai poveri a rassegnarsi all’ineluttabilità della loro condizione di vita, nell’essersi opposta a ogni redenzione e liberazione sociale. Il secolo che sta per arrivare si annuncia più secolarizzato del precedente. Tutto il cattolicesimo entra nel Novecento, come scrive Andrea Riccardi, «in condizioni di ospite in un secolo che sembrava aver perso o essere destinato a perdere il proprio carattere tradizionale cristiano»5.
Leone XIII, già dagli anni dell’episcopato perugino aveva manifestato il desiderio di riavvicinare la Chiesa alla società contemporanea. L’enciclica, superando i recinti della cultura intransigente, invita i cattolici ad andare incontro al mondo operaio. Dopo aver criticato il falso rimedio, rappresentato dal socialismo, il papa denuncia la «miseria immeritata» dei lavoratori e auspica, nel campo sociale, l’azione della giustizia e della carità. Il salario deve essere giusto e permettere all’operaio di sovvenire ai suoi bisogni. Parla del bene comune e, soprattutto, assegna alla carità un campo vastissimo di intervento. Essa è anima della giustizia. Se da un lato il documento pontificio non risolve tanti problemi che appassionano i dibattiti tra i cattolici (come quello sul giusto salario), dall’altro fissa una serie di nuovi e importanti principi: il fatto che la fedeltà al Vangelo non può esaurirsi nell’azione caritativa individuale, ma deve esplicitarsi in rapporto ai bisogni complessivi della società; la funzione sociale della proprietà privata; la concezione del lavoro come mezzo, per l’uomo, di sviluppare la sua personalità. Sul piano teologico e magisteriale, l’enciclica segna una decisiva correzione di rotta, rispetto al rapporto con i poveri e indica ai cristiani un nuovo modo di stare nella storia, accanto agli altri. La carità si fa sociale. La Rerum novarum segna un punto di non ritorno, perché sancisce l’indissolubile legame tra la dimensione sociale e quella della fede. La Chiesa esce dal sacro ed entra nelle pieghe della vita. È certamente l’enciclica che più aiuta il cattolicesimo italiano a uscire dalle visioni e dalle categorie del corporativismo medievaleggiante e a smentire l’affermazione anticlericale che la Chiesa è sempre dalla parte del privilegiato e del ricco. La Rerum novarum è per il Movimento cattolico italiano una passerella nella storia, attraverso cui la Chiesa può riconciliarsi con il mondo moderno. La ricezione dell’enciclica in Italia è assai diversificata. Dai vescovi piemontesi è letta e interpretata ora in senso più aperto e innovatore, ora in senso più timoroso e restrittivo. In Veneto non riceve un consenso unanime, neppure in campo cattolico. In Abruzzo i vescovi ne parlano, forse, più per dovere di ufficio, che per reale convinzione, mentre i laici la ignorano quasi completamente. Nel Lazio non produce particolari frutti. In Campania non cade su un terreno particolarmente fertile. In Puglia si continua a ritenere utopistico, se non proprio dannoso, il programma lanciato da Leone XIII: è irrealizzabile un’organizzazione cattolica che abbia, tra gli altri, obiettivi sociali6. Nonostante la resistenza alla svolta operata dal papa, da parte di larghi settori del mondo cattolico, come scrive Luigi Sturzo, l’enciclica genera un nuovo e diffuso slancio verso i poveri e gli emarginati, tra il clero e i laici, i quali si danno ad organizzare leghe operaie, sindacati, scuole professionali e a reclamare giusti salari7. Il clero è invitato dal papa, come scrive al vescovo di Coutances A. Germain, a non rinchiudersi nelle mura delle sue chiese, ma ad andare tra il popolo: «In una parola il prete si ricordi che il vangelo deve essere annunciato ai poveri»8. La preoccupazione di sanare quel divorzio tra i poveri e la Chiesa suscita in Europa e in Italia un nuovo modo di esercitare il ministero presbiterale. All’inizio del Novecento, a Milano, il cardinal Andrea Carlo Ferrari, dà vita all’esperienza dei «cappellani del lavoro». La dimensione religiosa e la prospettiva pastorale di questo nuovo rapporto tra poveri e preti ha il suo centro nella convinzione che il sacerdote deve condividere pienamente, in primis, le condizioni materiali della popolazione a cui si rivolge, ricordandosi che la ‘povertà volontaria’ non ha lo stesso valore della ‘povertà effettiva’ delle madri di famiglia, degli operai senza lavoro e dei poveri senza cibo e casa. Per essere credibile il prete è chiamato come l’apostolo Paolo a lavorare per non essere di peso a nessuno, esercitando il proprio ministero gratuitamente.
Si tratta di una prospettiva totalmente nuova, rispetto alla cultura del tempo e che trova in Italia una schiera di nuovi adepti, quelli che la storiografia sulla vita religiosa ha definito «santi sociali». Un pantheon complesso, composto da un singolare gruppo di personalità carismatiche, con diversità di orientamenti, sensibilità religiose e visioni sociali e pastorali, che anima un nuovo fervore caritativo, nel cuore dell’Ottocento: Giuseppe Cafasso, Giovanni Bosco, Leonardo Murialdo, Giacomo Cusmano, Giuseppe Cottolengo, i fratelli Cavanis, Luigi Guanella, Antonio Provolo, Nicola Mazza. Ognuno di essi incarna in una personale attualizzazione la parabola del buon samaritano, fermandosi di fronte ai tanti uomini mezzi morti della storia. I carcerati per Cafasso, gli abbandonati per don Bosco, gli operai per Murialdo, gli affamati per Cusmano, i giovani per Cavanis, i sordomuti per don Severino Fabriani, categoria priva di ogni diritto e spesso mantenuta in condizioni di vita non dissimile da quella degli animali. Diventerà uno dei grandi protagonisti del settore, con la messa a punto di metodi di apprendimento, utilizzati in futuro, anche fuori dall’Italia9. Da questo incontro diretto, nascono centinaia di grandi opere, che vanno dalle fabbriche per insegnare i mestieri ai giovani, agli ospedali per assistere i malati cronici, ai disoccupati e alle donne sole. Ma la dimensione si allarga oltre i confini nazionali e il cattolicesimo italiano ha il suo primo contatto diretto con i poveri al di là delle sue frontiere. Daniele Comboni, Giovanni Battista Scalabrini e Geremia Bonomelli si misurano con il sogno di raggiungere i poveri lontani. Il primo con l’ambizione di rigenerare l’Africa, auspicandone la liberazione dalle catene della povertà e della schiavitù. Il secondo e il terzo dedicandosi a quei milioni di italiani che lasciano, poveri e senza nulla, il proprio paese. L’emigrazione oltre oceano è controllata alla fine del secolo da oscuri figuri che facendo leva sull’ignoranza, organizzano verso l’Argentina e gli Stati Uniti un vero e proprio commercio di forza lavoro. In questi anni l’Italia conosce l’inizio di una consistente emorragia di propri connazionali, che sono costretti dalla fame e dal bisogno a emigrare. Lungo tale sentiero, già aperto, si incammina tra la fine del secolo e l’inizio del Novecento una nuova generazione di apostoli della carità, quali Ludovico da Casoria a Napoli, Tommaso Maria Fusco a Pagani, Bartolo Longo nella valle di Pompei, il canonico Annibale Maria di Francia con i suoi orfanotrofi in Sicilia e in Puglia, Luigi Orione che dissemina in tutta Italia case in cui accogliere gli ultimi degli ultimi «di qualunque nazionalità siano, di qualunque religione siano, e anche se fossero senza religione, perché Dio è padre di tutti». E inoltre Giovanni Calabria, che all’inizio del secolo dà vita a Verona alla Piccola casa della Divina Provvidenza, in soccorso ai più poveri tra i poveri, Luigi Monza che in provincia di Milano si dedica al recupero di bambini minorati psichici. Numerose sono le Congregazioni di nuova fondazione, che in tutta Europa e, particolarmente in Italia fanno della carità e del rapporto con i poveri lo scopo fondamentale della loro esistenza. Nella sola Roma, nel 1895, cioè circa venti anni dopo l’applicazione della legislazione eversiva del 1866, ci sono 22 istituti femminili in più rispetto al 1850. In Italia le 28.172 religiose segnalate nel censimento nazionale del 1881 sono tutte o quasi tutte membri di istituti nuovi. Esse salgono a 40.251 nel censimento del 1901, a 45.616 in quello del 1911 e toccano le 71.679 nel 1921. Non ci si limita più a lenire i bisogni elementari, come quello del pane o del vestiario, ma ci si specializza, se così si può dire, andando incontro ai nuovi e molteplici bisogni della società, professionalizzandosi. I religiosi spaziano dall’insegnamento con scuole di ogni ordine e grado, all’assistenza ai malati, agli anziani, ai carcerati, nelle opere giovanili, in quelle a favore degli operai e nell’assistenza agli emigranti. Non si affronta più il problema della carità in termini di elemosina, come sino ad allora si era intesa l’assistenza e la beneficenza. Ora la carità si istituzionalizza, trasformandosi in attività contingente e strutturata, non episodica, e che non termina una volta finita l’emergenza. È una stagione in cui il cattolicesimo italiano è travolto da una vera frenesia dell’azione.
La pubblicazione della Rerum novarum divide i cattolici sul significato da attribuire alla dottrina sociale e su come attuare le direttive pontificie. Una parte del cattolicesimo italiano è ancora abbagliato dall’ansia di un nuovo temporalismo, del ripristino del potere temporale. L’orizzonte culturale e religioso è ancora quello della societas christiana, il modello ideale indicato dalla cristianità medioevale, in linea con la visione definita dal Sillabo. Il luogo ove questa componente del cattolicesimo italiano si ritrova è l’Opera dei congressi e dei comitati cattolici, la cui seconda sezione è dedicata alle opere di carità. È questa un’associazione, controllata dagli intransigenti, che promuove in ogni angolo del paese società di mutuo soccorso, patronati, cooperative, casse di credito rurali e artigiane, cantine sociali e società di assicurazione, nel fermo convincimento di poter usare questa fitta rete di enti e strutture come argine di un nuovo ordine sociale e diga nei confronti della dilagante e materialistica ideologia socialista. Un’organizzazione, come dirà Geremia Bonomelli, che pensa alla politica più che alla religione. Essa rifiuta ogni tentativo di conciliazione tra cattolicesimo e liberalismo, opponendosi all’idea che lo Stato equipari la religione cattolica alle altre ‘cosiddette Chiese’. Il suo rapporto con i poveri è fermo alla logica paternalista. Una posizione autonoma, all’interno dell’Opera, assume la «Rivista internazionale di scienze sociali», nata nel 1893 su ispirazione di Giuseppe Toniolo, di cui il papa ha grande stima. Questi, con il varo del ‘Programma di Milano’, nel 1894 propone la partecipazione dell’operaio ai profitti ed alla possibilità di essere azionista e invita il potere pubblico a favorire la diffusione della proprietà terriera. Per l’economista, l’azione sociale dei cattolici deve avere come obiettivo la realizzazione della «Democrazia cristiana», intesa come «ordinamento civile nel quale tutte le forze sociali, giuridiche ed economiche, nella pienezza del loro sviluppo gerarchico, cooperano proporzionalmente al bene comune, rifluendo quest’ultimo risultato a prevalente vantaggio delle classi inferiori»10. In questi anni di fine secolo, l’Opera è attraversata da profondi conflitti interni, tra il filone più tradizionale e intransigentista, quello mediano incarnato da Toniolo e altri e quello, più radicale, del giovane sacerdote marchigiano Romolo Murri, che sulla sua rivista «Cultura sociale» teorizza una Democrazia cristiana come aggregazione politica, con una sua specifica struttura istituzionale, inserita nella battaglia politica e nelle lotte di classe, a favore dei lavoratori. La polemica tra queste varie posizioni produce profonde lacerazioni, al punto che Leone XIII, in un primo momento, interviene rettificando in una nuova enciclica, la Graves de communi, il vero significato da attribuire al termine Democrazia cristiana, limitandone la portata ad azione benefica a favore del popolo, senza nessuna valenza politica. Pio X metterà fine all’esperienza, sciogliendo l’Opera nel 1904, e assoggettando l’azione del laicato alla direzione della gerarchia. Nella visione di papa Sarto l’azione sociale è legittima opera della Chiesa, nella misura in cui realizza il ripristino degli ideali e dei valori della società cristiana. Solo al corpo pastorale, cioè al papa e ai vescovi, sono affidati il diritto e l’autorità necessari per promuovere e indirizzare tutti i membri del popolo cattolico verso le finalità sociali, come dirà in un successivo intervento, con l’enciclica dell’11 febbraio 1906, Vehementer.
Il pontificato di Pio X segna una battuta d’arresto nella dinamicità dell’impegno sociale dei cattolici, che trova la sua emblematica manifestazione nella condanna da parte del papa, nel 1910, del Movimento del Sillon. Questo era stato fondato in Francia da un giovane studente dal temperamento carismatico, Marc Sangnier, che predica ricordando il vecchio sogno dell’Avenir di Felicité de Lamennais, la cristianizzazione della moderna democrazia attraverso la collaborazione di credenti e non credenti, in un’azione politica e sociale che abbia come fine la formazione di una città futura, autenticamente democratica, espressione della realizzazione, nella realtà terrena, dei valori cristiani. Per Pio X il modo migliore per aiutare i poveri è ritornare agli organismi aboliti dalla rivoluzione, adattandoli, con lo stesso spirito cristiano, ai tempi.
L’Italia, che si risveglia unita nel 1861, è un paese povero, dominato dall’ignoranza e dalla miseria. Solo 25 italiani su 100 sanno leggere e scrivere. Nel 1881 un terzo dei bambini evade l’obbligo scolastico. In numerose province del nord e del sud la malaria è diffusissima, come rivela la Carta redatta nel 1882 dal Senato. Questi dati troveranno conferma nell’inchiesta agraria deliberata dal Parlamento e affidata al senatore lombardo Stefano Jacini. Dall’indagine, conclusa nel 1884, emerge un quadro drammatico della vita dei contadini italiani, lettura confermata nell’inchiesta condotta da Agostino Bertani, che mostra il volto di un paese in cui bambini e donne sono sottoposti a turni di lavoro inumani. L’inchiesta sulle condizioni igieniche e sanitarie dei comuni del Regno, condotta nel 1885, è una drammatica fotografia dei livelli di vita della società italiana e ci offre l’immagine di un popolo che la miseria e la cattiva alimentazione rendono spesso debole e malato. Le condizioni igieniche del paese sono complessivamente arretrate, come dimostreranno anche i censimenti nei decenni seguenti. «Come vivevamo nel 1900?» si chiede Pietro Bagnis, un contadino del cuneese intervistato da Nuto Revelli per il suo Il mondo dei vinti. La risposta è lapidaria:
«Di miseria […]. Eravamo quattordici in casa. Mio padre si toglieva la polenta di bocca per darcela. Mangiavamo tante castagne secche […]. Le nostre case non erano come oggi con le stanze. C’erano solo stalle e fienili. I vecchi dormivano nelle stalle, su un palco di tavole, e sotto c’erano le pecore, le vacche, i maiali. I giovani dormivano nei fieni»11.
La mortalità infantile è in questi anni altissima, come l’evasione scolastica. Nei centri urbani la coabitazione è spesso la norma, mentre il lavoro minorile è una piaga diffusissima.
Il cammino del cattolicesimo sociale, a cavallo della Prima guerra mondiale, deve misurarsi con la sfida posta dalla concorrenza: la beneficenza pubblica. Il governo italiano, dopo la legge Crispi del 17 luglio 1890, tenta di laicizzare l’assistenza, attraverso il controllo statale e la nascita delle Opere pie. Queste, non rispondenti più a uno scopo o a un bisogno sociale, sono concentrate in una Congregazione comunale di carità, dalla cui amministrazione sono esclusi gli ecclesiastici in cura d’anime. La legge mina le prerogative e il potere della Chiesa e del clero. Crispi ha una visione statocentrica, che subordina i diritti e le libertà dei cittadini e l’autonomia dell’iniziativa della società civile alla centralità dello Stato. L’obiettivo di questa complessa operazione giuridico-politica ha un’unica finalità: ridimensionare il potere della Chiesa, togliendole il monopolio dell’assistenza e limitando la sua presenza e il suo influsso, soprattutto negli ambienti più poveri e nelle campagne. Siffatta pretesa di managerialità, che informa la politica degli amministratori pubblici, tesa a trasformare anche questo nuovo apparato amministrativo dello Stato in una macchina efficiente e funzionante, ben si sposa con una cultura politica autoritaria e con un sistema giuridico per nulla garantista, che affida alla polizia poteri e strumenti tali da annullare i diritti di libertà individuale. I provvedimenti del domicilio coatto svolgono una funzione di repressione preventiva nei confronti delle classi pericolose della società come oziosi, vagabondi, indigenti e mendicanti. Costoro sono privati delle garanzie del processo penale e abbandonati all’arbitrio dell’autorità politica e della polizia. Il pauperismo e la miseria sono in questa cultura elementi di disordine e di disgregazione della stabilità sociale.
Nonostante il grande attivismo assistenziale e caritativo da parte della Chiesa, all’inizio del Ventesimo secolo il tema della povertà perde ogni suo appeal culturale, politico e sociale, passa di moda. Sia in Italia che nel resto dei paesi europei la nascita di un proletariato sempre più forte e consapevole dei suoi diritti e la nascita di una serie di istituti di previdenza e assistenza producono, di fatto, una sorta di spaccatura ideologica, tra ‘poveri operosi’ e ‘poveri oziosi’, questi ultimi responsabili della propria condizione, perché sostanzialmente non amanti del lavoro. Il povero ozioso, privo di ogni coscienza di classe, assume le sembianze del mendicante o dell’assistito dalla beneficenza privata o pubblica, mentre il povero operoso è l’unico e legittimo destinatario dei grandi sistemi di protezione, previdenziale e pensionistica, perfezionati con l’inizio del Novecento, centrati sui nuovi meccanismi mutualistici e assicurativi. Sono queste alcune delle ragioni per cui il tema della povertà perde, in questa prima parte del Novecento, ogni interesse e dibattito rispetto ai numerosi qualificati studi del periodo precedente12. La Chiesa italiana risponde a questa situazione con rinnovata passione. Dal Piemonte alla Sicilia vescovi, preti e laici si misurano con il nuovo scenario sociale, dando vita a una pluralità di iniziative, che mostrano una notevole genialità inventiva. La Chiesa esplora nuovi campi di apostolato sociale, come quello delle ‘Casse rurali’, con l’intento di «abituare al risparmio e combatter l’usura», aiutando i più poveri a non cadere vittime di sfruttatori, strozzini o esponenti della delinquenza organizzata. In breve tempo vedranno la luce diverse istituzioni cooperativistiche che nel 1910 sono già presenti in più di 62 diocesi italiane.
Al sud il padre Cusmano, che nella Palermo di fine Ottocento ha istituito il ‘boccone del povero’, si oppone alle decisioni dell’autorità comunale che caccia i poveri dalla città: «la povertà, afferma, non è un delitto che priva il cittadino della sua libertà; per conseguenza non può essere punita con la reclusione o con l’esilio». Egli critica, nello stesso tempo, anche i clericali, poco rispettosi della dignità e della libertà del povero, come quando nel Deposito di mendicità di Palermo si vuole imporre alle ragazze la confessione. La sua visione del povero mostra una profonda sensibilità biblica ed evangelica13.
Dal 1915 don Luigi Orione accoglie le miserie più ripugnanti, coloro che la società vuole togliersi dalla vista. «I nostri cari poveri […] – scrive – non sono ospiti, non sono dei ricoverati, ma dei padroni e noi loro servi; così si serve il Signore»14. Molte di queste fondazioni, che vedono la luce nella prima parte del Novecento, scelgono come specifico campo di apostolato alcune specifiche forme di povertà o luoghi di emarginazione, come le Oblate del Sacro Cuore, fondate da monsignor Giuseppe Cognata, che dal 1933 in Calabria, si dedicano quotidianamente all’igiene personale dei bambini poveri, o l’Opera delle Immacolatine di Calabria di Brigida Pastorino, che scelgono l’apostolato tra i più bisognosi15. C’è in tutte queste esperienze una radicale prospettiva cristiana di servizio che, come nota G.V. Rosoli, porta «al rispetto e alla valorizzazione del povero», in senso sacrale16. Solo attraverso la povertà è possibile essere rinnovati, rinnovare la Chiesa e cambiare il mondo. Non è un caso che molti istituti nella loro denominazione facciano esplicito riferimento alla povertà e al loro desiderio di servire chi è povero e abbandonato, scegliendo come nome Servi dei poveri, Servi della carità, Poveri servitori della Divina Provvidenza. Sia in ambiente religioso, sia laico, si diffonde, negli anni a cavallo della Prima guerra mondiale, una nuova tradizione religiosa, quella delle ‘Messe del povero’, come a voler unire, simbolicamente, l’elemento caritativo con la preghiera comune e la convivialità fraterna.
Ma la carità affascina anche tanti gruppi di democratici-cristiani, i quali per iniziative promosse da vari sacerdoti, il più delle volte di ispirazione murriana, danno vita a centinaia di cooperative di consumo, di società di assicurazioni per il bestiame, di cucine per i poveri, di società di mutuo soccorso, il tutto per aiutare e sostenere «operai e coloni che vedono ogni giorno peggiorare le loro condizioni di vita, di lavoro e di vitto»17.
Il pontificato di Benedetto XV è dominato dai problemi posti dallo scoppio della Prima guerra mondiale e dalla immane azione assistenziale, nei confronti delle tante drammatiche situazioni di povertà, acuite dalla guerra18. Nel suo pur breve pontificato, Giacomo Della Chiesa opera due significativi cambiamenti di linea nel magistero pontificio in materia sociale: da un lato incoraggia il clero a impegnarsi nel miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, favorendo la nascita di un autonomo associazionismo operaio, dall’altro, con la lettera della Congregazione del concilio al vescovo di Lille, pubblicata nel 1919, riconosce la legittimità del sindacalismo operaio cristiano, anche in funzione e in contrapposizione a quello socialista e comunista. In tal modo agli operai cristiani viene riconosciuta la libertà di difendere i loro legittimi interessi economici, senza produrre danno ai loro interessi spirituali e religiosi19.
Benedetto XV solleva il movimento cattolico dalla responsabilità politica di gestire la questione romana, ponendo fine a quel clima di sospetto e di contese che aveva diviso i cattolici nella stagione della lotta al modernismo. La scelta di neutralità imparziale adottata dalla Santa Sede rispetto al conflitto non impedisce al papa di mettere in campo una vera «diplomazia del soccorso», come ha scritto Alberto Monticone, avente per centro il Vaticano, la gerarchia locale e l’associazionismo20: una vasta organizzazione umanitaria e di assistenza sociale, che si occupa dei combattenti, con raccolta e trasmissione di notizie sui militari caduti, prigionieri, feriti, con agevolazione di rimpatrio per gli inabili, con protezione dei prigionieri internati. È questa un’azione che va spesso al di là dei casi individuali, per farsi carico di un’azione umanitaria rivolta a popoli o interi territori, o a zone di concentramento di profughi. Per quanto riguarda l’Italia, una pagina importante è scritta nei lunghi anni del conflitto bellico dai cappellani militari. Dal 1915 al 1918 quasi 25.000 ecclesiastici vestono la divisa militare, svolgendo un’opera di presenza capillare e carità quotidiana con la vasta massa dei soldati. È il più delle volte un’assistenza spicciola, fatta di elargizioni e di piccoli doni, di sussidi in denaro. Molti di loro spendono il loro stipendio di ufficiali in indumenti, coperte di lana, camice, sigarette, tabacco e il necessario per la corrispondenza. Fungono da intermediari nella non facile e, a volte, drammatica comunicazione tra l’esercito e le famiglie dei soldati; sono loro a comunicare i nomi dei militari caduti, feriti o dispersi. Insegnano, nel tempo libero, a leggere e scrivere ai tanti soldati analfabeti o semianalfabeti. Sono fidati intermediari, a cui ogni famiglia può liberamente ricorrere, evitando la burocrazia dell’apparato militare21. Molti vescovi, soprattutto nelle regioni di guerra, si dedicano ad un’ampia, articolata, flessibile attività caritativa verso le truppe combattenti e le popolazioni vittime delle invasioni22.
Con l’avvento al pontificato di Pio XI si ha una decisa ripresa dell’impegno sociale dei cattolici, in Europa e Italia. La pubblicazione dell’enciclica Quadragesimo anno, fatta uscire dal papa nel 1931, in occasione del quarantesimo della Rerum novarum, richiama la Chiesa universale sulla centralità della questione sociale per il futuro del cattolicesimo. L’enciclica riafferma la centralità di un ordine sociale equo, il diritto dovere dello Stato di organizzare e regolare il buon uso della proprietà, auspica un’economia associativa, a metà strada tra quella capitalistica e collettivistica, mediante la compartecipazione del lavoro agli utili dell’azienda. Gran parte del documento pontificio è, com’è noto, una radicale denuncia del socialismo collettivista e del comunismo, ma nello stesso tempo il papa prende le distanze dal liberismo mancesteriano. Il capitalismo si è trasformato:
«In un potere economico dispotico in mano di pochi, che spesso non sono neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori del capitale di cui essi però dispongono a loro arbitrio […]. Sono in qualche modo i distributori del sangue stesso di cui vive l’organismo economico, e hanno in mano, per così dire, l’anima dell’economia; sicché nessuno, contro la loro volontà, potrebbe nemmeno respirare»23.
La causa di questa alienante situazione è nell’instaurazione di un vero e proprio imperialismo internazionale del denaro. Pio XI non si limita alla condanna, ma spinge i cattolici all’azione. Propone una sorta di ‘terza via’ tra socialismo e capitalismo, ma soprattutto riconosce l’opera e il valore dei sindacati operai cristiani. L’enciclica va oltre, si misura con i profondi cambiamenti avvenuti a livello internazionale: la crisi del 1929 e il crollo di Wall Street, l’avvento dei totalitarismi, l’allargamento del conflitto sociale, non più relegato allo scontro tra due ideologie, ma divenuto confronto di due diversi modelli di Stato nazionale. Pio XI introduce il principio della giustizia sociale, affermando che la distribuzione delle ricchezze ha una superiore finalità etica e morale: il rispetto e la difesa del bene comune. In tal modo il papa supera, come scrive Daniele Menozzi:
«Lo schema, presente nel documento leonino, secondo cui i rapporti tra gli uomini dovevano essere regolati solo dalla giustizia commutativa e dalla giustizia distributiva, per introdurre anche il principio della giustizia sociale. La beneficenza, il patronato, l’elemosina, apparivano così del tutto insufficienti: al cristiano si richiedeva l’esercizio di una nuova virtù, appunto la pratica della “giustizia sociale”»24.
La novità e la modernità dell’enciclica papale sta da un lato nel riconoscimento della centralità della carità come virtù teologale e componente essenziale di ogni programma di azione sociale, dall’altra nel maturo convincimento che la soluzione al problema pauperistico sia in primis in una più equa distribuzione globale delle ricchezze.
Nel periodo tra le due guerre l’attività caritativa e assistenziale della Chiesa, sia in termini internazionali, sia italiani, si amplia, assumendo dimensioni massicce, mai raggiunte prima. Oltre mezzo milione di religiosi sono attivi in opere caritative, di cui trecentocinquantamila suore, gli istituti caritativi sono trentamila, gli assistiti quasi due milioni e mezzo e i volontari cattolici, coinvolti nell’assistenza locale, circa sei milioni e mezzo. In Italia sono più di tremila e seicento gli istituti di beneficenza, assistenza e cura, collocati prevalentemente in Piemonte, Veneto, Lazio e Lombardia, con migliaia di cliniche, scuole, orfanotrofi, case per anziani e ricoveri di mendicità25. La quantificazione dell’attività assistenziale non è riconducibile unicamente a questa dimensione strutturata. C’è una dimensione della carità quotidiana individuale, nascosta, realizzata il più delle volte da gruppi laicali, come le Conferenze di San Vincenzo de’ Paoli, quelle di Santa Elisabetta, dell’Ordine di Malta, che in questi anni acquista dimensioni notevoli, attraverso una rete di presenza in tanti luoghi di emarginazione e di esclusione sociale, soprattutto all’interno delle grandi periferie urbane.
Per far fronte a queste nuove esigenze, superare la dispersione, la mancanza di coordinamento delle varie iniziative, il parallelismo e la spontaneità degli interventi e facilitare la trasmissione degli aiuti da un paese all’altro, la Chiesa spinge per una sua razionalizzazione e un maggior coordinamento dell’azione caritativa, sia in termini nazionali che internazionali. In Germania, in Belgio e negli Stati Uniti i cattolici si sono già avviati lungo questo sentiero, raggiungendo un livello di efficienza e di coordinamento notevole, attraverso la nascita di varie organizzazioni nazionali26. In Germania, all’inizio del secolo, nasce la Caritas, esempio seguito dall’Austria nel 1903, dagli Stati Uniti nel 1910 e dalla Francia nel 1939. In Italia, sia l’Opera dei congressi, attraverso la sezione Carità ed economia cattolica, sia la successiva Unione economico sociale, non riusciranno mai a coordinare a livello centrale le varie iniziative dei cattolici. L’unico parziale successo si ha solo nel 1925, con l’Istituto cattolico di attività sociali, Icas, fondato dall’Azione cattolica.
Il tema della carità e del rapporto con i poveri è al centro della XVII Settimana sociale dei cattolici italiani, che si celebra a Roma nel 1933, Anno santo della redenzione, nel centenario dell’istituzione delle Conferenze di San Vincenzo de’ Paoli. Il tema è affrontato nei lavori a tutto campo, nei suoi aspetti scritturistici, biblici, teologici, dottrinali, storici, sociali e individuali. Al convegno partecipa il gotha dell’intellighenzia cattolica italiana. Il dibattito si polarizza attorno a due posizioni: da un lato quella del padre Agostino Gemelli, che parla della carità come grande antidoto di fronte alla svolta attuale della storia e al fallimento dell’individualismo laico e liberista, dall’altro quella molto più avanzata e moderna del padre Mariano Cordovani, che con chiarezza anticipatrice formula alcune determinanti conseguenze per la vita del cristiano, quali la condanna assoluta di ogni guerra e la corsa agli armamenti. Il futuro teologo pontificio scrive: «La guerra non è più la soluzione di un problema, ma la complicazione di tutti i problemi, […] praticamente è la più grande violazione della Carità, […] abdicazione alla dignità umana, una follia collettiva»27. Il divorzio tra Chiesa e mondo operaio è avvertito in questi anni particolarmente dal laicato cattolico come una ferita insopportabile. Nel 1924 in Belgio il futuro cardinale J. Cardijn e in Francia il padre G. Guérin, fondano la Jeunesse ouvriere chrétienne (Joc) una nuova forma di azione cattolica specializzata, nata dalla passione e dal sogno di ricristianizzare il mondo operaio, migliorando le sue condizioni di vita, facendosi ponte verso un mondo che vedeva la Chiesa lontana ed indifferente.
L’Italia che ritrova la propria libertà alla fine del 1945 è un paese segnato profondamente dalle devastazioni e dai drammi causati dalla guerra e dalla pesante ipoteca delle distruzioni materiali. Dopo l’8 settembre il paese si era ritrovato sotto l’occupazione tedesca e, da un giorno a l’altro, senza re e governo. A Roma, come scriverà Federico Chabod, entra in scena ‘un’altra forza’. La popolazione si precipita in piazza S. Pietro, per acclamare il papa ed esprimergli la sua riconoscenza. Pio XII è defensor urbis. Nei quasi venti mesi prima della fine del conflitto, il Vaticano, i vescovi, il clero e la struttura caritativa della Chiesa cattolica offrono una massiccia e capillare opera di assistenza a tutte le fasce della popolazione. In questo periodo di generale sbandamento e di vuoto politico istituzionale, la Chiesa resta al suo posto. Tutti i vescovi italiani rimangono al loro posto, solo quello di Massa Carrara abbandona la diocesi. Il vescovo di Udine, nel settembre del 1945, scrive: «All’arcivescovado confluiscono tutte le lacrime, le angosce, le proteste, le miserie. È un pellegrinaggio quotidiano di persone di tutte le età e di tutte le categorie […] e tutte escono dal suo ufficio, almeno con un conforto nel cuore»28. Don Primo Mazzolari ha definito l’azione umanitaria della Chiesa, in questa fase della storia d’Italia, tra bombardamenti alleati, occupazione tedesca, lotta fratricida, deportazioni e sfollati, fame, freddo, mercato nero e mancanza di alloggi, un ‘periodo eroico’29, caratterizzato dalla generale mobilitazione del papa, della Santa Sede, di tutta la rete parrocchiale e delle strutture dei religiosi e delle religiose italiane. In proposito scrive: «Venivano da ogni dove, a qualsiasi ora sotto i nomi più misteriosi, il prete apriva la porta, ricoverava, animava, consigliava, senza chiedere nulla, senza sapere chi fossero, donde venissero, quale fede politica li sorreggesse»30.
Volendo sintetizzare l’intervento di carità della Chiesa negli ultimi anni della guerra si possono individuare quattro filoni, ha scritto Vincenzo Paglia, nella sua Storia dei poveri in occidente31. Il primo è il tentativo, da parte dei vescovi, di evitare i bombardamenti delle proprie città: l’arcivescovo di Milano Ildefonso Schuster, dopo il bombardamento scrive al re Giorgio VI di Inghilterra per protestare. Pio XII si adopera in ogni modo affinché Roma sia risparmiata da ogni incursione aerea. Il secondo campo di intervento è la difesa dei prigionieri, dei deportati e dei condannati a morte, nonché il rimpatrio dei militari italiani ammalati. Pio XII chiede al cardinal Luigi Maglione di attivare i vari nunzi, affinché i militari italiani siano trattati umanamente e al più presto riportati in patria32. È noto come il sostituto della Segreteria di Stato monsignor Giovanni Battista Montini organizzi nel 1939, il Servizio informazioni, con lo scopo di ricercare le persone disperse e darne notizie alle rispettive famiglie. Tra il 1939 e il 1947 sono più di dieci milioni le domande esaminate. Il terzo è la protezione delle popolazioni contro le rappresaglie. Mino Martelli nel suo volume Una guerra e due resistenze (1940-1946) ha ricostruito il notevole impegno del clero nell’impedire l’esecuzione di condanne a morte, rappresaglie e linciaggi. Il quarto è la protezione dei perseguitati. La protezione della Chiesa si estende a ogni genere di evasi e fuggiaschi. In questi mesi di guerra fratricida, le istituzioni ecclesiastiche sono spesso luoghi ‘franchi’, al di sopra delle parti, che non guardano al passato, alle divise, all’appartenenza politica e ideologica. Nei vescovadi, nelle parrocchie, negli istituti religiosi, tedeschi, fascisti, partigiani e gente comune trovano accoglienza e protezione. Non è una decisione centralizzata a ordinarlo, ma l’esercizio della carità, intesa come opera di misericordia. Quando il prefetto di Venezia protesta con il cardinal Piazza perché i sacerdoti aiutano i prigionieri, si sente rispondere: «Quando un prete fa la carità non domanda né la carta di identità né la razza, egli vede nel povero nostro Signore Gesù Cristo e l’aiuta». Un esempio su tutti è l’accoglienza riservata a ogni genere di rifugiato politico dal Seminario maggiore di Roma, in cui trovano ospitalità rappresentanti del Comitato di liberazione nazionale, badogliani, generali fascisti, segretari di partito. Un capitolo a parte merita la protezione nei confronti degli ebrei. Andrea Riccardi, in uno dei suoi ultimi lavori, L’inverno più lungo, ha ricostruito l’impegno della Chiesa di Roma che ha accolto e salvato tra le dieci e le dodicimila persone, nascondendole nella città. A Milano l’arcivescovo dà vita ad un’apposita organizzazione per aiutare gli ebrei, mentre a Firenze il Comitato ebraico, per organizzare l’aiuto, è ospitato nell’arcivescovato. In molti conventi, episcopi e case di gente comune, dalla Sicilia alla Lombardia, gli ebrei sono sottratti ai loro persecutori.
Pio XII non scriverà mai una vera e propria enciclica sociale, né apporterà sostanziali modifiche all’approccio tradizionale con cui la Chiesa affronta il problema dei poveri. In un radiomessaggio pronunciato per il Natale 1952 addita l’esempio offerto da Gesù come il modello ideale che ha ispirato la sua azione personale a favore di profughi, orfani, perseguitati e prigionieri di guerra, non chiedendosi, secondo un atteggiamento attribuito allo stesso Cristo, le ragioni economiche e sociali della povertà, né cercando di rimuoverle, ma soccorrendo, ovunque si presenti la necessità, i bisognosi. Nessuna organizzazione di assistenza o istituzione caritatevole può esentare il cristiano, nella sua vita quotidiana, dall’opera di soccorso individuale e fraterna. Molto più dei suoi predecessori insisterà perché i cristiani si impegnino per il conseguimento della giustizia sociale e del bene comune33.
È convinzione diffusa, in questi anni, che la miseria così vasta e diffusa nel paese possa favorire e far aderire nuovi adepti al comunismo. La carità, da un lato, rappresenta un canale organizzativo attraverso cui passa il nuovo rapporto che il papa intende avere con le masse, dall’altro, l’arma con cui opporsi e far barriera alla crescita dei nuovi nemici della Chiesa. Questo non significa fare discriminazioni nell’aiuto, che deve essere offerto a tutti indiscriminatamente, ma orientarlo il più possibile alla costruzione di quella società cristiana che sta tanto a cuore al papa. Padre Federico Lombardi parla del comunismo come ‘verga di Dio’ e invita i cattolici a prosciugare l’acqua nel quale prospera, attraverso una vera carità sociale, fondata sulla giustizia cristiana.
L’impegno assistenziale entra a far parte integrante del più complessivo disegno della Chiesa sul paese, assumendo risvolti sociali e politici inediti nella storia nazionale. È il caso della Pontificia commissione di assistenza. Durante la guerra e nel lungo dopoguerra la Chiesa di Pio XII si fa carico di migliaia di profughi e di sfollati, che hanno perduto tutto, casa, famiglia, abiti e pace. Il papa affida a Ferdinando Baldelli, il 18 aprile del 1944, la Pontificia commissione di assistenza ai profughi, trasformatasi nel dopoguerra in Pontificia opera di assistenza. La guerra, è noto, crea prigionieri, feriti e orfani. Negli anni Cinquanta e Sessanta, l’opera della POA si concentra, soprattutto sull’assistenza alle famiglie in difficoltà e ai bambini. Le mense dei poveri prendono il nome di «Refettori del papa» e raggiungono il numero di duemila, ripartiti in più di 175 diocesi. Nel 1947 sorgono le colonie estive e si amplia la rete di presenza e assistenza nelle carceri. Nell’ambito sanitario la POA può contare sull’impegno volontario e sulla disponibilità di circa duemila medici. Spazia dall’assistenza alle emergenze, basti pensare all’alluvione del Polesine e del Sannio e al disastro del Vajont, alla mobilitazione nell’ambito educativo, alla creazione, particolarmente nelle zone più disagiate del meridione, di centri sociali per aiutare braccianti agricoli, pastori e pescatori. Una vera ‘macchina da guerra’, presente in ogni angolo del paese.
La fine della Seconda guerra mondiale pone con maggior evidenza e drammaticità, per la vita della Chiesa, il rapporto del cristianesimo con la società industriale e col contesto urbano e il profondo processo di scristianizzazione delle masse operaie.
In Francia, nello sforzo di abbattere quel muro di separazione che sembra dividere la Chiesa dal mondo operaio, due giovani sacerdoti, assistenti della Joc, Yves Daniel e Henry Godin, scrivono un libro esplosivo, La France, pays de mission?, che scuote nel profondo gli ambienti cristiani francesi ed europei. I due sacerdoti denunciano l’assenza del cristianesimo, nelle grandi periferie della città, frutto di una pastorale arcaica e di un disinteresse complice. Come colmare questo fossato? Come guadare il fiume e approdare all’altra sponda? Facendosi operai, vivendo, lavorando, sperando e soffrendo come loro, assumendo la loro condizione di vita, liberando il cristianesimo dal monopolio della cultura borghese. L’arcivescovo della città, il cardinal Emmanuel Suhard, approva l’iniziativa e autorizza l’esperimento, nasce la Mission de Paris. I sacerdoti vanno a vivere nell’estrema periferia, in camere ammobiliate e prive di ogni conforto. Questa esperienza, che verrà chiusa da Roma, non ha in Italia, almeno fino agli anni Sessanta, un largo seguito. Qui il problema dell’evangelizzazione del mondo operaio è affrontato con altri strumenti e organismi, che fanno capo a l’Onarmo e alle Acli. Il primo a vivere un’esperienza in parte simile a quella dei confratelli francesi, negli anni Cinquanta, è don Sirio Politi, che tra il 1956 e il 1959 lavora nei cantieri di Viareggio. Solo dopo il concilio diversi preti entreranno, con il consenso del vescovo locale, in fabbrica.
Questo desiderio di farsi povero, di assumere volontariamente questa condizione in termini culturali, spirituali e materiali è al centro di un’altra esperienza francese, che segnerà più di quanto la storiografia abbia evidenziato il cattolicesimo italiano, quella di Charles de Foucauld. L’itinerario di questo straordinario uomo spirituale è ripreso nel 1933 dal padre René Voillaume con la congregazione dei Piccoli fratelli. Accanto alla preghiera, all’adorazione e all’intercessione, il carisma specifico di questo istituto è la pratica della povertà e del lavoro in tutti gli ambienti lontani dalla Chiesa, come scrive il padre R. Voillaume34. Ai Piccoli fratelli si aggiungeranno le Piccole sorelle, fondate da petite soeur Magdeleine. Non assumono la gestione di opere caritative, non insegnano, per loro il problema non è tanto fare, ma essere, attraverso l’amicizia e la solidarietà, compagni degli ultimi e dei bisognosi. È questa la via del nascondimento, quella praticata da Gesù nella vita di Nazareth, fatta di preghiera, adorazione e intercessione. La pubblicazione del volume di Voillaume Come loro segna profondamente la spiritualità e la cultura di non pochi preti e laici italiani, indicando una nuova via nel rapporto con i poveri: quella della condivisione.
Il cattolicesimo italiano si popola negli anni precedenti il concilio Vaticano II di un numeroso ‘tessuto carismatico’ che ha radici profonde, privo «di uniformità, connesso a tradizioni e spiritualità diverse: intellettuale o popolare o mistico»35. Sono uomini che hanno alle loro spalle storie, culture, itinerari umani e religiosi differenti, sono laici ed ecclesiastici, intellettuali ed eremiti, politici e monaci: Giorgio La Pira, Giuseppe Dossetti, Giulio Facibeni, Lorenzo Milani, Ernesto Balducci, Enrico Bartoletti, Giovanni Vannucci, Primo Mazzolari, Divo Barsotti, Anselmo Giabbani, Benedetto Calati, David Maria Turoldo, Zeno Saltini, sorella Maria dell’Eremo di Campello, Giovanni Rossi, Carlo Carretto, Nazzareno Faretti, Arturo Paoli e Mario Rossi. La riscoperta della dimensione sociale e religiosa del rapporto con i poveri è, seppur con accenti e letture diverse, al centro delle loro esperienze.
Si tratta di una stagione fervida di utopie e di progetti riformatori, in una Chiesa ancora concepita come società perfetta, in un cattolicesimo organizzato, sazio e rassicurato da adunate di massa, all’apogeo di quelli che Mario Rossi ha definito, con una formula di indubbio successo, ‘i giorni dell’onnipotenza’. Uomini che desiderano, ciascuno a modo suo, una riforma della Chiesa, che abbia come primo effetto una globale riconsiderazione del suo rapporto con i poveri e i lontani. C’è l’utopia di Giorgio La Pira, che «nell’attesa della povera gente», sogna una vera politica cristiana, al servizio della comunità, capace di cambiare la società e garantire un lavoro e una dignità a tutti i poveri. O quella di Giuseppe Dossetti, che lascia la politica per condividere la vita dei ‘minimi’. Don Zeno Saltini, un ‘totalitario’ della carità, spera di trasformare le pietre scartate dai costruttori attraverso la rigenerazione di Nomadelfia, in testate d’angolo, come dice la Scrittura: un progetto che avrà una capacità attrattiva su molti ecclesiastici di quella generazione, da David Turoldo a Giovanni Vannucci, all’Eremo di Campello, al vescovo di Carpi, a V.F. Dalla Zanna e perfino al cardinal Alfredo Ottaviani, che anche dopo la riduzione allo stato laicale del sacerdote sarà sempre disponibile ad aiutarlo, non considerandolo mai un eretico36. Una scelta per i poveri è senza dubbio quella vissuta in questi anni da due figure ‘profetiche’ del cattolicesimo italiano: Primo Mazzolari e Lorenzo Milani. Ne La via crucis del povero, un cantico sui valori cristiani della povera gente, don Primo esprime con profondità e poesia il desiderio di una rivoluzione cristiana che trasformi le condizioni materiali della gente comune: i poveri sono l’uomo verso il quale il crocifisso si piega per istinto: dalla Sicilia ai braccianti della Val Padana, agli operai della Pignone. Un cammino analogo e più radicale è quello di don Milani, che si identifica in modo totale con il proletariato di Calenzano e poi di Barbiana. Nella sua esperienza di prete ed educatore avverte in modo lacerante come i poveri non possano stare in una Chiesa solidale con chi i poveri opprime. La Lettera a don Piero esprime questo disagio. L’esperienza di don Milani lascerà profondi solchi nel cattolicesimo italiano per originalità e ricchezza.
Con l’avvento di Giovanni XXIII e la celebrazione del concilio Vaticano II, il tema dei poveri torna al centro del magistero e della prassi pastorale della Chiesa. Quando Angelo Roncalli sale al soglio pontificio il mondo è nel cuore di una serie di radicali trasformazioni. In Occidente la crescita economica è in forte aumento. È mutata la speranza media di vita delle popolazioni. A questo benessere del primo mondo, si contrappone la miseria dei paesi sottosviluppati, segnati dalla povertà e da una forte espansione demografica. Un profondo fossato divide il mondo tra ricchi a nord e poveri a sud. La fame, la sete, le carestie e le epidemie, la mancanza di istruzione sono le nuove catene che rendono i popoli di molti paesi schiavi della miseria e del sottosviluppo. Le immagini della denutrizione, della miseria e della malattia suscitano nell’opinione pubblica occidentale il dovere morale di intervenire. La povertà non è più fenomeno residuale o espressione di alcune classi sociali: è un fenomeno di massa, che contagia interi popoli.
L’11 settembre 1962 il nuovo papa annuncia al mondo con un radiomessaggio la prossima apertura del concilio e dice: «In faccia ai paesi sottosviluppati, la Chiesa si presenta quale è e quale vuole essere, come la Chiesa di tutti e particolarmente la Chiesa dei poveri».
Già con la sua enciclica Mater et magistra del 15 maggio 1961, Giovanni XXIII aveva invitato la comunità internazionale a una condivisione più equa e giusta dei beni. Nel discorso di apertura del concilio il papa riprende il tema della povertà sottolineando come «al genere umano oppresso da tante difficoltà essa [la Chiesa], come già Pietro al povero che gli chiedeva l’elemosina dice: io non ho né oro, né argento, ma ti do quello che ho: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno levati e cammina». È questo un tema che trova eco in due testi del concilio, la Gaudium et spes e il decreto Ad gentes. Nella prima si afferma la destinazione universale dei beni della terra e la conseguente funzione sociale della proprietà. «Perciò, l’uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possono giovare non solo a lui ma anche agli altri»37.
Durante i lavori conciliari un gruppo di vescovi, su suggerimento del padre Paul Gauthier e del vescovo di Galilea, G. Hachim, aveva fatto circolare tra i vescovi un documento nel quale si chiedeva al concilio una maggiore e più incisiva azione verso i poveri da parte della Chiesa. Le proposte di questo gruppo informale, che si riuniva al Collegio belga, non ebbero grande esito sul piano istituzionale, anche se imposero il decisivo n. 8 di Lumen Gentium sulla Chiesa e la povertà di Gesù. L’iniziativa fu supportata da alcuni importanti leader del concilio, Hélder Câmara, i cardinali Léon-Joseph Suenens e Giacomo Lercaro. Questi, in un intervento il 6 dicembre 1962, pone come tema centrale del concilio quello della povertà. L’arcivescovo di Bologna, oltre a ricordare che Gesù scelse la povertà come segno e come forma, si fa latore di una serie di proposte concrete quali uno stile di vita più sobrio, la limitazione dell’uso dei beni materiali da parte degli ecclesiastici, una revisione dei comportamenti economici nel governo della Chiesa: una lettura non condivisa da molti padri conciliari, per i quali la povertà che affligge i popoli del sud non ha origine solo nella mancanza di pane e di case, ma soprattutto nella privazione del pane spirituale.
Paolo VI, riaprendo la sessione del 1963, torna sul tema: «La Chiesa guarda ai poveri, ai bisognosi, agli afflitti, agli affamati, ai sofferenti, ai carcerati, cioè guarda a tutta l’umanità che soffre e che piange: essa le appartiene per diritto evangelico»38. Rifiuta l’incoronazione e, solennemente, nella basilica di S. Pietro depone la tiara per offrirla ai poveri. Paolo VI ha un senso alto, religioso dei simboli, intende così mostrare al mondo una Chiesa che si spoglia di ogni potere umano e si fa povera con i poveri. Chiudendo l’assise conciliare propone alla cattolicità universale, come paradigma per la spiritualità del nostro tempo e della vita del cristiano, la parabola del buon samaritano. Il cristiano è l’uomo della compassione che, come Gesù, «va e fa lo stesso». Il pontificato di Montini segna una svolta radicale nel magistero pontificio, aprendo una seconda stagione della dottrina sociale cattolica. Con la Popolorum progressio la questione sociale si fa planetaria. I popoli della fame, scrive il papa, interpellano in modo drammatico i popoli dell’opulenza. Nel documento egli affronta analiticamente i problemi del sottosviluppo, indicando i criteri guida a cui devono conformarsi le attività promosse dalla Chiesa e soprattutto ribadisce che il superfluo dei paesi ricchi deve servire ai paesi poveri: «Lo sviluppo è il nuovo nome della pace». Davanti ai rappresentanti delle nazioni, nel palazzo delle Nazioni Unite, si presenta come «l’avvocato dei popoli poveri».
La Chiesa italiana attraversa, negli anni del postconcilio, una delle sue prove più difficili, con la vicenda del cosiddetto ‘dissenso cattolico’. Si tratta di un movimento con molte anime, non omogeneo, molecolare e spontaneo, il cui desiderio unificante è il rinnovamento della Chiesa, attraverso una nuova ecclesiologia fondata sulla prossimità ai poveri, la denuncia del carattere discriminatorio della borghesia e di molte istituzioni sociali e politiche e il rifiuto della guerra e del servizio militare. Non c’è discontinuità nella loro visione tra fede, impegno sociale e azione politica, tanto che i confini tra politica e religione si annullano. Si rifiuta un cristianesimo neutrale e intimista, che si accontenta di assistere paternalisticamente chi è povero ed emarginato, rifiutando di lottare per l’affermazione di una giustizia, in cui i poveri siano redenti, non solo nell’aldilà, ma anche nella città terrena. Questa cultura, segnata da suggestioni egualitarie e pauperistiche, da una concezione della politica come veicolo omnicomprensivo per ogni trasformazione sociale ed economica, da un forte antiamericanismo, determinato dalla guerra del Vietnam e da una interpretazione unilaterale del concilio, portano questo magmatico movimento, in aperta opposizione alla Chiesa istituzionale, vista troppo spesso alleata del potere politico conservatore e del colonialismo, a ridurre la carità a una escatologia politico sociale. L’accettazione della prospettiva marxista esaspererà la vocazione di questo movimento a risolvere i problemi dei poveri e degli emarginati, sia nelle società opulente che nei paesi del terzo mondo, attraverso il riscatto di una liberazione politica. La carità non può ridursi a puro assistenzialismo poiché il povero è un oppresso, un disumanizzato dal sottosviluppo. Essa perde ogni valore trascendentale ed è vera solo se si trasforma in coscientizzazione politica. È difficile sintetizzare la geografia di questo universo. Don Enzo Mazzi inaugura, con la Comunità dell’Isolotto a Firenze, un modello alternativo di comunità aperta al quartiere e ai più poveri. A Genova nasce la Comunità di Oregina; a Torino quella del Vandalino, a opera di don Vittorino Merinas; al Sacro Cuore di Ravello, a Potenza, quella animata da don Bisceglie. Don Giovanni Franzoni, ex abate di S. Paolo, pubblica una lettera pastorale La terra è di Dio. Riviste quali «Testimonianze», «Il Regno», «Il Gallo», «Il Tetto» e «Idoc Internazionale», fanno da coagulo a tale forte spinta aggregativa, a livello di base.
Molti sacerdoti e religiosi abbandonano le loro collocazioni istituzionali e vanno a vivere nelle periferie: don Roberto Sardelli a Roma, all’Acquedotto Felice, ove crea la Scuola 725, il salesiano belga Gerardo Lutte, a Prato Rotondo. La vita religiosa è attraversata da un forte e tumultuoso processo di rinnovamento biblico, teologico e spirituale e da una riscoperta del senso autentico della povertà. I religiosi abbandonano una vita garantita dal punto di vista materiale e scelgono di vivere in piccole comunità, spesso alla periferia dei grandi quartieri dormitorio, guadagnandosi da vivere con il proprio lavoro: solo a Roma tra il 1971 e il 1974 inizia una sistematica opera di penetrazione delle borgate a opera di più di 40 comunità religiose. Suore e preti trasformano così l’esercizio della loro carità in solidarietà quotidiana con chi non ha lavoro né salario, solidarizzando con la sofferenza e l’ansia di giustizia di migliaia di uomini e di donne. Molti mettono in pratica radicali scelte di vita, entrando spesso in rotta di collisione con i loro rispettivi istituti.
La grave recessione economica in cui precipita il paese nel 1973 per gli effetti della crisi petrolifera internazionale, il riproporsi degli antichi spettri della disoccupazione e dell’inflazione rimettono al centro del dibattito politico, sociale culturale nazionale il tema della povertà. L’assoluta certezza che la crescita economica avrebbe cancellato definitivamente la povertà, è sconfessata dalla realtà del processo storico. Il mito del progresso economico si esaurisce. Dopo anni di silenzio e di indifferenza la povertà torna di moda, anche sul piano culturale e scientifico, ed è oggetto di numerosi studi e indagini promosse da vari enti e istituzioni. Una ricerca del Censis, alla fine degli anni Settanta, segnala come la povertà non è solo mancanza di mezzi economici, ma anche impossibilità di accedere ai nuovi consumi indotti e mancanza di relazioni sociali. La Presidenza del Consiglio dei ministri dedicherà al tema ben tre rapporti redatti da un’apposita commissione: nel 1983, nel 1985 e nel 1988. Il 17 settembre 1985, presentando i lavori della Commissione presieduta da Ermanno Gorrieri, il Presidente del Consiglio dei ministri Bettino Craxi riconosce che una società evoluta e complessa come quella italiana ha bisogno di molto studio per non muovere avventatamente i suoi passi. Conoscere, conoscersi, è dunque un imperativo39. Nel 1983 le persone povere, in Italia, sono più di sette milioni, pari al 13% del totale della popolazione; cinque anni dopo salgono a otto milioni e mezzo, pari al 15% del totale.
Sociologi ed economisti elaborano una definizione più appropriata e aderente della povertà ‘non da Terzo mondo’, come si ripete da più parti in tutta la pubblicistica dell’epoca, arricchendola di nuove connotazioni teoriche. D’ora in poi la povertà si misura e si calcola sulle famiglie e non più sul singolo cittadino e si rapporta al tenore di vita, per quanto riguarda i mezzi economici, alla spesa per i consumi, anziché al reddito. Si distingue tra povertà relativa e assoluta. Essere poveri non è più solo avere pochi soldi, ma è il risultato di un processo complesso. Nascono nuovi criteri di analisi, di quantificazione e di rappresentazione quali l’eguaglianza, la disuguaglianza, l’indigenza, la vulnerabilità sociale, ma soprattutto l’esclusione sociale. Gli elementi di fragilità non sono solo più di carattere strettamente economico: ci sono la solitudine, l’incapacità ad affrontare eventi negativi della vita, la povertà nascosta. I suoi significati si ampliano. Prima in Francia e poi in Italia si inizia a parlare di nuove povertà. A partire dagli anni Settanta, scoppia il problema delle persone anziane, che da un giorno all’altro diventano ‘scomode’, come denuncia uno dei primi libri, che lancia l’allarme, prodotto dalla Cooperativa cultura popolare40. Il dramma della povertà e dell’esclusione sociale si declina in nuove categorie di emarginati, come i minori e i giovani a rischio, i disabili fisici, psichici e sensoriali, i tossicodipendenti e gli alcolisti, i detenuti e gli ex detenuti, gli stranieri e i senza fissa dimora, le famiglie a rischio e le madri nubili, gli zingari, i malati assistiti e gli anziani istituzionalizzati. Tra gli anni Sessanta e Settanta si registra in Italia una decisiva svolta in campo sociale: la progressiva e massiccia deistituzionalizzazione, frutto di un vasto movimento sociale e culturale contro la custodia negli istituti. La legge 431 del 1967 istituisce l’adozione speciale, che permette a ben 150.000 bambini istituzionalizzati di trovare nuove famiglie. La legge 180 del 1978, nota come legge Basaglia, libera più di 94.000 malati mentali dalla reclusione e dalla costrizione.
Attorno a questo vasto pianeta di nuovi e antichi poveri, di esclusi, di emarginati, di senza voce, si mobilitano, con motivazioni e approcci diversi, i tanti mondi dell’universo cattolico italiano. L’Italia degli anni Sessanta e Settanta conosce un ricco panorama di esperienze, una fioritura di nuovi movimenti e comunità. Nell’ampia corrente carismatica che percorre il secolo XX, e particolarmente il nostro paese, il tema dei poveri è al centro dell’ispirazione e dell’azione. Il mondo dei laici cattolici si volge al sociale, al di là della politica. Accanto a movimenti nati prima del concilio (Comunione e liberazione, Movimento del focolare, Cammino neocatecumenale, Rinnovamento dello Spirito) esplode il cosiddetto ‘nuovo volontariato’, in concomitanza con l’esaurirsi dell’intervento pubblico da parte dello Stato, con la perdita di legittimità delle istituzioni e dei partiti, con l’esigenza di rispondere ai nuovi bisogni e alle nuove povertà e con la riscoperta, infine, di quelli che Achille Ardigò definirà i ‘mondi vitali’41. Nel primo incontro del volontariato di ispirazione cristiana, che si terrà a Sassone nel 1975, promosso dalla Caritas presieduta da Giovanni Nervo, partecipano ben 181 gruppi operanti ‘per la promozione umana nel campo dei servizi sociali’. È anche questa una costellazione di esperienze difficili da sintetizzare: si va dal Gruppo Abele di don Luigi Ciotti a Torino, per condividere le difficoltà di chi è più povero nella società; alla Comunità di Capodarco di don Vinicio Albanesi, per il reinserimento sociale dei giovani handicappati fisici; a Carcere e Comunità di don Germano Greganti, per il reinserimento dei detenuti; a decine di centri di prima accoglienza e case famiglia, cooperative di lavoro, sparse in ogni angolo del paese; al capillare movimento delle comunità terapeutiche di don Pierino Gelmini ad Amelia, don Mario Picchi a Roma, don Andrea Gallo a Genova, don Gino Rigoldi a Milano e don Oreste Benzi a Rimini (sino al 1975 le uniche risposte alla tossicodipendenza sono il carcere e l’ospedale psichiatrico).
Questo variegato mondo sente la carità, a partire dalla condivisione e dal rifiuto di un approccio assistenziale, alla luce di un nuovo orientamento che avrà come parola chiave ‘la lotta all’emarginazione’. I poveri non hanno solo diritto ad essere assistiti, bisogna che siano reinseriti nella società, solo così si potrà ricostruire una nuova qualità nei rapporti sociali. La carità diviene condivisione con gli ultimi, riconoscimento e tutela dei loro diritti, ma soprattutto impegno a che le fasce e le categorie sociali più povere ed emarginate siano incluse con pieno diritto nei benefici del welfare state.
Negli stessi anni a Roma nasce la Comunità di Sant’Egidio. Si tratta di un’esperienza «nata tra gli studenti con lo scopo di alleviare le povertà delle periferie urbane, e poi diventata un punto di riferimento importante nello sviluppo del dialogo interreligioso e negli incontri per collaborare al raggiungimento della pace tra i popoli o paesi in guerra»42. Matura, all’interno di questa esperienza, una peculiare visione della carità e del servizio ai poveri, al di là delle semplificazioni ideologiche e dell’assistenzialismo, in una nuova alleanza radicale con i poveri, visti come fratelli e come parenti, in cui «chi serve si confonde con chi è aiutato e servito»43.
Negli anni del postconcilio i cattolici italiani scoprono il Terzo mondo, che diviene oggetto non solo di riflessione, ma di impegno nell’ambito della cooperazione e dei diritti umani. Sia pure con modi e intenti diversi, tanti si avvicinano alle problematiche dei paesi in via di sviluppo. A spingerli c’è l’euforia della decolonizzazione, i nuovi orizzonti del magistero pontificio, il rinnovamento conciliare. Il Terzo mondo pervade la coscienza collettiva dei cattolici italiani, generando un’azione caritativa e umanitaria di grandi dimensioni volta ad alleviare le sofferenze dei popoli del Sud. Vedono la luce decine di esperienze, da Mani Tese al Mlal, che si confedereranno negli anni seguenti all’interno della Focsiv. Nel 1978 nasce il Movimento del volontariato italiano e di lì a poco la Fondazione italiana per il volontariato, definite nel rapporto del Censis del 1991 sulla situazione sociale del paese, come ‘polmone sociale della solidarietà’44.
Ma la carità, con gli anni Ottanta, si fa impresa sociale, non profit, terzo settore. Il volontariato si trasforma in servizi professionali che hanno la maggioranza del personale retribuito e pochissimi volontari. La gratuità perde valore.
L’ascesa al pontificato di Giovanni Paolo II nel 1978 apre una fase nuova nella storia del cattolicesimo, anche in Italia. Tra le tante utopie storiche di Karol Wojtyla c’è quella di riavvicinare e unificare la famiglia umana, divisa tra Nord e Sud, tra sviluppo e sottosviluppo, tra opulenza e miseria. All’obiettivo di superare questa scandalosa disuguaglianza egli dedica larga parte delle sue energie e del suo impegno. Pur in polemica dura con la teologia della liberazione, in tutti i suoi viaggi nel Sud del mondo ribadisce la volontà della Chiesa di dare voce a coloro che non sono ascoltati, chiedendo giustizia e non soltanto elemosina. In modo più organico il suo pensiero è riassunto nelle sue due encicliche sociali, la Sollicitudo rei socialis del 1987 e la Centesimus annus del 1991. Giovanni Paolo II pone la questione del sottosviluppo al vertice di quelle da affrontare per entrare nel terzo millennio.
Anche l’episcopato italiano riscopre, fin dall’inizio degli anni Settanta, con maggiore sollecitudine e dinamismo, la ricerca e la realizzazione di un nuovo e più radicato rapporto con i poveri. Le tappe di questo cammino sono scandite da una serie di appuntamenti che segneranno nella prassi pastorale e a livello magisteriale le relazioni della Chiesa italiana con i poveri. Nel 1971 Paolo VI aveva soppresso la Pontificia opera di assistenza e istituito la Caritas, che dal 1975 diviene un organismo della Cei. È un cambio di prospettiva e di mentalità radicale, che fa fatica ad affermarsi. Ricevendo i presidenti delle Caritas diocesane, nel 1972, Paolo VI parla di «pedagogia della carità», che vada oltre la pura distribuzione di aiuti materiali, che faccia comprendere il suo aspetto spirituale. Una carità che non si misura in cifre e in bilanci e non è ridotta a puro attivismo sociale45. La nuova frontiera è quella della promozione umana, della condivisione, dell’impegno per la giustizia. Questo cammino della pastorale della Chiesa italiana, sulle tracce della carità, passa per una serie di altri decisivi appuntamenti. Nel 1971 il Sinodo dei vescovi afferma che l’impegno per la giustizia è parte integrante della evangelizzazione, un evento che avrà una ricaduta significativa sulla vita della Chiesa italiana. Nel 1972, con l’arrivo di Enrico Bartoletti alla Segreteria della Cei, parte il programma pastorale Evangelizzazione e sacramenti. Nel 1974 si celebra a Roma, con grande eco nazionale, il convegno diocesano promosso dal cardinale Ugo Poletti e animato da un testimone della carità contemporanea, Luigi Di Liegro, dal titolo: Le attese di carità e di giustizia della diocesi di Roma. Il presidente della Caritas diocesana di Roma sogna una Roma in cui tutti possano vivere insieme. La sua vita spesa al servizio degli ultimi è sintetizzata dalle sue stesse parole, pronunciate a Cagliari il 23 marzo 1993, qualche tempo prima di morire:
«L’interesse della Chiesa nei confronti delle fasce più marginali è l’interesse privilegiato della Chiesa […]; i poveri sono i clienti preferiti di Dio […]; quando la Chiesa dimentica i poveri non è più la Chiesa di Cristo, perché i poveri sono amati, sono i preferiti di Dio»46.
Dal 30 ottobre al 4 novembre 1976 i vescovi promuovono, a Roma, il I convegno nazionale della Chiesa italiana sul tema Evangelizzazione e promozione umana. L’obiettivo della gerarchia è quello di ritrovare un’unità di fondo tra le due tendenze che dividono i cattolici italiani, quella della ‘scelta religiosa’ e quella dell’‘impegno per la liberazione dell’uomo’, la cui contrapposizione rischia di paralizzare la comunità cristiana47. Il convegno non produce un documento unitario, ma il problema di una particolare attenzione al coinvolgimento dei poveri e degli emarginati è forse il punto che raccoglie maggior consenso e unità tra le varie correnti presenti nei 2.500 partecipanti.
La carità quale luogo privilegiato della prassi pastorale inizia ad affacciarsi come convincimento esplicito all’inizio degli anni Ottanta. La prima formulazione si trova nel documento del 1981 La Chiesa italiana e le prospettive del paese, che lancia il motto «ripartire dagli ultimi». Esso segna una nuova geopolitica ecclesiale: tutta la vita della Chiesa, nelle sue varie articolazioni, deve ripensare la sua vita ad intra e ad extra, a partire dai più poveri e dai più emarginati. Una conferma, in questo senso, verrà dal convegno di Loreto del 1985. Qui emerge una esplicita contrapposizione tra Comunione e Liberazione ed Azione Cattolica. I termini della polemica «si coagulano intorno alle opposte accuse di ‘integrismo’ e di ‘protestantesimo’: al centro dello scontro c’era il rapporto tra dimensione religiosa e attività politica»48. Il documento finale riconosce l’indissolubile rapporto tra catechesi, sacramenti e azione caritativa, invitando ogni comunità ecclesiale e chiesa locale a conformare il suo agire attorno al primato della carità. Nella sua relazione Bruno Forte si pronuncia contro una sorta di riproposizione ideologica del cristianesimo, con ambizioni di egemonia. Il papa invita i vescovi a uscire dalla loro timidezza, andando oltre la cultura della mediazione, riconoscendo che anche in una società pluralistica e parzialmente scristianizzata la Chiesa è chiamata a operare, con umile coraggio, affinché la fede cristiana recuperi un ruolo guida e un’efficacia trainante nel cammino verso il futuro del paese. Questa nuova sensibilità pervade le chiese locali. A Torino il cardinale Michele Pellegrino ricentra il cammino della diocesi attorno alla riscoperta del servizio ai poveri. A Milano il cardinale Carlo Maria Martini nel 1980 convoca la sua Chiesa attorno all’obiettivo di «farsi prossimo».
La riforma del Concordato nel 1984 segna la fine del sistema beneficiale e introduce un nuovo metodo di raccolta dei fondi, affidata ai cittadini e mediata dallo Stato: l’otto per mille (oltre alle offerte deducibili). Dallo Stato arrivano 916 miliardi nel 1995, 1496 nel 1996, 1504 nel 1999. La Conferenza episcopale italiana a poco più di trenta anni dalla sua nascita si trova a gestire una quantità di risorse che le permettono di sostenere il clero e l’attività pastorale, ma anche di destinare una parte consistente alla carità in Italia e nel Terzo mondo. Qui essa attraverso l’azione di uno specifico Comitato, dal 1990 al 2005, sostiene la realizzazione di 6.275 progetti, per un valore complessivo di 710 milioni di euro, in una stagione storica in cui le risorse impiegate per la cooperazione per i paesi in via di sviluppo si contraggono consistentemente a livello planetario49.
Il 20 novembre 1988 la Cei annuncia la ripresa delle Settimane sociali, come strumento di riflessione ed elaborazione per l’agire e l’operare dei cattolici italiani. La crisi della Democrazia cristiana, lo spostamento degli interessi delle giovani generazioni dal politico al sociale, la fine dell’unità politica dei cattolici, il pacifismo, il disagio nei confronti delle tante forme esasperate di consumismo, spingono la Chiesa ad approfondire il rapporto tra Vangelo, poveri e carità.
Questo cammino di riposizionamento della centralità della carità nella vita della Chiesa, trova il suo compimento nel documento dei vescovi del 1990 Evangelizzazione e testimonianza della carità, che fa della carità il culmine di tutta l’azione della Chiesa. In esso si riconosce l’amore preferenziale per i poveri come esigenza intrinseca del Vangelo e si richiede a tutte le comunità di adoperarsi per lenire le antiche e nuove povertà che sono presenti nel nostro paese. Si parla degli anziani soli, dei malati cronici, delle vittime dell’alcol, della droga, dell’Aids, dei malati di mente, dei bambini oggetto di violenza fisica e psicologica, e soprattutto si condanna il materialismo e l’eccessivo consumismo come minacce per ogni autentica vita cristiana. I vescovi indicano tre ambiti privilegiati: l’educazione dei giovani al Vangelo della carità, la riaffermazione dell’amore preferenziale per i poveri e la rinnovata presenza dei cristiani nel campo sociale e politico.
Il terzo convegno della Chiesa italiana, che si tiene a Palermo dal 20 al 24 novembre 1995 sul tema Il Vangelo della carità per una nuova società in Italia segna l’avvio di un progetto culturale, come risposta alla crisi etica e allo smarrimento dei valori umani fondamentali ed è orientato nei suoi lavori dall’intervento del pontefice che, nello stadio della città, afferma che la Chiesa «non deve e non intende coinvolgersi con alcuna scelta di schieramento politico o di partito». Palermo ripropone con forza il tema della solidarietà, prendendo nettamente le distanze da una cultura laicista, che vorrebbe una carità come afferma il cardinale G. Saldarini, «soltanto adatta alla patologia e non alla fisiologia della nostra vita sociale»50.
All’inizio del secolo XXI, il pontificato di Benedetto XVI si apre nel primato della carità. È questo il cuore del suo messaggio espresso nella Deus caritas est, del 2005 e dalla Caritas in veritate. Il papa pone i cattolici di fronte alla responsabilità di cogliere le nuove opportunità create dall’attuale contesto planetario. I cristiani sono chiamati a «produrre un nuovo pensiero e ad esprimere nuove energie», ma soprattutto a vivere quell’amore comandato, che fa sì che la Chiesa non possa mai essere dispensata dall’esercizio della carità, come attività organizzata dei credenti. Benedetto XVI cita quale alta testimonianza di carità, anche l’assunzione di responsabilità civili e politiche da parte dei fedeli laici, come servizio al bene comune.
1 G. Toniolo, L’histoire de la charité en Italie, Bruxelles 1895, p. 6.
2 Ibidem, p. 12.
3 Ibidem, p. 16.
4 Tra questi: Léon Harmel, Giuseppe Toniolo, Wilhelm Ketteler, vescovo di Magonza, Antonie Poitter, Gaspard Mermilod, James Gibbons, arcivescovo di Baltimora, Henry Edward Manning, arcivescovo di Westminster, la Scuola di Liegi e l’Unione di Friburgo, ma anche vescovi italiani come Geremia Bonomelli, di Cremona, e Giovanni Battista Scalabrini, di Piacenza.
5 A. Riccardi, Intransigenza e modernità. La Chiesa cattolica verso il terzo millennio, Roma-Bari 1996, p. 4.
6 Cfr. I tempi della «Rerum Novarum», a cura di G. De Rosa, Soveria Mannelli 2002, pp. 384-668.
7 L. Sturzo, Chiesa e stato. Studio sociologico-storico, II, Bologna 1959, p. 147.
8 E. Lecanuet, La vie de l’Église sous Léon XIII, Paris 1930, p. 629.
9 Severino Fabriani nel bicentenario della nascita: il suo tempo e l’educazione dei sordomuti, Convegno di studi (Modena 1992), a cura della Accademia nazionale di scienze lettere e arti Modena, Istituto Figlie della provvidenza, Modena 1994.
10 G. Toniolo, Il concetto cristiano della democrazia, in G. Are, I cattolici e la questione sociale in Italia (1894-1904), Milano 1963, p. 216.
11 N. Revelli, Il mondo dei vinti, II, Torino 1963, pp. 75-76.
12 Cfr. G. Sarpellon, La povertà in Italia, Milano 1982, p. 39 segg.
13 Il padre Giacomo Cusmano e la sua opera, Atti del I Convegno di studi cusmaniani (Baida, Palermo, 1980), Palermo 1983, p. 117.
14 Don Orione, la scelta dei «poveri più poveri». Scritti spirituali, a cura di A. Gemma, Roma 1979, p. 45; G. De luca, Don Orione, Roma 1963.
15 Cfr. P. Borzomati, Monsignor Giuseppe Cognata: spiritualità di un vescovo e di una congregazione, in La Chiesa nel tempo, III, 1, Reggio Calabria 1987, pp. 47-57; Brigida Pastorino e le Immacolatine nella Chiesa di Reggio Calabria dal 1898 al 1908. Spiritualità e azione, Centro Studi per la Storia del Modernismo, Urbino 1985, pp. 491-508; Per una storia delle congregazioni diocesane nel Sud nel ’900 e dei Pii Operai Catechisti Rurali di don Gaetano Mauro, in Studi di ricerca sociale e religiosa, a cura di A. Cestaro, Napoli 1980, pp. 613-628.
16 G. Rosoli, Movimenti migratori e nuove forme di carità e di assistenza, in Storia della chiesa, XIII, I cattolici nel mondo contemporaneo (1922-1958), a cura di M. Guasco, E. Guerriero, F. Traniello, Cinisello Balsamo 1991, p. 462.
17 A. Tonelli, Per carità ricevuta, Milano 1991, p. 95.
18 G. Quirico, L’opera del Santo Padre Benedetto XV in favore dei prigionieri di guerra, «La Civiltà cattolica», 69, 1918, 2, pp. 116-129, 293-308, 398-414; 70, 1919, 3, pp. 396-413; 70, 1919, 4, pp. 273-284, 396-408; 70, 1919, 5, pp. 20-30, 120-130, 292-303.
19 Le discours sociale de l’Église catholique. De Léon XIII à Jean-Paul II, éd par Ceras, Paris 1985, pp. 73-83.
20 A. Monticone, Il pontificato di Benedetto XV, in Storia della chiesa, XIII, I cattolici nel mondo contemporaneo (1922 – 1958), cit., p. 174.
21 R. Morozzo della Rocca, La fede e la guerra. Cappellani militari e preti soldati (1915-1919), Roma 1980.
22 F. Malgeri, La Chiesa i cattolici e la prima guerra mondiale in Storia dell’Italia religiosa, III, L’età contemporanea, a cura di G. De Rosa, T. Gregory, A. Vauchez, Roma-Bari 1995, p. 201.
23 Pio XI, Quadragesimo anno (15 maggio 1931), in AAS, 23, 1931.
24 D. Menozzi, Li avrete sempre con voi. Profilo storico del rapporto tra Chiesa e poveri, Torino 1995, p. 149.
25 Annuario generale comunità religiose, istituti di assistenza, collegi e scuole cattoliche in Italia, Roma 1956; S. Congregazione concistoriale, Annuario delle diocesi d’Italia, Torino 1957; Annuario delle Religiose d’Italia, a cura di A. Leoni, Roma 1957.
26 E. Gatz, Attività caritativa ed opere assistenziali della Chiesa, in La Chiesa nel Ventesimo secolo (1914-1975), a cura di V. Dammertz, Milano 1975, pp. 381-386.
27 XVII Settimana Sociale dei cattolici italiani, La carità, Roma 1933.
28 J.D. Durand, L’Église catholique dans la crise de l’Italie (1943-1948), Rome 1991, p. 91.
29 P. Mazzolari, La carità del papa. Pio XII e la ricostruzione dell’Italia (1943-1953), Cinisello Balsamo 1991, pp. 95-116.
30 Ibidem.
31 V. Paglia, Storia dei poveri in occidente. Indigenza e carità, Milano 1994, pp. 443-451.
32 L. Papeleux, L’Action caritative du Saint-Siege en faveur des prisonnieres de guerre (1939-1945), Bruxelles 1991.
33 Radiomessaggio natalizio di S.S. Pio XII sulle umane miserie e la speranza e il conforto di Cristo, 24 dicembre 1952, «La Civiltà cattolica», 104, 1953, 1, pp. 3-18.
34 R. Voillaume, Come loro, Roma 1935, p. 29.
35 La nazione cattolica. Chiesa e società in Italia dal 1958 a oggi, a cura di M. Impagliazzo, Milano 2004, p. 24.
36 Cfr. Don Zeno e Nomadelfia. Tra società civile e società religiosa, a cura di M. Guasco, P. Trionfini, Brescia 2001.
37 Enchiridion Vaticanum, Documenti: Il Concilio Vaticano II, Bologna 1968, pp. 913-991.
38 Paolo VI, Encicliche e discorsi, I, Roma 1963, pp. 216-218.
39 La povertà in Italia. Rapporto conclusivo della Commissione di studio istituita presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, Roma 1985.
40 Si tratta di una cooperativa nata da un gruppo di aderenti alla Comunità di Sant’Egidio per lo sviluppo dell’assistenza domiciliare, in alternativa all’istituzionalizzazione degli anziani nei cronicari.
41 A. Ardigò, Crisi di governabilità e mondi vitali, Bologna 1980.
42 M. Guasco, Chiesa e cattolicesimo in Italia (1945-2000), Bologna 2001, p. 110.
43 M.C. Marazzi, Poveri nostri fratelli: la vita della Comunità di Sant’Egidio, in I poveri sono il tesoro prezioso della Chiesa: Ortodossi e cattolici nella via della carità, Convegno promosso dalla Comunità di Sant’Egidio (in corso di stampa).
44 Censis, XXV Rapporto sulla situazione sociale del paese, Milano 1991.
45 La Chiesa della Carità. Miscellanea in onore di mons. Giovani Nervo, a cura di G. Perego, Bologna 2009, pp. 331-334.
46 L. Di Liegro, Il cristiano ritorni ad esser un cristiano politico, «Orientamenti sociali sardi», 8, 2003, 1, p.104.
47 A. Acerbi, La Chiesa italiana dalla conclusione del Concilio alla fine della Democrazia Cristiana, in La Chiesa e l’Italia. Per una storia dei loro rapporti negli ultimi due secoli, a cura di A. Acerbi, Milano 2003, p. 473.
48 A. Giovagnoli, I laici nella Chiesa del XX secolo, in La Chiesa in Italia dall’Unità ai nostri giorni, a cura di E. Guerriero, Cinisello Balsamo, 1996, p. 659.
49 Cei, Dalla parola alle opere, 15 anni di testimonianze del Vangelo della carità nel Terzo mondo, Roma 2005.
50 G. Saldarini, Chiamati alla perfezione della carità per rinnovare la società alla luce del Vangelo, 5, «Il Regno», 21, 1 dicembre 1995, p. 651.