ZORZI, Fantino
– Nacque, forse a Venezia, tra 1339 e 1345 da Marco di Giovanni Marino e dalla moglie Maria, il cui casato non è noto.
Ebbe sicuramente un fratello, Bernardo, consigliere ducale e capo dei Dieci, e due sorelle (Betta, monaca a S. Maria delle Vergini, e Cristina). Il Campidoglio veneto cita – senza farne il nome – anche una sorella sposata con Albano Badoer, della quale non esiste peraltro traccia nella documentazione coeva. La famiglia gravitava sul sestiere di S. Marco; come ‘confinio’ (circoscrizione parrocchiale) di riferimento è attestata in prevalenza S. Maria Zobenigo, ma si parla anche di Zorzi ‘da San Fantino’ (1339) e ‘da San Maurizio’ (Gian Giacomo Caroldo e altre fonti). Il genealogista Marco Barbaro attribuisce dal canto suo a Zorzi una ulteriore indicazione di residenza, aggiungendo a S. Maria Zobenigo anche S. Salvador.
Questa circostanza ha contribuito a creare confusione con un omonimo, Fantino Zorzi, figlio di Michele, anche lui ‘da San Salvador’, che appare peraltro una figura più modesta, a cui possono essere attribuite con una certa sicurezza solo poche cariche (senatore nel 1386-87 e probabilmente anche in altri anni; elettore dogale nel 1414). Contro l’evidenza documentaria, Antonio Maria Tasca (continuatore settecentesco di Marco Barbaro) commise l’errore di assegnare a Fantino di Michele le podesterie di Firenze e Bologna, in realtà ricoperte da Fantino di Marco (v. infra).
Va osservato ancora che omonimie e possibili ‘duplicazioni’ di partite complicano la valutazione del patrimonio familiare di Zorzi: nell’estimo del 1379, accanto alle 4000 lire d’estimo intestate a Fantino Zorzi quondam Marco a S. Maria Zobenigo, compaiono anche una partita da 10.000 lire a nome di Fantino Zorzi a S. Salvador e una da 2000 a nome di Fantino Zorzi a S. Angelo.
Secondo quanto riportato da Barbaro, Fantino di Marco e il fratello Bernardo sostennero la prova dei requisiti per il Maggior Consiglio nel 1363; le prime notizie documentate risalgono comunque a dopo il 1370. Le fonti genealogiche e cronachistiche attribuiscono a Fantino il titolo di doctor, che egli dovrebbe aver conseguito a Padova o a Bologna (ove poi fu podestà), a meno che non si voglia pensare ad altri Studia, come nel caso del contemporaneo Zaccaria Contarini, per il quale le fonti parlano addirittura di Parigi.
Il titolo dottorale, peraltro, non figura mai nei documenti veneziani, a differenza di quello equestre (miles), stabile dal 1378. Fino ad allora, invece, la documentazione parla semplicemente di ‘Fantinus Georgio’; vi è dunque sempre la possibilità che ci si riferisca all’omonimo, sebbene ciò sia improbabile dato che la carriera di quest’ultimo iniziò verosimilmente più tardi. Rimane comunque un margine di incertezza sull’identità del ‘Fantinus’ che compare nei documenti dei primi anni Settanta: il sopracomito (comandante) di una galea sottile (1372), il patrizio incaricato dai Dieci della custodia della città (1373), il patrono (concessionario, e capo della società appaltatrice) di una cocca alle mude (convogli commerciali di Stato) di Alessandria (1373-74), l’appaltatore di una galea di Fiandra e il mercante di zucchero a Beirut (1375).
Prima del settembre 1374 Fantino di Marco sposò Elena Moro, appartenente a una delle famiglie patrizie veneziane più illustri e facoltose (nel 1379 la partita del suocero, il procuratore Giacomo, ammontava a 12.300 lire). Acquisì in tal modo legami importanti per il prosieguo della sua carriera e, poco dopo, iniziano a essere attestati gli incarichi di rilievo da lui ricoperti nei Consilia cittadini: savio agli Ordini (ruolo allora cruciale per l’istruzione di tutte le questioni di politica navale da sottoporre al Senato) nel 1376-77 e capo della Quarantia nel marzo 1377.
L’assegnazione di queste cariche a Fantino di Marco è abbastanza sicura, tenuto conto anche del fatto che subito dopo, nel 1378-80, mentre Venezia era impegnata nella prima fase della guerra di Chioggia contro i genovesi e i loro alleati, egli fu protagonista di un vero e proprio tour de force di tre successivi mandati podestarili in importanti centri dell’Italia centrosettentrionale (Firenze, Bologna e Perugia); a quest’epoca, quindi, egli non doveva di certo essere un neofita della politica.
Per assumere questi incarichi fuori Venezia fu necessario che il Maggior Consiglio attestasse che Firenze e Bologna ‘non erano in Golfo’, cioè erano al di fuori dell’area adriatica, dato che una norma del 1356 prevedeva che, ‘in Golfo’, i veneziani non potessero essere podestà di centri non soggetti alla Signoria.
Nel governo delle tre città Zorzi si alternò sempre con gli stessi personaggi (Francesco Dotti di Padova fu a Bologna nel 1377-78 e a Firenze nel 1380; Nicolò del Veglio di Lucca fu a Bologna nel 1378 e a Perugia nel 1380; Ilario Sanguinacci di Padova fu a Firenze nel 1379 e quindi a Bologna nel 1379-80). Si tratta evidentemente di un disegno complessivo, orchestrato tra le città di parte guelfa.
I priori del Comune di Firenze, mossi dalla «singularem affectionem et amorem quem gerunt ad hanc benedictam civitatem [Venezia]» (Archivio di Stato di Venezia, Maggior Consiglio, Deliberazioni, reg. 19, c. 174v), elessero «dominum Fantinum domini Marchi Georgii» podestà cittadino nel luglio 1378, nel bel mezzo del tumulto dei ciompi; poiché egli non era cavaliere, rango in via di principio necessario, i Priori nominarono un sindaco che il 3 ottobre lo creò miles, «sindicario nomine dicti populi et communis Florentiae» (Salvemini, 1896, p. 118; i milites communales erano del resto in città i soli il cui rango era automaticamente riconosciuto).
Terminato il mandato a Firenze, Fantino fu eletto podestà da anziani, consoli e gonfaloniere di Giustizia di Bologna (inizi del 1379); durante il suo mandato (aprile-ottobre) ricoprì anche la carica di capitano del Popolo. Di lui le cronache bolognesi ricordano soprattutto la severità contro criminali comuni e sospetti di legami con i Pepoli (un tempo signori della città) che portò anche a esecuzioni capitali ritenute del tutto ingiustificate. Passò poi a reggere la città di Perugia (dicembre 1379-maggio 1380), ove si avvalse fra l’altro dell’opera di notai trevigiani, dal 1339 sudditi di Venezia.
La carriera di Zorzi all’interno delle magistrature veneziane decollò grazie alla guerra di Chioggia: prestando denaro allo Stato, in gravi difficoltà a causa della penetrazione dei genovesi nella Laguna, acquisì benemerenze che gli propiziarono l’ingresso (novembre 1380) nel consiglio dei Cento savi di guerra, cui fu affidata nel biennio 1380-81 la conduzione del conflitto. Abbandonò temporaneamente tale organo per andare in veste di capitano a Mestre, dove assistette impotente (febbraio 1381) all’abbandono del campo da parte delle milizie a cavallo al soldo della Signoria, composte di ‘lombardi’ e inglesi, che da tempo non venivano pagate. Rientrato fra i Cento, fu poi eletto (maggio 1381) fra i nove savi incaricati del compito – difficile e delicato – di contrastare con misure rigorose l’evasione dell’obbligo di sottoscrivere ‘imprestiti’ per dare respiro alle finanze dello Stato, dissestate dalle spese militari.
La guerra si chiuse – grazie alla mediazione di Amedeo VI di Savoia – con la stipula del Trattato di Torino (8 agosto 1381); il 21 ottobre Fantino – che da un mese sedeva nella zonta (additio) del Senato – e Leonardo Dandolo furono eletti ambasciatori presso il re Luigi d’Ungheria, per giurare il rispetto della pace a nome della Signoria; i due si imbarcarono per Segna assieme ai vescovi ungheresi inviati dal re a Venezia (Pál Horváti di Zagabria e Bálint Alsáni di Pècs [Fünfkirchen], di lì a poco cardinale), e giurarono il 12 dicembre nelle mani di Luigi che, da parte sua, ratificò definitivamente il trattato, ordinando a Emeryk (Imre) Bebek, bano di Croazia, Slavonia e Dalmazia, e a ogni suo ufficiale, di restituire ai veneziani i beni sequestrati durante il conflitto.
Secondo Gian Giacomo Caroldo gli ambasciatori perorarono anche la causa di un altro ramo della famiglia Zorzi, che richiedeva al re la restituzione di Curzola, suo dominio fino al 1358; un punto, questo, sul quale peraltro re Luigi tergiversò.
Nel primo semestre del 1382 Zorzi fu consigliere ducale, e nel marzo rifiutò la carica di provveditore dell’Armata; il 9 luglio, invece, venne eletto ambasciatore e bailo a Costantinopoli, ma rifiutò anche questa carica (come tutti gli altri eletti, finché fu stabilito uno stipendio di 300 ducati). Nello stesso giorno, peraltro, dopo l’esonero di Carlo Zeno pro deffectu persone, fu incaricato – in veste di capitano generale da Terra contra Tenedom – del comando di una spedizione militare essenziale per il mantenimento dello status quo nel Mediterraneo orientale, e molto delicata perché rivolta contro un concittadino, il bailo e capitano di Tenedo, Giovan Antonio (Zanachi) Muazzo, che, appoggiato dai residenti veneziani e dalla popolazione locale, rifiutava di evacuare l’isola come previsto dal trattato.
Al capitaneus terre fu fissato uno stipendio di 180 ducati al mese; la sua ‘commissione’, votata il 14 agosto, prevedeva il perdono generale in caso di resa (con l’esplicita esclusione di Zanachi, per il quale erano state previste una taglia e la confisca dei beni), la concessione di una rendita ai notabili dell’isola, il trasferimento degli altri abitanti a Candia o altrove a spese della Signoria, e la facoltà, se del caso, di iniziare trattative sulla questione di Tenedo con il sultano ottomano Murad I, per il quale furono redatte lettere credenziali.
La spedizione (800 uomini su 4 galee e 2 ‘galledelli’) partì il 17 agosto e giunse a Tenedo il 7 settembre. L’assedio evidenziò la peculiare durezza di una ‘guerra civile’: tutti i prigionieri venivano impiccati e ognuna delle parti inalberava il vessillo di S. Marco, tacciando gli avversari di tradimento. Nel gennaio 1383 furono ingaggiati altri cento balestrieri per le operazioni belliche. Già il 20 febbraio, comunque, Fantino chiese la facoltà di concedere il perdono anche a Zanachi; il Senato temporeggiò, ma ci si stava avviando a un compromesso, e il 18 aprile Muazzo patteggiò la resa, ottenendo garanzie per se stesso e i propri beni e accettando lo smantellamento della rocca e il trasferimento degli abitanti. Zorzi occupò l’isola con 200 uomini, rimandando gli altri a Venezia; la particolare determinazione da lui dimostrata entrò negli annali (cfr. per es. gli Exempla di Giovanni Battista Cipelli, Ioannis Baptistae Egnatii De exemplis..., 1554).
Il rapporto con Zanachi rimase comunque ambiguo, e Fantino accusò l’ex bailo di avere tentato di avvelenarlo; la Signoria avviò un’indagine, anche se, sorprendentemente, mostrando una certa equidistanza fra il ribelle e il proprio capitaneus. Muazzo fu arrestato, portato a Venezia e processato, ma fu riabilitato nel 1385 e la demolizione della rocca venne in seguito considerata da molti un errore fatale che aveva aperto il Mediterraneo ai turchi. Zorzi aveva lasciato l’isola il 22 luglio, dopo l’arrivo del nuovo capitano incaricato di concludere lo smantellamento del forte.
Nel settembre 1383 ‘Fantino Zorzi da San Salvador’ fu eletto senatore, ma non concluse il mandato annuale. Se si trattò del miles, la rinuncia potrebbe dipendere dall’elezione ad altro incarico, dato che nella lista dei baili di Negroponte di Carl Hopf compare per gli anni 1384-86 un ‘Fantino Giorgio’ (l’analisi delle carriere dei due Fantini fa ritenere improbabile che si tratti dell’omonimo). Il fatto che il miles abbia operato in Grecia anche dopo il 1383 è confermato dal Campidoglio – una fonte peraltro tarda e non esente da imprecisioni – secondo cui egli «purgò il mare da’ corsari, et ricevé [...] Corfù» (Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, Mss. it., cl. VII, 16, c. 123v; l’affermazione è comunque esagerata, dato che nelle fonti sulla dedizione dell’isola [1386] Fantino non viene affatto citato).
Nel settembre 1386 il miles Fantino entrò in Senato, ma non concluse il mandato annuale; rimane al solito incerta l’identità del ‘Fantino Zorzi da San Salvador’ che fu savio agli Ordini nello stesso anno.
Nel 1389, in una congiuntura in cui Venezia e Firenze erano entrambe impegnate a limitare la continua espansione del dominio di Gian Galeazzo Visconti, Zorzi tornò nella città toscana dapprima come podestà (fino al giugno del 1390) e poi come capitano del Popolo fino al febbraio del 1391.
A Firenze il passaggio immediato da una carica all’altra poteva riuscire funzionale anche perché il capitano doveva giudicare i reati ordinariamente di competenza del podestà, se questi li avesse tralasciati per più di 20 giorni. Nella città toscana, ove altri veneziani furono in quegli anni ‘rettori forestieri’, si era già avviato il ‘processo di funzionarizzazione’ di tali figure, che le stava privando delle competenze di governo, limitandone l’attività agli ambiti giurisdizionale e dell’ordine pubblico.
È frutto di un equivoco l’opinione che nel 1390 Zorzi sia stato anche podestà a Ravenna, sostenuta da Emanuele Antonio Cicogna (seguito da studiosi più recenti) sulla base di un passo di Girolamo Rossi (H. Rubei Historiarum Ravennatum libri decem, 1589) che, a proposito di un trattato commerciale fra Ravenna e Firenze, cita un capitano e un podestà (Zorzi, appunto) attivi nel maggio-giugno; i nomi sono, però, quelli di capitano del Popolo e podestà fiorentini in carica, e non di rettori di Ravenna. Del resto, è impensabile che Fantino potesse lasciare Firenze subito dopo il termine del mandato, dovendo restare a disposizione di chi volesse sindacare il suo operato.
Nel 1391-92 Zorzi fu per la prima volta podestà e capitano nel Dominio di Terraferma, a Treviso.
Nelle città medio-piccole Venezia inviava un solo rettore, che assommava competenze politico-giudiziarie (podestà) e militari e d’ordine pubblico (capitano), a differenza di quanto sarebbe accaduto in grandi centri come Padova o Verona.
Nel 1393 fu per due volte (luglio e dicembre) tra i patrizi inviati a Ferrara per sovraintendere alla successione del giovane Nicolò d’Este al padre, il marchese Alberto, defunto poco tempo prima e che aveva raccomandato il figlio alla Signoria. Probabilmente è con riferimento a queste missioni che Tasca e Cicogna affermano che egli fu uno dei tutori veneziani affiancati al giovane Estense. Nel 1394-95, invece, a pochi anni dall’incarico a Treviso, Zorzi ritornò in una città soggetta a Venezia, Capodistria, come podestà e capitano, proprio nel momento cruciale in cui anche in quel centro si stava arrivando a un rafforzamento dell’autorità del ‘rettore veneto’ nei confronti delle istituzioni cittadine.
Gli incarichi a distanza di due o tre anni nelle due città si ritrovano nelle carriere di diversi patrizi del tempo: un segnale, questo, che l’esperienza in uno dei due territori poteva essere ritenuta spendibile anche nell’altro.
Dopo il rifiuto di un’ambasceria in Francia, cui era stato eletto il 6 luglio 1395, fu scelto il 13 luglio come ambasciatore e provveditore «ad partes Principatus», cioè nell’area del Principato di Acaia, con l’incarico principale di ottenere per Venezia la fortezza dello Zonchio (Navarino).
La situazione in quello scacchiere era allora molto delicata a causa delle continue guerre tra i piccoli potentati cristiani, che rendevano ancora più difficile la resistenza alla penetrazione turca. La difficoltà della congiuntura è testimoniata, come in altri casi, dalla multa stabilita per il rifiuto della missione, e dall’imposizione dell’abbandono immediato di ogni altra carica; la commissione fu votata il 23 luglio e prevedeva ampie facoltà, fra cui la possibilità di spendere 50.000 iperperi per liberare Pedro de San Superano (capitano dei mercenari navarresi, vicario generale e poi usurpatore del Principato), che il despota di Morea Teodoro Paleologo teneva prigioniero assieme al figlio del connestabile di Acaia Asen Zaccaria. La liberazione del ‘vicario dei Navarresi’ fu effettivamente ottenuta (dietro pagamento) in dicembre.
Nel gennaio-marzo 1396 Zorzi fu uno dei savi del Consiglio (i magistrati istituiti stabilmente attorno al 1380 per istruire gli affari da discutere in Senato) e nel maggio seguente entrò in carica come Avogador di Comun. Meno di un anno dopo (marzo 1397) lasciò questo ruolo – essenziale per la tutela della legalità nello Stato patrizio – per essere inviato (assieme ai due futuri dogi Michele Steno e Tommaso Mocenigo) in missione diplomatica in Ungheria; la commissione fu votata il 7 aprile.
Il re ungherese Sigismondo di Lussemburgo, genero e successore di Luigi, era reduce dalla disastrosa sconfitta di Nikopolis (25-28 settembre 1396), quando i resti dell’esercito cristiano erano stati raccolti e rimpatriati dalla flotta veneziana, guidata proprio da Mocenigo; la missione aveva uno spiccato carattere di rappresentanza e i tre patrizi non ricevettero la facoltà di sindicatus, ossia di trattativa. Tuttavia, sul tavolo vi erano sempre il problema turco, e la conseguente necessità per la Signoria di spingere il re ad accelerare i preparativi di una nuova spedizione, minacciando, in caso contrario, una trattativa separata con il sultano Bayezid.
Nel novembre 1398 Zorzi iniziò un nuovo mandato in Avogaria, che si interruppe all’improvviso e in anticipo fra il 12 e il 16 maggio 1399. Probabilmente egli morì allora, o poco dopo (è da ricordare che gli anni fra 1398 e 1400 furono di frequente funestati dalla peste), dato che non partecipò in alcun modo al conclave dogale del 1400; di certo non era più in vita nel marzo 1404, quando il figlio Giacomo venne qualificato quondam Fantini militis. Per il Campidoglio il suo epitaffio era visibile nella chiesa di S. Andrea, ma Cicogna ritiene si trattasse di quello dell’omonimo nipote morto nel 1484.
Scompariva con Zorzi un patrizio di forte temperamento, capace di svolgere con determinazione compiti difficili e persino scabrosi, che aveva dimostrato il suo valore in incarichi diplomatici nel Mediterraneo e in Europa, in cariche militari (la guerra di Tenedo gli assicurò la fama), nei Consilia e nelle magistrature cittadine, nei rettorati in città indipendenti o soggette a Venezia. Una carriera, insomma, di ‘transizione’, fra la prospettiva del ‘rettore forestiero’ (spesso ai suoi tempi appannaggio dei ‘dottori’ come lui), e quella del ‘rettore veneto’ di città soggette alla Signoria (in Istria e nel Trevigiano). La scomparsa relativamente prematura gli impedì di concorrere alle cariche più prestigiose a inizio Quattrocento, a differenza di altri esponenti della ‘generazione di Chioggia’ come i dogi Steno e Mocenigo, Carlo Zeno, il cognato Antonio Moro e Albano Badoer tutti divenuti procuratori di S. Marco. Le sue benemerenze suggerirono comunque che anch’egli figurasse fra i ‘senatori illustri’ (vissuti fra Trecento e Cinquecento) che, con evidenti incongruenze cronologiche, comparivano nei dipinti della Sala del Maggior Consiglio raffiguranti vicende del XII secolo e distrutti dal grande incendio del 1577.
Zorzi ebbe diversi figli che proseguirono la tradizione di famiglia nelle cariche di Terra e di Mar e nell’attività mercantile, dei quali Barbaro ha tramandato l’anno della prova in Avogaria: Marco (1392), Giacomo (1396), Giovanni (1400), Girolamo (1406), Luca (1409) e Federigo (1414); ebbe anche almeno tre figlie: Isabetta, moglie (1405) di Marino di Antonio Contarini da Sant’Angelo; Lucia (che testò nel 1405), moglie (1398) di Nicolò di Francesco Dolfin, anch’egli da Sant’Angelo, e Zanetta, monaca. Probabilmente un’altra figlia, di nome Franceschina, sposò (1402) Giacomo Dolfin da Sant’Angelo, fratello di Nicolò; il Campidoglio aggiunge, tra i figli maschi, anche un Ruggero, ma probabilmente si tratta di un figlio dell’omonimo. Il miles Fantino morì quando i suoi figli erano ancora molto giovani, e il fratello della moglie Elena, il procuratore Antonio Moro, si curò di loro fino alla maggiore età e anche in seguito.
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