fantasia
La maggior parte delle notazioni dantesche in materia di f. derivavano dall'ambito della discussione scolastica sulle possibilità dell'intelletto: nostro intelletto, per difetto de la vertù da la quale trae quello ch'el vede, che è virtù organica, cioè la fantasia, non puote a certe cose salire (però che la fantasia nol puote aiutare, ché non ha lo di che), sì come sono le sustanze partite da materia; de le quali se alcuna considerazione di quella avere potemo, intendere non le potemo né comprendere perfettamente... Sì che, se la mia considerazione mi transportava in parte dove la fantasia venia meno a lo 'ntelletto, se io non potea intendere non sono da biasimare (Cv III IV 9-11).
La f. è quindi una vertù organica che fornisce i materiali sui quali può muoversi il vario discorso dell'intelletto. Essa è in diretto contatto con la percezione e si pone come luogo intermedio tra questa e il pensiero, compie quindi un'opera di sintesi attraverso il ‛ senso comune ' rendendo stabili nella mente quei ‛ fantasmi ' che rappresentano punti fermi nel fluire dell'esperienza. La f. costituisce il fondamento del conoscere, poiché il fantasma da essa elaborato è l'aspetto materiale del concetto, attraverso il quale soltanto l'intendere acquista concretezza.
D. recepiva in particolare quel tanto della teoria aristotelica della f, che poteva trovare nella ricerca tomista. Legata alla lucevisione (ἀπὸ του̃ φάους, An. III 3, 429a 3) secondo l'antica etimologia aristotelica la f. segna l'apparire interiore delle tracce della percezione poi utilizzate dall'intelletto (la teoria aristotelica è in Anima III 3, 427a 16 ss.). S. Tommaso ne dice: " Unde natura lapidis vel cuiuscumque materialis rei cognosci non potest complete et vere, nisi secundum quod cognoscitur ut in particulari exsistens. Particulare autem apprehendimus per sensum et imaginationem; et ideo necesse est ad hoc quod intellectus actu intelligat suum obiectum proprium quod convertat se ad phantasmata, ut speculetur naturam universalem in particulari exsistentem " (Sum. theol. I 84 7). E altrove: " Secundum Aristotelis sententiam, quam magis experimur, intellectus noster secundum statum praesentis vitae naturalem respectum habet ad naturas rerum materialium; unde nihil intelligit nisi convertendo se ad phantasmata. Et sic manifestum est quod substantiae materiales, quae sub sensu et imaginatione non cadunt, primo et per se secundum modum cognitionis nobis expertum intelligere non possumus " (Sum. theol. I 88 1). La questione della f. s'inseriva cioè in quella delle sostanze separate per la quale cfr. Sum. timol. I 88 1 e 2; Cont. Gent. III 41-45; Quaest. disp., Anima 10; In Boeth. De Trinit. 6 3; Comm. Metaph. II lect. I; e per questi riferimenti cfr. Busnelli-Vandelli, commento a Cv III IV 9.
L'ampia discussione medievale in materia di f. (cfr. Enciclopedia Cattolica, città del Vaticano 1950, sub v.), come già quella stoico-platonica-aristotelica, non approdava a risultati stabili e definitivi per l'estrema ambiguità di questo tema visto come luogo di un'equivoca coincidenza tra corporeo e non corporeo. D., sempre attraverso s. Tommaso, era più che altro disposto a recepire le indicazioni aristoteliche di An. II 8, 420a 32 a proposito dell'apporto della f. al momento dell'espressione e del linguaggio, spesso prescindendo dalla distinzione, prima di Averroè poi di s. Tommaso (Sum. theol. I 78 4) tra f. realizzatrice della forma, o struttura esteriore, e cogitativa, realizzatrice dell'intentio o significato concreto.
La f. è quindi il limite estremo (il fine) del pensiero in quanto sancisce la sua imperfezione, l'impossibilità di procedere oltre nella scala della conoscenza costretta necessariamente al terreno livello dei phantasmata. Ancora s. Tommaso: " ex rebus materialibus ascendere possumus in aliqualem cognitionem immaterialium rerum, non tamen in perfectam " (Sum. theol. I 88 2 ad 1). Non sempre i materiali fantastici riescono a essere sufficienti all'impegno dell'intelletto e in ogni caso essi non sono che veli o segni del vero (II II 8 1; Cv III XV 8-10, IV XIII 6).
Se lo stato e le possibilità della f. sono in ogni caso legate alla condizione umana, e si definiscono di volta in volta solo nell'ambito di questa, l'attività fantastica è continuamente frenata dall'ignoranza o meglio dalla grossolana sapienza delle cose terrene. È nell'ambito di queste che essa lavora. Se si sforza di accedere ad altri livelli del conoscere essa finisce per perdere ogni possa: Perch'io lo 'ngegno e l'arte e l'uso chiami, / sì nol direi che mai s'imaginasse; / ma creder puossi e di veder si brami. / E se le fantasie nostre son basse / a tanta altezza, non è meraviglia; / ché sopra 'l sol non fu occhio ch'andasse (Pd X 46).
Questo limite estremo del pensiero è tuttavia un luogo da tentarsi continuamente. A questo tentativo è legata ogni possibilità di abbandonare per qualche tratto nozioni puramente terrene e di risalire al reale ordine del creato. D. può concepire così il suo poema come una scala di fantasticazioni: la f. è costretta a compiere le sue prove estenuanti a contatto con l'oltramondo non rappresentabile. Se per l'Inferno sono sufficienti i violenti colori e le stravolte forme della terra, per il Purgatorio, e in misura maggiore per il Paradiso, la f. deve tentare la rappresentazione di esperienze, percettive e intellettuali, supreme: E quel che mi convien ritrar testeso, / non portò voce mai, / né scrisse incostro, / né fu per fantasia già mai compreso (Pd XIX 9); e tre fïate intorno di Beatrice / si volse con un canto tanto divo, / che la mia fantasia nol mi ridice (XXIV 24). È la f. quindi a compiere anche lo sforzo finale della visione di Dio. Sull'orlo della quale è costretta ad arrestarsi: A l'alta fantasia qui mancò possa (XXXIII 142).
La f. può quindi anche essere il luogo di un errore continuo, ma di un errore fondamentalmente senza colpa. Essa può immaginare fantasmi privi di corrispondenti reali, segni di nulla, e così trarre in inganno: sono molti di sì lieve fantasia che in tutte le loro ragioni transvanno, e anzi che silogizzino hanno conchiuso, e di quella conclusione vanno transvolando ne l'altra, e pare loro sottilissimamente argomentare, e non si muovono da neuno principio, e nulla cosa veramente veggiono vera nel loro imaginare Cv IV XV 15; e cfr. Tommaso Sum. theol. I 12 9 ad 2, 85 2 ad 3, Cont. Gent. II 73).
La f. è allora la facoltà più spesso eccitata dagli eventi interiori della Vita Nuova e direttamente connessa con l'apparizione delle visioni amorose: molte volte io mi dolea, quando la mia memoria movesse la fantasia ad imaginare quale Amore mi facea (Vn XVI 2). Uno stato di dolorosa infirmitade accentua le urgenze del fantasticare: ne lo nono giorno, sentendome dolere quasi intollerabilmente, a me giunse uno pensero... ‛ Di necessitade convene che la gentilissima Beatrice alcuna volta si muoia '. E però mi giunse uno sì forte smarrimento, che chiusi li occhi e cominciai a travagliare sì come farnetica persona ed a imaginare in questo modo: che ne lo incominciamento de lo errare che fece la mia fantasia, apparvero a me certi visi di donne scapigliate, che mi diceano: " Tu pur morrai " (XXIII 4). La visione poi prosegue cominciando ad errare la mia fantasia (§ 5), e pareami che li uccelli volando per l'aria cadesser morti, e che fossero grandissimi terremuoti. E maravigliandomi in cotale fantasia (§ 6) si giunge sino all'immaginario più estremo e convincente e fue sì forte la erronea fantasia, che mi mostrò questa donna morta (§ 8). Solo al risveglio mi cessò la forte fantasia entro in quello punto ch'io volea dicere: ‛ O Beatrice, benedetta sie tu '; e già detto avea ‛ O Beatrice ', quanto riscotendomi apersi li occhi, e vidi che io era ingannato (§ 13). Allor lassai la nova fantasia, / chiamando il nome de la donna mia (§ 18 13, e cfr. § 29, 30). Per visioni d'altro genere cfr. Pg XVII 25 Poi piovve dentro a l'alta fantasia / un crucifisso.
Bibl. - J. Freudenthal, Über den Begriffe des Wortes φαντασία bei Aristoteles, Gottinga 1863; F. Brentano, Die Psychologie des Aristoteles inshesondere seine Lehre vom ΝΟΥΣ ΠΟΙΗΤΙΚΟΣ, Magonza 1867; H.A. Wolfson, The internal sense in latin, arabic, and hebrew philosophy, in " Harvard theological rewiew " XXVIII (1935).