MUSSINI, Fanny
– Nacque a Firenze il 16 novembre 1852 da Cesare e dalla nobildonna prussiana Elise von Blesson (1822-1901), quarta di cinque figli: Arturo, Olga, Costanza e Maria.
I nonni paterni erano musicisti, Natale tenore e Giuliana Sarti compositrice e soprano. Cesare, nato a Berlino, dove il padre era maestro di cappella alla corte di Prussia, fu un pittore apprezzato e professore dell’Accademia di belle arti di Firenze. Quanto ai nonni materni, Ludwig era ingegnere, ufficiale e scrittore di cose militari e Catarina Schmedding pronipote di Jean-Pierre-Antoine Tassaert, primo scultore di Federico il Grande.
Fanny respirò in casa l’amore per la conoscenza e per l’arte che l’accompagnò per tutta la vita. Formò la sua cultura attingendo soprattutto alla ricca biblioteca di famiglia, dove erano custoditi i libri della tradizione letteraria internazionale e quelli delle più recenti produzioni editoriali. Casa Mussini fu un vero e proprio centro culturale, ritrovo di artisti, musicisti, politici tra i quali Massimo d’Azeglio.
Conobbe giovanissima il futuro marito, Leonetto Vanzi (1852-1922) – frequentando la casa della sorella Olga, sposata con Giorgio, il fratello di Leonetto – e lo sposò a soli 17 anni. Prima del matrimonio, Vanzi lavorava a Roma, sia come redattore del giornale Tabacco sia come funzionario dell’allora istituendo Monopolio Tabacchi; ma, a causa delle pressanti insistenze della suocera, cattolica fervente e contraria alla presenza della figlia nella città sottratta al papa, dovette lasciare la capitale. I coniugi si stabilirono a Firenze fino al 1905 quando abbandonarono l’Italia e si trasferirono negli Stati Uniti, a San Francisco. Ebbero sette figli, tutti nati a Firenze: Bruno, Max, Pio, Franco, Costanza, Corrado e Lea.
Poetessa, romanziera, giornalista e traduttrice, Fanny incarnò la nuova figura di donna colta che nel pieno dei rivolgimenti politici e sociali di fine Ottocento prendeva coscienza delle sue possibilità, dedicandosi alla scrittura come mezzo di comunicazione della propria personalità. Le sue esperienze narrative vanno ricondotte al Bildungsroman femminile, il romanzo educativo, che narra il difficile passaggio dall’infanzia all’adolescenza e alla maturità all’interno della cornice-nido rappresentata dalla famiglia. In quest’ambito rientra La storia di Giulietta, del 1889.
Il romanzo, rivolto a un pubblico borghese femminile, attraversa la sfera più intima: la casa, i rapporti sentimentali, le fantasticherie; guida l’immaginario amoroso, educa ai ruoli, conforta e insegna. L’autrice ne racconta la genesi nella prefazione: «Mentre leggevo un giorno un libro geniale della signora Helm, intitolato Backfischen’s Leiden und Freuden, mi parve che quel genere di racconto dovesse piacere alle nostre giovinette, e pensai di tradurlo. Ma il carattere dei tedeschi molto differisce dal nostro. […] Per noi certi libri istruttivi tedeschi, tradotti riuscirebbero pesanti: non attrezzerebbero neppure la metà dello scopo. Certi racconti, talune novelle, perderebbero tutto il loro profumo, perché trasformandone la lingua, si toglierebbe loro anche il carattere. Allora mi parve meglio scrivere un libro che fosse perfettamente italiano […]. Non ho quindi la pretesa di aver creato questo genere».
Prima di questo lavoro aveva visto la luce Nuptialae (1885), raccolta di traduzioni poetiche da Heinrich Heine e Ludwig Uhland scritta per le nozze Brema. Nel 1892 a Firenze uscì il racconto A mezzocolle: storia semplice, anch’esso epigono del romanzo educativo femminile. Due anni dopo videro la luce, stampati a Milano, il racconto Gennaro Fabozzi, pubblicato nella rivista Natura e Arte, l’antologia di bozzetti Repubblica letteraria e la raccolta di 14 novelle Zingaresca.
Dalle pagine del quotidiano Il Mattino del 14 ottobre di quell’anno, Matilde Serao così commentava le novelle: «[…] anche le meno piacenti sono scritte con vivace schiettezza di forme e con senso fine dell’amore, del dolore: ne trapela un’anima che sa la vita e le sue lotte. […] Ad ogni modo tutto il libro è rispettabile; non vi è in esso nessuna di quelle leziosità, di quelle smancerie e di quelle fioriture retoriche di cui si affastellano i volumi di tante scrittrici. La signora è una letterata sul serio e non una dilettante fastidiosa».
Nel 1899 furono pubblicati a Torino i volumi Illusioni estreme e Natale di Lenina, già espressioni del romanzo rosa nascente. Senza anno, ma sempre edito a Torino, è il romanzo Vecchie ragazze, narrazione in forma spigliata ed elegante di una storia tutta borghese, nella quale l’autrice racconta di segreti familiari, complicati da una trama ingegnosa, a tratti poco credibile, dove le donne vegliano su un ordine di valori domestici che non deve essere compromesso e che esse sole possono difendere fino in fondo.
Nei romanzi di Mussini c’è l’incontro-scontro tra le nuove esigenze dell’universo femminile e l’ancora rigido e impermeabile dominio patriarcale nella società e nella famiglia. Le sue donne vivono d’amore, di passioni, di sentimenti, appartengono a un mondo perdente in cui anche le protagoniste più audaci finiscono col soccombere ai dettami sociali attraverso la rinuncia, il sacrificio, la rassegnazione. I suoi romanzi intimisti raccontano l’inadeguatezza del sogno sentimentale del quale le donne si nutrivano, il conflitto col reale, all’interno della famiglia o nei confronti delle figure maschili.
All’attività di narratrice Mussini affiancò un’intensa produzione giornalistica. Come per molte donne della sua generazione, anche per lei essere giornalista volle dire visibilità, rottura del muro del silenzio, possibilità di guadagno, esercizio – seppur minimo – di potere. Collaborò a molte testate e continuò a farlo, insieme al marito, anche quando si trasferirono in America. Fu corrispondente dei quotidiani La Nazione e Giornale d’Italia; suoi pezzi furono accolti in periodici anche importanti, tra i quali la Nuova Antologia, Natura e Arte, La rivista delle Signore, La vita italiana. Con lo pseudonimo Lea firmò articoli pubblicati su Il Capitan Fracassa, Fanfulla della Domenica, Elettronico.
L’impegno e la passione nella scrittura si riverberarono anche nel campo della traduzione. Si debbono alla sua penna le versioni italiane delle fiabe per bambini dei fratelli Grimm: nel 1897 a Milano diede alle stampe Cinquanta novelle per i bambini e per le famiglie, di Jakob Grimm (la fortuna di questa traduzione è attestata dalle numerose ristampe [1903, 1910, 1920, 1937, 1945, 1948, 1958, 1970, 1971, 1982, 1984, 1988], spesso impreziosite da tavole a colori), mentre postume furono pubblicate le Nuove novelle di Wilhelm Grimm, curate da Mary Tibaldi Chiesa nel 1966. Scrisse anche il poema Baci d’Amore, musicato da Augusto Cesare Seghizzi, compositore goriziano, che lo inserì in un repertorio cameristico, vocale e strumentale.
Morì a San Francisco il 21 aprile 1914.
«La madre del nostro Vanzi – così recitava il necrologio pubblicato su La Tribuna, giornale per il quale lavorava il figlio Pio – era una delle più elette figure della letteratura femminile italiana. Il nome di Fanny Vanzi era noto agli italiani, come quello di una gentile, colta e brillante scrittrice, di una romanziera di delicato sentimento e di arte raffinata. La geniale scrittrice aveva seguito in America dieci anni or sono, suo marito il cav. Leonetto Vanzi, ch’era andato ad occupare alcuni importanti posti nel giornalismo italiano di laggiù. […] Scompare una scrittrice tra le nostre migliori, una di coloro che nell’esercizio della loro arte portano anche una preoccupazione di sana educazione morale e la schiettezza di anime sinceramente e semplicemente femminili…».
Fonti e Bibl.: A. De Gubernatis, La vita italiana, IV, Roma 1897, p. 574; A. Pagliaini, Catalogo generale della libreria italiana dall’anno 1847 a tutto il 1899, II, Milano 1905, p. 734; P. Zambon, Novelle d’autrice tra Otto e Novecento, Roma 1998, p. 36; G. Deledda, Lettere ad Angelo De Gubernatis, 1892-1909, a cura di R. Masini, Sassari 2007, p. 91; D. Trotta, La via della penna e dell’ago. Matilde Serao tra giornalismo e letteratura, Napoli 2008, pp. 69, 206 s.