FACINO, Galeazzo, detto il Pontico
Nacque a Padova da Conte intorno al 1458, come si desume da un carme latino scritto nel 1478-80, in cui dice di aver appena raggiunto i vent'anni.
Il padre apparteneva ad una nobile famiglia di Vicenza, i cui componenti già alla fine del sec. XIV si erano trasferiti, oltre che a Padova, a Ferrara, Milano, Feltre e Napoli; ebbe, oltre al F., altri quattro figli: Vitaliano e Antonia, che si trasferirono in seguito a Ferrara, Paola e Conte, che risiedettero invece a Padova.
Il F. trascorse l'infanzia a Padova, in contrada S. Pietro. Iscrittosi all'università (risulta studente già dal settembre 1473), vi si laureò doctor in artibus il 14 maggio 1478. In questo periodo conobbe e frequentò Ermolao Barbaro che, di pochi anni più vecchio, si era addottorato in arti nel 1474 e in utroque iure nel 1477, e aveva cominciato a tenere corsi di lettura e interpretazione dei testi aristotelici.
La posizione del patrizio veneziano era rigorosamente antiaverroista, come quella dell'amico Girolamo Donà: essi erano i più autorevoli rappresentanti di un aristotelismo genuino, che voleva filologicamente rifarsi alla fonte prima (lo stesso Aristotele, tradotto direttamente dal greco, come il Barbaro si proponeva di fare) e ai primissimi commentatori dello stagirita, quali Simplicio, Temistio e Alessandro d'Afrodisia. Ora, all'interno di un progetto sostanzialmente comune, il Barbaro si occupò di tradurre in latino l'opera del parafraste Temistio, mentre il Donà pubblicò una traduzione dell'interpretazione di Alessandro di Afrodisia (Brixiae 1495). Il F. fu in relazione con entrambi, ma soprattutto col Barbaro, di cui dovette conquistarsi la stima. Infatti, all'inizio del 1480, il patrizio veneziano lo invitò a trasferirsi per un po' a Venezia per aiutarlo nella trascrizione e nella cura editoriale del primo progetto nato dal suo insegnamento padovano, proprio quella traduzione latina delle Paraphrases aristoteliche di Temistio che il Barbaro aveva compiuto nel 1473 circa. L'opera verrà stampata a Treviso nel febbraio 1481 e, nonostante la traduzione sia stata oggetto di critiche stilistiche e contenutistiche (segnatamente, ad opera del veronese Ludovico Nogarola nella sua nuova traduzione di parte dell'opera di Temistio, nel 1559), ebbe un'importanza tale da influenzare gli studi aristotelici futuri.
In questi anni il F. partecipò anche all'attività del Collegium artium dell'università padovana: risulta infatti presente in varie sedute dall'agosto 1480 al settembre 1482.
Di questo periodo restano una sua lettera datata 14 sett. 1480 al compagno di studi siciliano Santoro de Voltis, laureatosi in arti un anno dopo di lui (Marciano lat. XIV, 267 [= 4344], c. 61 rv) e un Libellus di carmi scritti nel 1478-80 e raccolti da lui stesso nel 1481. Il manoscritto, conservatoci dal codice Laurenziano Ashburnhamiano 1078 e dedicato al nobile veneziano Marco Longo, annovera una dedica e ottantatré testi poetici, per la maggior parte in versi elegiaci. L'argomento è vario: ora si tratta di componimenti amorosi indirizzati ad una certa Cinzia (evidente il ricordo properziano), ora di epitalami; vi sono poesie in lode di Padova e poesie religiose, epitaffi e imitazioni virgiliane. Interessanti, per la biografia del F., alcune poesie sulla sua giovinezza e quella del fratello Conte (si vedano i carmi 26, 57 e 63 dell'edizione curata dal Richards). I personaggi cui invia i componimenti sono quasi tutti umanisti operanti a Padova (fra gli altri il Barbaro e il Donà, Nicoletto Vernia, Domizio Calderini), mentre un numero cospicuo di carmi (trenta) e la dedica sono indirizzati al Longo, un patrizio veneziano che morì giovanissimo poco dopo, e la cui morte prematura fu forse una delle cause che impedirono un'eventuale pubblicazione di questo canzoniere.
Negli anni seguenti si segnala la presenza del F. sia a Padova, alle sedute del Collegium artium (nel luglio e agosto 1483, nel maggio e giugno 1485 e nel marzo 1486), sia a Venezia, dove risiedette dalla fine del 1483 fino a tutto il 1484. Qui ricevette l'incarico, dal Donà, di curare l'educazione del figlio Agostino. Intanto il Barbaro si era interessato per far ottenere al F. un lavoro presso la corte milanese e aveva scritto a tal proposito una lettera a Giorgio Merula. Ma l'iniziativa non ebbe, per il momento, successo. È di questi anni (1487-88) un viaggio del F. ad Alessandria e in altri luoghi dell'Egitto.
Finalmente, nel marzo 1488, gli sforzi del Barbaro ebbero successo, e il F. poté partecipare all'ambasceria milanese dell'amico, che si protrasse fino all'aprile 1489. Poi, quando il Barbaro venne inviato a Roma in qualità di ambasciatore veneto presso la S. Sede, il F. restò a Milano col personale del nuovo ambasciatore presso gli Sforza, Girolamo Donà.
A Milano il F. conobbe, fra gli altri, il letterato pavese Lancino Curzio (che poi gli dedicò una decina di epigrammi) ed ebbe occasione di partecipare alla prima fase della polemica umanistica fra Giorgio Merula e il Poliziano, che seguì alla pubblicazione della prima centuria dei Miscellanea di quest'ultimo; e nel libello In Politianum, scritto dal Merula nella prima metà del 1490, lo troviamo nominato come sostenitore della tesi del Merula stesso.
Nel settembre 1490 il F. era a Venezia, come attesta una lettera speditagli da un suo parente milanese, don Antonio Facino (Marciano lat. XIV, 267 [= 4344], c. 59v). L'anno successivo era nuovamente in viaggio al seguito del Donà, inviato a Roma quale "oratore sostituto" presso il papa dopo la nomina, in marzo, del Barbaro a patriarca d'Aquileia, e vi restò fino al maggio 1492, allorquando giunse il nuovo ambasciatore, A. Cappello, o qualche tempo dopo. Successivamente il Donà fu nominato podestà e capitano di Ravenna, città nella quale fece il suo ingresso il 16 sett. 1492. Qui il F. ricevette lettere di Antonio Tebaldeo da Bologna, che testimoniano dei suoi rapporti culturali con il Tebaldeo stesso e con Niccolò Seratico.
Nell'autunno del 1494 il Donà, con la sua famiglia, lasciò Ravenna e tornò a Venezia. È in questi anni che il F. conobbe Pietro Bembo, come confermerebbe uno dei sonetti rifiutati di quest'ultimo ("Se le sorelle, che ne vider prima"), che nei manoscritti figura come dedicato al Facino. Nel 1496 era a Ferrara, dove ebbe modo di conoscere il canonico Matteo Bosso, già amico del fratello Conte.
Tornato a Padova, e privo ormai dell'influente appoggio dell'amico Ermolao Barbaro, nel frattempo morto (luglio 1493), il F. decise di abbracciare lo stato ecclesiastico, ricevendo la prima tonsura il 12 nov. 1497 dal vescovo di Padova Pietro Barozzi (lo stesso che, nel 1489, aveva condannato con un editto gli averroisti padovani, già avversati dal punto di vista filosofico dal Donà e dal Barbaro). Continuò a vivere a Padova e a partecipare alle sedute del Collegium artium (gennaio e febbraio 1498), ma intanto si avvicinò all'ambiente del vescovo di Belluno, Bernardo Rossi, che frequentava in quegli anni lo Studio patavino seguendo le lezioni di latino e greco di Giovanni Antonio Panteo e trascurando l'episcopio bellunese, dove si faceva sostituire da suffraganei. Venuto a sapere della morte del vescovo di Treviso Niccolò Franco (8 ag. 1499), il Rossi si fece avanti per assicurarsi la successione, cui aveva aspirato invano già dieci anni prima, e fra l'agosto e il settembre l'ottenne sia dal Senato veneziano sia dalla S. Sede.
Il F., entrato a far parte del personale del nuovo vescovo in qualità di segretario, si trasferì a Treviso, alla fine di quell'anno, per poter preparare l'entrata del Rossi in città. Qui partecipò alla vita culturale trevigiana, allora piuttosto intensa anche grazie all'attività di Lodovico Marcello, che aveva raccolto nella casa annessa alla chiesa di S. Giovanni dal Tempio (di cui era priore fin dal 1471) un nutrito gruppo di umanisti che si riunivano spesso, costituendo una specie di accademia denominata "Marcellina sodalitas".
Fra essi vanno ricordati G. A. Augurelli, Girolamo Bologni, Marcello Filosseno, Pancrazio Perruchino. Prova del ruolo non indifferente assunto dal F. in questo gruppo di dotti è l'opera del Bologni Dissertatio symposica..., datata 13 dic. 1499 e conservata a Venezia (Marciano lat. XIV, 112 [= 4283]), nella quale l'autore dibatte sull'eventuale esistenza di due Seneca, l'uno poeta e l'altro filosofo, e sottopone l'intera questione al giudizio del famoso umanista Giovanni Aurelio Augurelli e anche a quello del F., "in litteraria professione diu multumque summa cum arte versati".
L'attività di segretario del Rossi ci ha restituito l'unico autografo del F. fino ad oggi conosciuto: il regesto di un atto rogato dal notaio di curia Francesco Novello, in data 5 sett. 1502 a Venezia, nell'abbazia di S. Gregorio (che era la residenza temporanea del vescovo di Treviso): l'atto consiste nel conferimento, di un priorato e di un canonicato, siti in diocesi di Treviso, al nobile chierico veneziano Agostino de Canali.
Nel 1503 il vescovo fece assegnare al F. una porzione del beneficio ecclesiastico della chiesa di S. Agostino, e ciò contribuì a rendere più agevoli le sue condizioni economiche. Ma poco ne poté godere, perché tra il febbraio e il marzo del 1506 morì, a Treviso, di idropisia.
Pochi giorni dopo la morte il Rossi fece redigere (10 marzo) dal notaio di curia Francesco Novello un inventario dei beni del defunto, che contiene anche una descrizione della biblioteca del F., costituita da circa trecento volumi. Il 24 marzo, nel palazzo vescovile Treviso, si provvide alla divisione dei beni del F. tra Alfonso e Marco Antonio (figli del fratello Vitaliano), la sorella Antonia e il figlio di Conte, Girolamo.
In suo onore compose due epitaffi il poeta veneziano Domenico Plorio.
Oltre alle opere citate, del F. ci è giunto uno strambotto in volgare, conservato nel Vaticano Urbinate 729, e alcuni versi latini indirizzati all'umanista Ludovico Pontico, dal titolo Exornas hominem tuis camoenis, nel manoscritto 1403della Biblioteca comunale di Treviso. Altre sue opere sono andate perdute, ma sono citate nell'inventario dei libri suddetto: "un quadernetto de opere fatte da Galeazzo, di 6 carte, incipit 'Quom viderem'"; "Opere composte per messer Galeatio ligate in doi volumeti e un Receptario de sua man"; "Algune opere di messer Galeatio, messer Hermolao et alguni altri".
Il fratello Conte, nato nel 1438 circa, si laureò dottore in arti nello Studio di Padova prima del 1465. Nel 1466 ottenne una cattedra di filosofia nello stesso studio e il 3 luglio 1470si laureò in medicina. Continuò ad insegnare per molti anni nell'ateneo patavino e scrisse varie poesie in latino e in volgare, ma solo due ne restano: un'elegia latina conservata manoscritta nella Biblioteca comunale di Treviso (ms. 530, pp. 65-73) e il sonetto morale Spogliate son le membra e le nuda ossa (nel Marciano ital. [non Marc. lat.] IX, 111 [=6358], c. 50v). Siha inoltre notizia di alcune sue opere perdute: la Oratio pro gymnasiorum principiis et dialogus, del 1467 circa, e una Vita del conte Francesco Sforza in volgare. Nel 1485 una fiera pestilenza che si abbatté su Venezia gli uccise la moglie e il figlioletto di tre anni, e Conte dovette fuggire a Treviso. Dopo pochi anni anch'egli risulta morto (come dimostra una lettera consolatoria del canonico regolare lateranense Matteo Bosso scritta al confratello Valerio Facino, in occasione della morte del suo parente), lasciando un figlio, Girolamo.
Fonti e Bibl.: Venezia, Bibl. naz. Marciana, Ms. Lat. XIV, 112 (4283), cc. 258r-259v; XIV, 267 (4344), cc.59v, 61rv; Padova, Arch. antico dell'Univ., Libri actorum del Collegio, 313, 315, 316, 319, passim; Ibid., Arch. della Curia vescovile, Diversorum, 35, c. 282r; 40, c. 103r; 41, c. 41v; 44, c. 332r; Treviso, Bibl. comunale, ms. 530, cc. 65-73; ms. 1404, cc. 100v-101r; Ibid., Arch. della Curia vescovile, Parrocchie, 221a, fasc. 9; Parrocchie e Vicarie urbane, S. Agostino, I, 1; Actorum, b. 3, reg. 1499-1500, 4 nov. 1499; Milano, Bibl. Trivulziana, ms. 659, c. 61v; Firenze, Bibl. Mediceo-Laurenziana, Laur. Ashb. 1078, cc. 1-26; Bibl. apost. Vaticana, Vatic. Urbinate 729, c. 22v; M. Bosso, Familiares et secundae epistolae, Mantuae 1498, c. IIIIv; G. A. Augurelli, Iambicus liber…, Venetiis 1505, c. FIIIIv; G.P. Valeriano, De litteratorum infelicitate, Venetiis 1620, p. 85; I. Facciolati, Fasti Gymnasii Patavini, I, Patavii 1757, pp. 106 s.; G. Biscaro, Lodovico Marcello e la chiesa e commenda gerosolimitana di S. Giovanni del Tempio, in Nuovo Arch. veneto, XVI (1898), pp. 118 ss.; G. Pavanello, Un maestro del Quattrocento: Gio. Aurelio Augurello, Venezia 1905, pp. 20, 24 s., 49, 104 ss., 166; E. Carusi, Dispacci e lettere di Giacomo Gherardi, Roma 1909, pp. 495 ss.; A. Serena, La cultura umanistica a Treviso nel sec. XV, Venezia 1912, pp. 44, 200 s., 367 s.; A. Ferriguto, Almorò Barbaro, Venezia 1922, pp. 89, 294; G. Bustico, Due umanisti veneti: Urbano Bolzanio e Pierio Valeriano, in Civiltà moderna, IV (1932), pp. 352 s.; E. Barbaro, Epistolae, Orationes et Carmina, a cura di V. Branca, Firenze 1943, I, passim; II, pp. 145 s.; G. Saitta, Ilpensiero ital. nell'Umanesimo e nel Rinascimento, I, Bologna 1949, p. 441; J. F. C. Richards, The poems of Galeatius Ponticus Facinus, in Studies in the Renaissance, VI (1959), pp. 94-103; Id., in Renaissance news, XIII (1960), p. 336; G. Liberali, L'episcopato bellunese di Bernardo de Rossi, Treviso 1978, p. 55; L. Perotto Sali, L'opuscolo ined. di Giorgio Merula contro i "Miscellanea" di A. Poliziano, in Interpres, I (1978), p. 174; L. Gargan, Un umanista ritrovato: G.F. e la sua biblioteca, in Italia medioevale e umanistica, XXVI (1983), pp. 257-305.