CANE, Facino
Figlio di Emanuele Cane di Casale di Sant'Evasio - della cui vita nulla si sa e che nel 1393 era morto - dovette appartenere a uno dei rami meno ricchi dell'importante famiglia casalesca del XIV secolo. Si può ritenere con una certa probabilità che il C. nacque poco prima del 1360, sia perché quando morì nel 1412 aveva quasi cinquantadue anni, sia perché iniziò la sua carriera militare molto giovane e sembra abbia combattuto nel Regno dal 1381 al 1384: ma questi sono dati non decisivi. Era certamente al servizio del signore di Verona nel 1386 e venne catturato con il grosso dell'esercito scaligero alle Brentelle il 25 giugno. Il C. accettò di passare al servizio del vincitore, Francesco da Carrara: aveva allora il comando di cento lance e fu uno dei comandanti del piccolo esercito inviato nel Friuli nell'inverno 1386-1387.
La crudeltà del suo comportamento in questa regione - crudeltà che caratterizzò sempre la sua carriera - culminò con il sacco di Aquileia del 3 apr. 1387, portato a termine, secondo il Gatari, "con grandissimo dispiacere di Dio et poi del signore di Padoa". Poche settimane dopo lasciava il servizio del Carrara: in un rapporto dal campo visconteo sul lago di Garda del 13 giugno si legge che "Fazinus Cannis accessit ad stipendium Marchionis Montisferrati cum quatuorcentum equitibus, prout intellexi" (Archivio di Stato di Mantova, E. XLIX. 3, inserto 16). La sua presenza nel Canavese è segnalata nello stesso mese.
D'ora in poi il C. rimarrà quasi costantemente coinvolto nelle confuse e caotiche vicende politiche che agitavano il Piemonte, collegato per lo più a Teodoro del Monferrato. La continua rivalità tra quest'ultimo e i principi di Acaia (quello sostenuto dal Visconti, questi dai conti di Savoia) fatta di guerricciole, di intrighi con l'irrequieta nobiltà locale, di conquiste di fortezze e di villaggi costituisce il quadro politico entro il quale il C. si costruì la propria signoria territoriale.
Nel 1387, tuttavia, la sua partecipazione alla lotta fu di breve durata ed è scarsamente documentata. Nel settembre una tregua tra i due avversari lo lasciò senza servizio: il C. ritornò allora dal Carrara. Trascorse nel Friuli l'inverno 1387-88. Nell'estate successiva dovette avere un ruolo secondario nella guerra tra i Carraresi e i Visconti, anche se il Gatari ricorda una sua scorreria nel Vicentino nel mese di agosto. Un più tardo estratto di atti notarili contiene un accenno a un "feudum in Facinum de Canibus de possessionibus de Merlino comitatus Mediolani pro annuo reditu 4000 fl." (Registro di G. Besozzi, p. 53); l'atto reca la data del 17 gennaio del 1388, ma la sua esatta corrispondenza è troppo incerta perché se ne possa concludere senza alcun dubbio che Gian Galeazzo Visconti era in rapporto con il C. sin da quella data. Ad ogni modo questi nel maggio-giugno 1390 era nell'esercito milanese inviato contro Bologna: faceva parte delle truppe distaccate da Iacopo Dal Verme il 23 giugno e inviate contro Francesco da Carrara che aveva ripreso Padova. Le truppe furono sconfitte da Giovanni Acuto e "c'è preso uno che à nome Fasino Cane" (Arch. di Stato di Lucca, Regesti, n. 1484). Era ancora nell'esercito guidato dal Dal Verme contro l'Acuto agli inizi del luglio 1391 e fu seriamente ferito in una scaramuccia presso Soncino.
Nel novembre del 1391 il C. ritornò in Piemonte. Da allora fino all'agosto del 1394, e successivamente dal gennaio 1396 al settembre 1397, fu impegnato a molestare le terre degli Acaia e dei Savoia, collegato - anche se in modo tenue - con Teodoro del Monferrato. Una copia di una lettera di diffidatio inviata dal C. e da Antonio da Cornazzano, da Riva di Chieri, al principe di Acaia, e datata soltanto con l'indicazione dell'anno 1392, dichiara che essi erano venuti a difendere gli amici che avevano nella nobiltà ghibellina dagli attacchi degli armagnacchi - i superstiti dell'esercito sconfitto ad Alessandria nel luglio 1391 - ai quali il principe d'Acaia dava rifugio e aiuto. All'inizio Teodoro respinse ogni responsabilità per le azioni del C.; e lo stesso atteggiamento assunse, quando fu interpellato, Gian Galeazzo Visconti al cui servizio il C. ancora si trovava formalmente. Perciò, quando le ostilità non dichiarate tra il Monferrato e l'Acaia minacciarono di trasformarsi in guerra aperta, il C. fu convocato a Pavia, ove il 20 nov. 1393 ricevette un mutuo "gratis et amore" di 4.000 fiorini e promise che, ove fosse stato congedato da Gian Galeazzo, sarebbe tornato al suo servizio ogni volta che ne fosse stato richiesto. Certamente seguirono le formalità delle sue dimissioni, così che egli poté scendere in campo due mesi dopo al servizio del Monferrato senza impegnare Gian Galeazzo e questi poté rispondere alle proteste dei Savoiardi di esser pronto a colpire con bando ogni suo suddito che li avesse offesi.
In realtà le operazioni militari del C., anche se conformi agli interessi di Teodoro, erano ampiamente ispirate dalla sua volontà di mantenere e arricchire se stesso e i suoi soldati. Più che di battaglie (poche sono quelle ricordate), l'azione del C. consisteva di scaramucce, di spostamenti fatti per trarre profitto dagli intrighi dei piccoli feudatari, di conquiste di luoghi fortificati e non, e specialmente dal saccheggio delle campagne. Tutto ciò serviva a mantenere unita la sua truppa a spese dei sudditi del Savoia. E le sue operazioni erano caratterizzate da un crudele disprezzo dell'umanità che doveva procurargli quella fama di ferocia che lo avrebbe accompagnato per tutta la sua camera. Le sporadiche notizie, rinvenibili per lo più nei registri della contabilità sabauda, consentono poche conclusioni sulla sua abilità militare. Sembra che il C. avesse un certo talento nel confondere i nemici con rapidi e imprevedibili spostamenti di truppa. Pare inoltre che egli nutrisse una certa preferenza per le campagne invernali, quando era forse più difficile raccogliere truppe contro di lui e attaccarlo.
Nell'agosto del 1394 una tregua pose termine alle ostilità. A partire dal 1º ott. 1394 il C. entrò a far parte, con cento lance e uno stipendio personale di 100 fiorini al mese, dell'esercito che Enguerrand, signore di Coucy, andava raccogliendo per muovere contro Genova e stabilirvi la sovranità di Luigi duca d'Orléans. Nel campo del Coucy, inviatovi da Gian Galea o, era anche il concittadino del C. Ruggero Cane: il C. ne sposò la figlia Beatrice, ma nulla sappiamo sulla data e sulle circostanze del matrimonio, né possiamo stabilire se quella fu l'occasione in cui il C. conobbe Ruggero. I Francesi riuscirono a conquistare soltanto Savona e quando la loro campagna militare si esaurì il C. passò al servizio di Antoniotto Adorno, doge di Genova. La sua condotta terminò in settembre, ma il 5 ottobre il C. riceveva la carica di "generalis capitaneus" del doge e dei Comune di Genova con lo stipendio personale di 250 fiorini e una condotta per 1.000 cavalieri e 100 fanti. È questo il primo comando generale del C. a noi noto. Probabilmente la sua condotta era considerata dai Genovesi come una salvaguardia contro gli intrighi francesi verso la Riviera e può inoltre attestare gli stretti rapporti esistenti tra l'Adorno e il Visconti. Il C. non fu impegnato in nessun serio combattimento e la sua condotta terminò alla fine del 1395: essa sta comunque a testimoniare del suo cresciuto prestigio e dell'aumentato numero di soldati al suo comando.
Il C. rientrò in Piemonte nel gennaio 1396, assoldato dal marchese del Monferrato al fine di controbattere le insistenti provocazioni di Amedeo d'Acaia. Mentre Gian Galeazzo rispondeva alle proteste di questo dichiarando di aver posto il C. "in bampnu fulcarum", il C. gettava lo scompiglio nei domini dell'Acaia, percorrendoli "more predonico" insieme con i capi di bande minori, quali Ramanzotto della Miella e Bertolino da Verona, che si erano uniti a lui sin dal 1392-93. Il suo modo d'agire può essere esemplificato dalla cattura di ducento cittadini di Chieri, i quali vennero poi rilasciati dietro il versamento del riscatto di 80 fiorini per ciascuno, "et sic vacuata est bursa hominum Cherii" (in Ghiron, p. 371, doc. 10). Dopo un periodo di calma il C. riprese la sua attività in dicembre e continuò le sue devastazioni fino al giugno 1397. La campagna del 1396-97 e il numero delle località da lui occupate fanno pensare che egli avesse ai suoi ordini un numero maggiore di soldati e che egli li guidasse con maggior consapevolezza. Ma Gian Galeazzo Visconti, impegnato in una guerra su due fronti, intervenne per porre fine al caos in cui versava il Piemonte e le ostilità cessarono alla fine di luglio.
Un racconto, che si riferisce all'inizio di aprile, indica, se vero, la crescente sicurezza del Cane. Gian Galeazzo aveva dato inizio alla mobilitazione delle sue truppe e anche il C. era stato convocato, presumibilmente in base all'accordo del 1393; ma il C. chiese tali "strani patti" che ne nacque una disputa ed egli ritornò nel Monferrato (Archivio di Stato di Lucca, Regesti, n. 1652).Forse gli "strani patti" richiesti dal C. furono accettati dopo la sconfitta subita il 28agosto a Governolo dall'esercito milanese, poiché il duca aveva assoluto bisogno di truppe fresche; il C., con 500 lance secondo il Corio, mosse rapidamente dal suo campo presso Gassino per unirsi all'esercito milanese che si trovava nel Bresciano agli ordini di Alberico da Barbiano e di Iacopo Dal Verme. Le sue truppe godevano di alta reputazione: "il fiore è la brigata di Facino Cane" si legge in un rapporto dal campo (ibid., n. 1877).Ma l'esercito aveva ben poco da fare. Una voce diffusasi nel dicembre, secondo cui il C. stava muovendo verso Pisa "con la sua brigata di 1.000 cavalli" (ibid., n. 1593), risultò falsa. Dopo la tregua di Pavia, il 2 ag. 1398 il C. è segnalato nel Bergamasco "cum una maxima brigata equitum et peditum circa M". Portò rapidamente a termine il suo compito imponendo una pace giurata - peraltro di breve durata - alle fazioni rivali che si erano combattute l'un l'altra in modo incontrollato durante la guerra. Il 16agosto, giorno della proclamazione della pace, il C. era a Pavia, ove trattava "ut societas sua habeat expeditionem utque ipsi de eius societate possint equitare quo ipse Facinus voluerit" (in Romano, 1894, doc. 394, p. 299). Il 17 settembre, sempre a Pavia, era testimone ad un atto, mentre si diffondevano voci di un suo ritorno in Piemonte. Forse fece riposare le sue truppe durante l'autunno.
Il C. entrò nel Vercellese verso la fine del gennaio 1399. Nei successivi due anni e mezzo le sue truppe scorrazzarono in Piemonte, uccidendo, devastando e catturando sudditi savoiardi per ottenerne il riscatto. Lo stesso governo di Firenze - sebbene la voce per cui il C. si preparava a guidare un forte esercito per conquistare il Regno a nome di Luigi d'Orléans si rivelasse del tutto infondata - istruiva i suoi inviati a Bologna nel novembre del 1399: "Ingegnatevi bene di saper le trame di Fazino Cane" (Arch. di Stato di Firenze, Legazioni e Commiss., 3, f. 14t. Nello stesso periodo Gian Galeazzo assolveva il C. e la sua brigata da "quibuscumque bannis ipsis datis et de eis factis", e il Corio, narrando le azioni del C. nel 1400, lo chiama "capitano del Duca". Ma, qualunque fosse l'influenza di Gian Galeazzo, anch'egli avrebbe potuto avere il controllo esclusivo di un condottiero solo qualora questi fosse interamente stipendiato da lui; così che le truppe del C. risultavano libere di andare "quo ipse Facinus voluerit", essendo egli allora agli stipendi di Teodoro del Monferrato. L'11 settembre, in parziale pagamento del soldo dovutogli, il marchese assegnava in feudo al C. Borgo San Martino. Ma quando nel novembre 1400 il marchese accettò di sottoporre ad arbitrato la sua disputa con il principe di Acaia, si stabilì che "adstrictus non sit pro Facino Cane", a meno che lo stesso C. non lo volesse. Le fonti savoiarde parlano costantemente di "guerra Facini Canis", "guerra exorta per Facinum Canem", e nell'estate del 1400 un agente sabaudo si recò persino a Parigi "per le feit de la guerre que Facin Can capitain de compagnie feit en Piemont".
In realtà il C. teneva in proprio nome i luoghi che occupava, e fu lui a restituirli al Savoia quando Gìan Galeazzo intervenne per giungere ad un accordo. Il Corio parla di una battaglia campale, avvenuta l'8 luglio 1400, nel corso della quale il C., alla testa di 1.000 cavalieri, subita all'inizio una sconfitta, organizzò rapidamente il contrattacco e distrusse il nemico. Non sembra, però, che il C. cercasse battaglie campali. Era piuttosto una guerra fatta di rapide incursioni, di saccheggi, di catture di uomini per otteneme il riscatto, di località "ignis incendio combusta et destructa". Il C. appariva come "iste drago et nequam" a coloro che soffrivano per le sue razzie, come i cittadini di Chieri e gli abitanti di Occhieppo. Ma l'investitura di Borgo San Martino (cui il C. aveva forse aspirato perché alla metà del secolo XIV era appartenuto a Franceschino Cane, capo dei ghibellini di Casale) gli dette ciò che gli era mancato fino ad allora, un posto, cioè, nella struttura sociale del tempo. Ed egli l'ottenne non con le armi, bensì in virtù di un titolo giuridico e di un atto legale. Il "gregarius miles" (Schiavina, col. 398c) si trasformava così in signore feudale.
Nel settembre del 1401 il C. rispondeva ancora una volta alla richiesta di Gian Galeazzo Visconti di congiungersi all'esercito che andava raccogliendo nel Bresciano per contrastare l'invasione di Ruperto di Baviera. Il C. era al comando, insieme con Ottobuono Terzo, delle truppe milanesi che sconfissero l'avanguardia tedesca il 24 ottobre, ponendo così termine alla lotta. Successivamente, il 19 genn. 1402, insieme con il Terzo, attraversò il Po a Ostilia e si diresse verso Mirandola. Doveva aver lasciato una parte del suo esercito in Piemonte ove - sembra - ritornò durante l'inverno. Nell'aprile fu atteso nell'Umbria per dare soccorso ai Perugini contro le forze del papa Bonifacio IX; d'altra parte, a detta del Gatari, il C. a metà aprile partecipò a un consiglio di guerra a Mirandola e a metà maggio combatté nel Bolognese. Prese parte alla battaglia di Casalecchio del 26 giugno che portò Bologna sotto il dominio di Gian Galeazzo Visconti; tra i prigionieri che caddero nelle sue mani era Francesco III da Carrara, figlio del signore di Padova. Il C. lasciò Bologna per recarsi a Milano il 2 luglio insieme con il suo prigioniero; ma durante il viaggio, a Parma, questi riuscì a fuggire, cosa che il C. condannò vivacemente quale violazione delle regole cavalleresche. Sembra che in seguito il C. aiutò gli Ubaldini, con una piccola schiera, a molestare il territorio fiorentino e subì una sconfitta presso Firenzuola il 23 agosto. Il 5 settembre arrivò a Padova un rapporto in cui si riferiva che il C. stava muovendo verso quella città. Ma in quei giorni moriva Gian Galeazzo e un nuovo periodo si apriva per tutti coloro che erano stati al suo servizio. L'8 settembre il C. lasciò Bologna per Milano (Copialettere... Carrarese, passim).
Fu presente alle esequie del duca milanese il 20 ottobre, forse come cerimoniere del corteo funebre. Dopo questa cerimonia ognuno si mosse per il proprio interesse, pur schierandosi fittiziamente per i guelfi o per i ghibellini. Per il C. il ghibellinismo, cui rimase fedele per il resto della sua vita, esprimeva in primo luogo il suo personale interesse a che la dinastia viscontea continuasse; e il ghibellinismo gli dette subito il pretesto per depredare, insieme con i Beccaria, i guelfi del Pavese. Era "capitaneus Ducis Mediolani et Comitis Papie", e come tale il 14 febbr. 1403 dichiarò di aver ricevuto 8.000 fiorini quale stipendio per sé e per i suoi uomini. La reggenza milanese, a nome dei due giovani principi, lo inviò ad Alessandria, ove si sospettava che i guelfi intrigassero con le forze francesi di Genova e il governo orleanista di Asti. In maggio il C. ricevette un incarico ancora più importante, quello di difendere Bologna dagli eserciti alleati del papa e di Firenze. Si dedicò a questo compito con la consueta durezza. Si impegnò poco o punto per conservare il contado, ma difese efficacemente la città e mantenne il pieno controllo sulla cittadinanza, fino a che una decisione politica, la pace di Caledio del 28 agosto, fece ritornare Bologna al papa. Quasi subito dopo fu richiesto ad Alessandria, ove i guelfi si erano impadroniti della città e avevano innalzato la bandiera francese. Il C. entrò in città senza difficoltà e la fece saccheggiare dalle sue truppe. A quest'epoca la reggenza milanese aveva un forte debito verso di lui: il 28 ottobre, pertanto, il C. ricevette Valenza, Montecastello e Breme in pegno per il pagamento dei 55.000 fiorini a lui dovuti "per se et brigatam suam". La "perpetua" alleanza conclusa nel gennaio del 1404 tra i Visconti e il marchese del Monferrato stabiliva che Casale doveva ritornare al marchese, ma il C. "et eius agnati de parentella de Canibus" dovevano rimanere sudditi dei Visconti: era, da parte del C., un'implicita dichiarazione di progettare il proprio futuro accanto ai Visconti. La sua azione non si limitò alla zona occidentale ove erano concentrati i suoi interessi territoriali: alla fine di gennaio, infatti, con un esercito di 3.000 uomini, aiutò Pandolfo Malatesta a recuperare - a nome del duca Giovanni Maria - la città di Brescia, togliendola ai guelfi che ne avevano assunto il controllo. Penetrò poi nel Vicentino e nel Padovano per muovere contro Francesco da Carrara. Ma il 20 marzo si spostò verso ovest: a detta del Gatari perché vendutosi al Carrara; ed è possibile che il C. abbia voluto guadagnare qualcosa dalla ritirata che ormai si profilava inevitabile. Due rivolte scoppiate a Milano avevano, infatti, distrutto il fragile controllo fino ad allora mantenuto dalla duchessa vedova; il dominio visconteo era sul punto di disintegrarsi e perciò il C. non poteva rimanere lontano da Milano.
È sempre difficile precisare la cronologia dei movimenti del Cane. Il 10 aprile era a Pavia (o nei pressi) ove gli amici Beccaria stavano aumentando il loro potere accanto a Filippo Maria Visconti, conte di Pavia. Il giorno dopo si muoveva e, passando per la Lomellina, che le sue truppe devastarono "con ogni impietà", giunse nell'Alessandrino. I guelfi avevano assunto il controllo di Alessandria e di molte località vicine. In breve il C. sottomise tutti i castelli ribelli, a eccezione di Castellazzo, entrò in Alessandria e vi iniziò una feroce persecuzione contro i guelfi. Filippo Maria lo nominò governatore di Alessandria, ma non poté impedirgli di assumere la signoria della città, poiché non gli restava altro modo per pagare il suo "capitaneum generalem et locumtenentem". In tale veste il C. negoziò la cessione di Vercelli a Teodoro del Monferrato il 23 ottobre: la Savoia aveva disegni su questa città e il C. preferì, perciò, lasciarla al suo antico signore, ora suo alleato. Fu così in grado di rispondere alla chiamata dei ghibellini milanesi agli ordini di Francesco Visconti. Il C. lo aiutò a ricacciare l'esercito guelfo guidato da Pandolfo Malatesta fino alla pieve d'Incino, dove il 7 novembre Erba, "spelunca et receptaculum hostium et emulorum", era distrutta. In questa maniera il C. riconosceva senza esitazione l'importanza di mantenere a Milano un regime a lui favorevole.
Un tale impegno su due fronti continuò per tutto il 1405. Nel maggio Filippo Maria gli concesse l'investitura di Galliate nel Novarese; e nello stesso tempo il C. si appropriò di piccole località nella Valsesia, estendendo così verso nord il suo dominio. Nella tregua generale che si concluse in Piemonte il 10 luglio egli compare sia come "dominus Alexandrie" sia come rappresentante di Filippo Maria, poiché ne assicura la ratifica dell'accordo. D'altro canto alcune fonti testimoniano la sua presenza all'assedio di Lodi tra il maggio e il luglio e alla riconquista di Piacenza l'11 giugno. Secondo il Chronicon Bergomense alla fine del mese di settembre il C. mosse di nuovo verso oriente in qualità di capitano generale del duca Giovanni Maria al comando di 6.000 uomini per aiutare i ghibellini contro Pandolfo Malatesta. Devastò il Bergamasco in ottobre, ma non riuscì a ottenere altro che una breve tregua dopo aver assediato Trezzo e attaccato il Bresciano.
Il 24 genn. 1406, alla presenza di Teodoro del Monferrato, Filippo Maria Visconti lo investì del feudo di Biandrate, conferendogli il titolo comitale.
È questo, un momento importante per la sua carriera, perché il titolo comitale dava la necessaria legittimazione alle usurpazioni. Inoltre Biandrate si trovava nel nord della regione in cui il C. concentrava la sua attività. Egli continuò a combattere in Savoia e costruì il suo dominio in Valsesia a dispetto di un'altra tregua generale alla quale egli stesso aderì quale alleato del Monferrato e dei Visconti. In aprile prese possesso di Piacenza, cacciandone Ottobuono Terzo. Egli dichiarava di agire quale "gubernator et capitaneus generalis" dei due Visconti, ma in effetti governò per alcuni mesi la città come se ne fosse il signore. La situazione politica del ducato era, però, confusa, perché i ghibellini milanesi erano stati costretti a cedere il controllo del governo a Iacopo Dal Verme, il quale, con l'aiuto di Carlo Malatesta, si mosse a restaurare l'ordine nel ducato. In questa nuova situazione politica non c'era posto per il Cane.
Egli poteva contare soltanto sull'appoggio di Pavia, ove i Beccaria controllavano Filippo Maria. Ma in settembre il governo milanese si dichiarò apertamente contro di lui ordinando a tutti i sudditi del duca di abbandonare il suo servizio. Il C. rispose assalendo la Lomellina e la sua iniziativa militare (stando ai più attendibili racconti di Donato Bossi e del Chronicon Bergomense)ebbe l'effetto di provocare un nuovo cambiamento nella volubile politica di Giovanni Mariae di riportare i suoi amici ghibellini al governo agli inizi del 1407. Il 10 febbraio il C. diveniva "dilectissimus consiliarius et generalis Capitaneus" del duca che gli restituiva la carica di governatore di Piacenza. Ma il suo trionfo fu di breve durata. Iacopo Dal Verme, con l'aiuto di Ottobuono Terzo, radunò a est un esercito, raccogliendo le forze guelfe della regione, e marciò su Milano. Il C. si mosse verso Binasco per affrontarlo. Ebbe la meglio in un primo scontro con Ottobuono Terzo e l'avanguardia, ma il rapido arrivo del grosso dell'esercito, guidato dal Dal Verme, lo colse di sorpresa e alla fine egli fu sopraffatto (il Billia fa un racconto della battaglia meno favorevole al C., ma devono essere preferite le testimonianze di Delayto, del Chronicon Bergomense edel Corio). Il C. si spostò verso Pavia, ma, inseguito dal Dal Verme, dovette attraversare il Ticino e raggiungere la sua base di Alessandria.
Il suo dominio e il suo esercito gli fornirono lo spazio e la forza necessari per superare la crisi della sconfitta subita a Binasco. Il C. mostrò di comprendere sempre meglio che il sostegno milanese era essenziale per lui. Teodoro del Monferrato, che conosceva il valore delC., stipulò nel marzo la pace con la Savoia e accettò di fungere da arbitro tra quest'ultima e il Cane. Il suo lodo obbligava il C. a rinunciare alle sue conquiste nel Vercellese e a rispettare la tregua del 1405. Il C. ratificò l'accordo a Valenza il 5 maggio. Avendo in questa maniera ridotto i suoi impegni a ovest, si mosse a est verso la Lomellina. L'intera regione, a eccezione di Vigevano, cadde nelle sue mani alla fine del 1407. E quando in settembre il Dal Verme inviò truppe nelle terre del C., questi tornò indietro e le sconfisse. Poco dopo il Dal Verme abbandonava Milano, lasciando a Carlo Malatesta il problema di far fronte al duca. Uno dei primi atti del Malatesta fu quello di proibire ai sudditi del duca l'accesso alle terre del C.: questi era ancora il nemico. Per tutta risposta il C. entrò nel Milanese e in aprile la maggior parte del Seprio era nelle sue mani. Nell'estate, però, perse il sostegno di Pavia, perché Filippo Maria, riuscito probabilmente a liberarsi del controllo del Beccaria, si era allineato con il fratello e aveva dichiarato il C. ribelle. Questo cambiamento politico dovrebbe giustificare l'assedio di Novara, che il C. iniziò in agosto, secondo il Delayto, e probabilmente terminò prima dell'inverno aggiungendo la città ai suoi domini. Tale azione, comunque, non distrasse il C. dal suo principale obiettivo. I suoi più importanti alleati milanesi, Francesco e Antonio Visconti, erano stati imprigionati in agosto; ma le rimanenti forze ghibelline si raccolsero sotto il comando del Cane. Alla fine dell'anno questi e i suoi alleati - gli eredi di Bernabò Visconti a Monza e Cantù, i Colleoni a Trezzo e Giovanni Vignati a Lodi - avevano circondato Milano. La città soffriva per una grave carestia di grano, mentre le strade di accesso alla stessa erano insicure. Il Comune era perciò ansioso, di arrivare a un accordo. Giovanni Maria dette il suo assenso il 9 genn. 1409 da Pavia ove si era recato per consultare il fratello.
Il C., maestro nell'arte della guerra, aveva però molto da imparare in quella della diplomazia. I negoziati si trascinarono per le lunghe e il C. non ottenne né l'ingresso in città né il controllo del duca. Al contrario, in marzo fu conclusa un'alleanza tra i due Visconti, il Boucicault, ora nominato, loro governatore - il quale rappresentava anche il re di Francia nel cui nome amministrava Genova -, il conte di Savoia e il principe di Acaia: "ad dispendium et exterminium" del Cane. Questi era stato ingannato. Le forze francesi, tuttavia, erano ancora lontane, mentre Pandolfo Malatesta, convocato in loro vece, non aveva alcuna intenzione di favorire gli interessi della Francia. Il C. lo convinse che il loro comune interesse a non lasciare entrare i Francesi doveva prevalere su ogni loro precedente contrasto; così che entrambi marciarono su Milano. Pandolfo entrò nella città il 7 maggio, mentre il C. rimaneva a Ronchetto. Il 1º giugno il duca si accordò con lui e gli concesse Varese e alcune località nel Seprio. La pace, che fu pubblicata il 6 giugno, era una pace tra due signori: essa stabiliva libertà di transito e di commercio tra i loro rispettivi sudditi, nonché l'estradizione di persone colpite da bando e di criminali. Pandolfo ora controllava il duca, mentre il C. rimaneva ancora escluso da Milano; le relazioni tra i due non sono chiare. Intanto in Piemonte si andavano ammassando truppe francesi e il C. mosse contro di loro. Probabilmente si impossessò, lungo la strada, di Vigevano, poiché il 3 luglio rispondeva alla petizione comunale di questi suoi nuovi sudditi. Il 29 luglio da Alessandria inviò al duca un rapporto confidenziale sulla scarsa qualità delle truppe francesi: è evidente che egli non era ancora a conoscenza del passaggio di Pandolfo Malatesta al partito francese. Boucicault fu convocato da Genova, e il 29 agosto, dopo essersi impossessato di Piacenza, accompagnato dai capi guelfi lombardi era ricevuto a Milano come governatore del duca.
Conosciuti i movimenti del Boucicault, il C. si consigliò con Teodoro del Monferrato. Incoraggiati dalle assicurazioni degli esiliati genovesi, decisero di colpire il Boucicault non a Milano, bensì a Genova, con i loro eserciti. Questi, accampatisi di fronte alla città, suscitarono una sommossa contro l'impopolare regimefrancese. Teodoro entrò a Genova il 6 settembre, con il titolo di governatore, mentre il C. - tale era la fama delle sue truppe - non fu ammesso in città. Ricevette 30.000 fiorini per i suoi servigi e ripartì per la Lombardia con 1.800 cavalieri e circa altrettanti fanti. Il Boucicault, diretto a Genova, raggiunse Gavi il 10 settembre; ma il C., attestatosi a Novi, chiuse così efficacemente i passi che il Boucicault rinunciò all'impresa, si ritirò a Pinerolo e infine rientrò in Francia. Venivano così distrutte le basi per un'efficace azione francese nell'Italia settentrionale; e il C., signore di Novi e probabilmente anche di Gavi, si mosse subito verso Milano. Una breve tregua, conclusa il 17 settembre, fu rinnovata in ottobre. Ma la lotta non poteva concludersi se non con una vittoria completa del C., dato che nessun altro esercito era rimasto a contrastare il suo in Lombardia. La pace fu raggiunta il 31 ottobre. Il 6 novembre il C. faceva il suo solenne ingresso a Milano, nominato a sua volta governatore del duca e scortato da "numerosa compagnia dei suoi fautori, e gente d'arme". Nelle poche settimane che erano trascorse dalla sua partenza per Genova, aveva raggiunto quell'obiettivo che gli era sempre sfuggito dopo la sconfitta di Binasco. Durante questi anni aveva mostrato una nuova sicurezza e maturità di giudizio nel fissare i suoi obiettivi e nell'utilizzare le sue forze per raggiungerli. Ma il suo trionfo era basato sulle conquiste di molti anni di incessanti campagne.
Con l'ingresso del C. a Milano inizia la fase finale della sua carriera. Di questo periodo, durante il quale le fortune politiche della Lombardia furono nelle sue mani, molti particolari restano tuttora oscuri. Gli atti del governo erano sottoscritti congiuntamente dal duca e dal conte di Biandrate "pater et gubernator". Non siamo in grado di stabilire se gli atti di governo erano decisi dopo che era stato sentito il Consiglio ducale; e non sappiamo nemmeno da chi era composto tale Consiglio, né se il C. operò mutamenti nella precedente composizione dello stesso. Di tali atti di governo possiamo dire che alcuni, quelli volti ad alleviare le condizioni del tormentato ducato milanese, non presentano carattere di grande originalità, mentre altri mostrano più chiaramente la mano del Cane. Egli ripristinò le scorte di grano della città, ma in cambio esigette 30.000 fiorini: doveva, infatti, mantenere un esercito e ciò rappresentava per lui la principale necessità. Fu incoraggiato il commercio tra i sudditi dei suoi domini e quelli di Milano. Inoltre con un tratto di penna fuse il suo esercito con quello del duca: doveva esserci un solo esercito ed egli doveva averne il comando. Naturalmente la sua posizione politica a Milano irritava una parte degli aristocratici; non è quindi da meravigliarsi se Giovanni Maria prestò ascolto alle loro rimostranze. Il 5 apr. 1410 nella corte dell'Arengo fu fatto un tentativo per arrestare il C., ma questi, nonostante i suoi cinquant'anni, fu più svelto dei suoi attentatori e riuscì a fuggire dalla città; da lontano fu poi troppo potente per i suoi nemici. Il governo veneziano, che vedeva in lui un baluardo contro l'intervento francese a Genova, preparò un "bonum accordium". Il C. ritornò a Milano il 6 maggio e si comportò da abile politico, dato che, a detta del Corio, non adottò misure contro gli ispiratori del complotto, ma, al contrario, fece celebrare il suo rientro con una remissione di debiti. Gli fu confermata per tre anni la sua carica di governatore e il Comune gli prestò il giuramento di fedeltà, riconoscendolo così implicitamente come legittimo signore, accanto al duca, di Milano.
Un enorme compito lo attendeva. Nel ducato restavano fortezze ribelli a Melegnano, Cantù, Monza e Trezzo, mentre Filippo Maria manteneva la sua ostilità e Lodi, Crema e Cremona erano rette da signori guelfi; tali opposizioni erano, d'altro canto, sostenute da forze potenti, come Pandolfo Malatesta - che controllava Bergamo e Brescia -, la Savoia e la Francia che intrigavano a ovest. Il C. si mosse in primo luogo contro i nemici più vicini comprando tregue, quando non riusciva a imporre la pace, con i fondi raccolti mediante sussidi imposti a questo fine ai cittadini milanesi.
Il suo obiettivo principale rimaneva Pavia; i suoi preparativi furono molto accurati e segreti. Alla vigilia di Natale del 1410 i suoi antichi amici, i Beccaria, fecero entrare in città le sue truppe che saccheggiarono con la consueta precisione. A Filippo Maria non restava altra scelta se non quella di arrivare a un accordo. Le fonti concordano nell'attestare che il C. lo trattò duramente, lasciandogli il titolo, ma non il fasto del potere: doveva ancora bruciargli il ricordo degli inganni subiti in passato, oppure gli era ben chiaro il pericolo costituito dall'astuzia di Filippo Maria. La "pax et concordia" tra i due fratelli Visconti fu celebrata l'11 genn. 1411: "fraternum bellum, cohoperante pacis Auctore, in pacis dulcedinem est conversum". Era una pace che si fondava sulla comune soggezione dei due fratelli al volere del C., il quale era il solo a poter dare un indirizzo politico unitario ai due centri del governo visconteo.
Dalle poche notizie pervenuteci ricaviamo che il C. trascorse a Milano la maggior parte del 1411, lasciando Pavia nelle mani di castellani fedeli. Alcuni risultati furono raggiunti nell'azione volta a ripulire il Milanese dai ribelli; ma ad occidente la persistente avanzata di Amedeo VIII era fonte di serie preoccupazioni. Il conte sabaudo, ottenuta la sottomissione dei Comuni della Val d'Ossola, andava progettando una lega tra Savoia, Acaia, Monferrato e Orléans e nel contempo aveva contatti con Pandolfo Malatesta che era disposto a stringere un'alleanza "contra Facinum". Ma Amedeo allaguerra preferiva una penetrazione pacifica e i suoi metodi resero il C. incerto. In ottobre egli fu provocato in una sorta di "diffidencia", che poi lasciò cadere dopo aver ricevuto assicurazioni di pace. Il C. preferiva lottare contro un nemico aperto. Alla fine del 1411 fu annunciata a Milano una riforma fiscale: un "datium doanne generalis" doveva sostituirsi ai "talleis tassis mutuis et aliis consimilibus oneribus, que comprehendimus esse causa destructionis" di Milano e dei suoi cittadini. Le fonti non dicono se tale riforma - evidentemente disposta per affrontare l'urgente bisogno finanziario che le difficoltà di attuazione del vigente sistema tributario non potevano sanare - fu realizzata.
Nel genn. 1412 il C., ancora una volta in inverno, lasciò Milano con un esercito per attaccare e distruggere Pandolfo Malatesta. Senza aver incontrato grandi difficoltà e dopo aver preso Soncino, giunse a Bergamo e pose l'assedio alla città. Il 31 marzo aveva occupato un avamposto nel suburbio. Ma la durezza della campagna lo aveva troppo provato: ammalatosi - "dolori di fianchi e podagra" a detta del Corio - dovette essere trasportato a Pavia. Il C. era allora l'unico possibile garante dell'ordine nel ducato: appena fu chiaro che era in fin di vita, si aprì di nuovo la via alla violenza e alla congiura contro il duca. La mattina del 16 maggio Giovanni Maria veniva assassinato a Milano; poche ore dopo, secondo le fonti più attendibili, il C. moriva a Pavia. Il Billia e Donato Bossi ricordano le ultime disposizioni che il C. dette dopo aver saputo dell'assassinio del duca: raccomandò fedeltà a Filippo Maria, legittimo erede del ducato, e propose il matrimonio tra la propria vedova e questo, che avrebbe avuto così a disposizione le risorse, le terre e l'esercito necessari per imporre i suoi diritti nel ducato. Non sappiamo se la paternità di questo progetto spetti più a Filippo Maria o al C., o a quelli che erano intorno a lui, come Bartolomeo Capra, futuro arcivescovo di Milano, deciso ghibellino e "valde gratus" al C., o Antonio Bossi che a lungo era stato al servizio del Cane. Era, quella, comunque l'unica soluzione che offriva prospettive di mantenere integra l'eredità di Gian Galeazzo Visconti. E così accadde, e l'esercito del C. ebbe un ruolo importante nella realizzazione del progetto, mosso probabilmente da un certo senso di lealtà verso il suo antico capo. Nei giorni successivi alla morte del C., tuttavia, la pericolosa situazione politica venutasi a verificare non lasciò tempo per riti solenni: il C. fu sepolto senza cerimonia tre giorni dopo la morte nella chiesa di S. Agostino di Pavia e sulla sua tomba non fu mai posta un'iscrizione o un monumento.
Il C. riuscì a conquistare un potere politico che mai un condottiero aveva raggiunto prima di lui. La crisi del ducato milanese alla morte di Gian Galeazzo Visconti fornì l'indispensabile ambiente per la sua ascesa che egli riuscì a realizzare pur essendo privo, al contrario di molti dei suoi avversari, di una tradizione familiare di signoria cittadina basata su risorse feudali. D'altra parte, però, le guerre che egli aveva combattuto in modo quasi ininterrotto per quindici anni in Piemonte, pur mostrando soltanto modeste ambizioni territoriali, glifecero acquistare una impareggiabile esperienza delle severe tecniche di cui poi si valse per conquistare il potere e per le quali guadagnò una formidabile reputazione. È difficile valutare le sue capacità di condottiero, perché i contemporanei hanno lasciato scarsi commenti al riguardo; egli combatteva poche battaglie aperte e solo una, la sua sconfitta a Binasco, ebbe un risultato militare decisivo. Certamente contengono una parte di verità i racconti del Gatari che esalta il comportamento militare del C. a Brescia nel 1401 e a Casalecchio nel 1402. Il Redusio ricorda di averlo visto, probabilmente a Padova nel 1386-87, e scrive: "nec meo recordatu quemquam alium melius nec pulchrius equitantem vidi". Il suo successo dipese largamente dall'abilità con cui egli riuscì a mantenere e ad accrescere il suo esercito guidandolo in imprese gradite ai soldati; i calcoli dei cronisti differiscono tra loro, ma si può dire che a partire dal 1405, quando spesso si trovò impegnato su due fronti, il C. riuscì a mettere in campo 5 o 6.000 uomini. Visse per lo più di saccheggi e di brutalità compiuti insieme con i suoi soldati; perciò l'opinione generale dei contemporanei lo condannava, così come condannava altri - Ottobuono Terzo, ad esempio - certamente non migliori di lui. Uberto Decembrio, che lo chiama "spurchus homo et nequam, de stercore ad tyrannidem evectus", aveva sofferto, la sua prigionia. Ma anche altri contemporanei, meno prevenuti contro di lui, lo dipingono negli stessi toni: tipico è il commento del Billia: "vir (preter hoc quod armorum strenuus aliquando) omni vita nequitiae cultor". Inoltre le lamentele di numerose piccole comunità piemontesi e lombarde offrono una viva testimonianza delle sofferenze da lui causate. Al suo attivo si ricorda soltanto un episodio di civica pietà, la restituzione a Casale delle reliquie di s. Evasio da lui compiuta dopo la conquista di Alessandria. Bisogna comunque tener presente che la brutalità dei suoi metodi lo portò al successo in un ambiente politico in cui un condottiero più raffinato e meno spietato di lui, come Iacopo Dal Verme, restò soccombente. In simili circostanze la sopravvivenza dipendeva dal potere politico. Il C. lo comprese bene; e una volta conquistato questo potere, si mostrò non del tutto privo di senso politico. Trattò con durezza i suoi signori nominali perché la sua sicurezza dipendeva dal mantenerli assoggettati alla sua volontà. Non si può certo dire se questa situazione fosse destinata a durare a lungo o se invece il C. pensasse a sbarazzarsi di quei signori. La seconda ipotesi appare, però, poco probabile, perché egli rimase sino all'ultimo essenzialmente un uomo d'armi, interessato innanzi tutto ai piani militari e ai problemi che solo la guerra poteva risolvere.
Le fonti in nostro possesso non offrono molti chiarimenti circa il modo in cui egli esercitava il potere civile nelle terre sottoposte alla sua signoria e in particolare non lasciano capire se egli operò attraverso la sua organizzazione militare, o se invece adottò in embrione il modello del governo visconteo. Secondo il racconto del Marzagaia, riferentesi probabilmente alla sua campagna nella Marca Trevigiana nel 1404, egli presiedeva un tribunale competente a giudicare delle lamentele sporte contro il comportamento delle sue truppe. Inoltre la sua risposta alla petizione indirizzatagli da Vigevano nel 1409 lo mostra pronto a interessarsi della gestione del governo nonché dei suoi diritti e di quelli della sua "camera". Conosciamo i nomi di alcune persone che furono a lungo al suo servizio. Antonio Bossi, che fu suo procuratore quando il C. ebbe la condotta da Genova nel 1395 e quando ricevette in feudo Valenza nel 1403, fu infine accanto al suo letto di morte. Un giurista, Gianfrancesco da Sartirana, suo procuratore nel 1405 e uno dei suoi vicari nel 1407, restò al servizio della vedova del C. e del secondo marito di questa e fu consigliere del duca nel 1417. Ser Iacobino de Gambis fu capo della segreteria del C. nel 1407 e nel 1409.
Il C. non lasciò figli legittimi. Suo fratello Filippino, che aveva combattuto con lui (compare nel Veronese nel 1386, nel Genovese nel 1394-95 e a Bologna nel 1403), ricevette la contea di Biandrate. Era persona insignificante e poco si sa di lui; Biandrate passò nel 1424 ad Angelo della Pergola. Un altro fratello, Marcollo, compare in un documento del 1412, ma null'altro si sa di lui. Il C. aveva due nipoti che furono al suo servizio, Ludovico e Manfredo, i quali ottennero - non sappiamo se per concessione o se con la forza - una piccola parte dell'eredità dello zio; nel 1413 tenevano Borgo San Martino Novi, Gavi e località minori ed erano diventati tanto turbolenti che Filippo Maria decise di sbarazzarsi di loro. Filippo Maria, grazie al suo matrimonio con la vedova del C., Beatrice, entrò in possesso della maggior parte delle terre del C.: Alessandria, Novara, forse Tortona (sebbene non si conosca con sicurezza se e quando il C. si impadronì di questa città) e località minori da Valenza e Breme a Varese e Vigevano. Allo stesso modo entrò in possesso di un esercito e di condottieri valorosi, tra i quali il Carmagnola, che doveva dimostrarsi il miglior allievo del C.; furono questi i mezzi con cui Filippo Maria riuscì a restaurare il dominio visconteo. Inoltre in virtù di essi la carriera del C. costituisce un anello essenziale tra l'opera di Gian Galeazzo e quella di Filippo Maria: un'eredità politica che il C: non rifiutò mai apertamente, e che nei suoi ultimi tempi sembrò accettare coscientemente. Ma i suoi contemporanei videro il C. soltanto sotto il profilo espresso dal cancelliere genovese Giorgio Stella nel suo obiettivo epitaffio: "quem valde Lombardi timebant".
Fonti e Bibl.: La biografia più recente è quella scritta da N. Valeri (1940) sulla base di un approfondito esame delle fonti. Pur offrendo un'interpretazione personale del C. e pur essendo piuttosto debole per quanto riguarda gli ultimi anni della sua vita, lo studio del Valeri è essenziale. La più completa documentazione è costituita dagli atti del governo e delle castellanie del Piemonte, dell'Archivio di Stato di Torino, studiati e parzialmente pubblicati, insieme con materiale tratto da altri archivi, dal Ghiron, dal Gabotto, dal Galli, dal Cordero di Pamperato e dal Valeri nelle opere qui di seguito citate. Ulteriori dettagli sulla vita del C. si potrebbero rinvenire nella corrispondenza delle cancellerie italiane, finora rimasta inesplorata. Si veda anche: D. Bossi, Chronica Bossiana, Mediolani 1592, ad ann. 1402-1412; Chronicon Estense, in L. A. Muratori, Rer. Ital. Script., XV, Mediolani 1729, col. 523; Annales Mediolanenses, ibid., XVI, ibid. 1730, col. 817; Ordo funeris Iohannis Galeatii vicecomitis, ibid., col. 1027; G. Stella, Annales Genuenses,ibid., XVII, ibid. 1730, coll. 1220-1224, 1238, 1242;I. Delayto, Annales Estenses, ibid., XVIII, ibid. 1731, coll. 964-1083;A. Billia, Historia, ibid., XIX, ibid. 1731, coll. 17, 29-39;A. De Redusiis, Chronicon Tarvisinum, ibid., coll.809-811;A. de Ripalta, Annales Placentini, ibid., XX, ibid. 1731, coll. 870 s.; L. Bonincontri Chronicon, ibid., XXI, ibid. 1732, coll. 427 s.; Benvenuto di San Giorgio, Historia Montisferrati, ibid., XXIII, ibid. 1733, coll. 645, 658, 661, 670, 678; Chronicon Bergomense, in Rer. Ital. Script., 2 ed., XVI, 2, a cura di C. Capasso, ad Ind.;G. e B. Gatari, Cronaca carrarese..., ibid., XVII, 1, a cura di A. Medin-G. Tolomei, ad Indicem; Corpus chron. Bonon., ibid., XVIII, 1, a cura di A. Sorbelli, III, 1351-1425, ad Indicem;P. C.Decembrii Vita Philippi Mariae, ibid., XX, 1, a cura di A. Butti-F. Fossati-G. Petraglione, pp. 18-20, 170-177, 205-209; Diurnali del duca di Monteleone, ibid., XXI, 5, a cura di M. Manfredi, p. 39;C. Morbio, Codice Visconteo-Sforzesco, Milano 1846, docc. 35, 37-39, 41-43;G. Della Chiesa, Cronaca di Saluzzo, a cura di C. Muletti, in Monumenta historiae patriae, Scriptorum, II, Augustae Taurinorum 1848, coll. 1050-1057;G. Schiavina, Annales Alessandrini, a cura di F. Ponziglione, ibid., III, ibid. 1863, coll. 398-408;B. Corio, Storia di Milano, a cura di E. De Magri, II, Milano 1856, pp. 410-512; L. Osio, Documenti tratti dagli archivi milanesi, I, Milano 1864, docc. 265, 272, 280;J. Servion, Gestes et chroniques de la mayson de Savoye, a cura di F. E. Bollati, Torino 1879, II, pp. 255 ss.; Marzagaia, De modernis gestis, in Antiche cronache veronesi, a cura di F. e C. Cipolla, in Monum. stor. pubbl. dalla R. Deput. veneta di storia patria, s. 3, II (1890), ad Indicem;G. 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